§ MEMORIA E INNOVAZIONE NELLA MASSERIA FANI

"MEDITERRANEA", OVVERO NASCERE A SETTE ANNI




Toti Carpentieri



Forse è quel sentire "nei monti la nostalgia del piano" che ci spinge a ritornare in questo Sud estremo in cui i centottantacinque metri di Montesardo, in quel di Alessano, ai piedi della Serra dei Cianci, appaiono rilievi montuosi da guardare con simpatia ed affetto, alla stessa maniera delle memorabili "tre colline" della nostra infanzia leccese. E accade, allora, che ciò avvenga specialmente in estate, per liberare i polmoni dai vapori sulfurei e dal piombo di traffici congestionati, cercando nel silenzio della campagna, nell'azzurro del mare e nella costante visibilità solare rinnovate "modalità" di vita. Talvolta portando con sé i nuovi amici (Longobardi taluni, galli gli altri, ed altri ancora perfino etruschi se non del tutto "estranei"), talaltra i vecchi "indigeni", ancor più spesso mescolando gli uni agli altri nella realtà delle ferie agostane.
Il Capo di Leuca è la meta di questo lungo viaggio verso il Sud, ristando tra l'estremo lembo d'Italia e le marine di Ugento, là dove le torri hanno un nome: Pali, Mozza, Vado, San Gregorio, Marchiello, sorgendo improvvise in paesaggi di una deserta bellezza, in un rincorrersi di terre rossastre e di pietraie scolpite dal vento.
Qui, a ridosso della costa di Salve, nel latifondo baronale della Masseria Fani che custodisce le tracce dei Colonna e dei Wenspeare di Depressa, molti sono tornati, e altrettanti sono giunti: Rosario Scrimieri, Armando Marrocco, Ambrogio Tresoldi, Paolo Ragazzi, Bruno Bruni Alti, Chicca Colombo, Graziano Ghiringhelli e quindi Denis Bedeschi e altri ancora, mescolando le lingue, le memorie e i desideri. Occupando le pagghiare, questi strani trulli di origine messapica una volta rifugi temporanei, dando nuova freschezza ai segni tracciati con la calce, e facendo risuonare di grida e di canti l'impervia gravina che moltiplica l'eco ed esalta a dismisura gli odori: quello del mare, dei "millafanti", pasta casareccia in brodo di gallina, della "scurdiata", zuppa di pane e legumi, e ancora del polpo in umido, o del verdeca bianco.
E il ritrovarsi in questa realtà geografica al limite dell'irreale, per la bellezza dei luoghi e per quanto si cela in essi di storia e di ricordi, ha spinto e spinge questi amici, e con loro altri ed altri ancora, a cercare una sorta di rinnovato momento d'aggregazione l'aperto", declinato tutto in estrema libertà, nel nome e nel segno dell'arte, o meglio delle arti, in una interdisciplinarietà evidente e contemporanea che proprio nel luoghi - questi, effettivamente questi: ma non soltanto, poi - trova la sua consapevolezza e il suo giusto momento d'attuazione.
Così, nelle notti d'estate, o meglio in alcune di esse, e più precisamente in quelle che si irradiano dalla centralità del mezzagosto dedicato all'Assunta, in un rincorrersi di "fuochi" che, al tempo stesso, sono segnali e difesa, salvaguardia e richiamo, le pagghiare si animano, rimandando gli amici, i poco noti e gli sconosciuti del tutto (ma solo un attimo prima), da un luogo all'altro, da un incontro all'altro, in un tacito ma non certo silente appuntamento destinato a rinnovarsi anno dopo anno. E questo, da tempo.
Al di là di certe episodicità, smarrite nella stessa memoria, è nel millenovecentonovantuno che ravvisiamo l'incipit di un qualcosa che solo nel tempo avrebbe assunto - come in realtà è accaduto - una dimensione più ampia anche se ancora non del tutto organica e finalizzata.
Nella spazialità plurima ed architettonica che Rosario Scrimieri ha recuperato nel rispetto dei luoghi e delle "maniere", il grico antico della Bottega del Teatro di Zollino suggestiona e coinvolge i discendenti di Enea ma anche chi si riconosce soltanto - e per motivi vari - nella "Milano da bere". Ma sono i tre appuntamenti dell'anno successivo - il nove, il dodici e il quindici di agosto del millenovecentonovantadue - a dare una sorta di immagine festivaliera a quanto si va facendo, spostandoci tutti insieme dalla pagghiara di Scrimieri a quella di Armando Marrocco, in una progressiva ,,messa a fuoco" che si rivelerà fondamentale negli anni a venire, proponendo tradizione e avanguardia, tempi recitati e quello che si può definire il "teatro d'immagine".
Pierpaolo De Giorgi e i tamburellisti di Torrepaduli propongono testi e musiche tradizionali elaborati dallo stesso De Giorgi e da Gino Ingrosso secondo arrangiamenti particolari a cui le esecuzioni conferiscono una specie di jazzistica unicità. La tiritera del "campanaro di Nardò" riemerge dall'oblio spiazzandoci e sorprendendoci, allo stesso modo di quanto accade con "Mmacarì e mmacarà", con la "Pizzica d'amore" o con "La tarantata", in un crescendo di suoni che si rifrangono tra cespi e pietre.
Subito dopo, o quasi, Armando Marrocco con "Mulini di pietra" propone una performance in cui la scultura e la musica creano una sorta di "passo a due" che coinvolge e informa i luoghi e le cose. Per la prima volta scopriamo nuovi "strumenti" naturali: le campane di marmo cilindriche e il nastro metallico sonoro lungo trenta metri, oltre che i gong appesi agli alberi, con gli Hyperprism/Percussioni a muoversi lungo le note ordinate da Fernando Sulpizi, mentre la ieraticità dell'artista sciamano focalizza l'attenzione persino di un gruppo di quattrocento pecore ignare, sorprese poi dal fragore di uno scoppio improvviso. Tutto è essenziale, ed evidenzia e sottolinea quell'intimo rapporto esistente tra l'uomo e la natura, l'archeologia e l'arte contemporanea.
Il rapporto creativo con Sulpizi e la presenza ormai amica di Emanuela Dentini - il flauto - e di Leonardo Ramadori, Gianluca Saveri e Gianni Maestrucci - le percussioni -, saranno una costante degli incontri nella pagghiara di Marrocco, ripetendosi in modo sistematico ogni dodici d'agosto e aprendo così, di fatto, quel continuo muoversi fra tradizione e avanguardia, tra innovazione e memoria che abbiamo chiamato "Mediterranea".
"Japigia. Le orme del tempo", "La lampada di Diogene" e "Grecos. Controdanze" altro non sono che i titoli dei successivi appuntamenti, rivisitando i miti e consentendo allo spettatore di avvicinarsi alle moderne ricerche espressive, sempre più affascinato da una bellezza formale a sensorialità multipla: i grandi vassoi metallici pieni di sassi rimandano all'imponente botte e quindi ai tamburi sotterrati o al sordo e "diluito" sonoro dei palloncini forati, mentre la siringa di Pan risuona nel crepitio dello smisurato sudario che si infiamma tra i fumi colorati, divenendo frammento da collezione e memoria del "fatto" e della propria partecipazione.
Nel frattempo Rosario Scrimieri, avvalendosi della preziosissima collaborazione di Salvatore Masciullo, ferma la sua attenzione nei confronti di un teatro di non consumo, recuperando la teatralità salentina così ricca di autori e di interpreti.
Partendo dalla riconosciuta assenza di un teatro nazionale, ovvero dalla mancanza di una realtà unica ed omogenea a cui far riferimento nella rappresentazione dei "modi di essere" e quindi del "costume", ecco che alcuni esempi come quelli del filosofo napoletano e del borghese lombardo si manifestano sempre più in una recitazione vernacolare ormai fuori dagli angusti confini regionalisti, in un processo di "diffusione" quanto mai fedele alle situazioni iniziali, ai fatti e ai luoghi.
E non è un caso che il pubblico - anche quello a cui il dialetto salentino sembra quasi "arabo" -, alla fine, avverta la necessità di vedere e di sentire un autore che gli racconti le "storie" di questa terra, facendo sì che - ben oltre ogni cosa - ci si possa riconoscere perfino nei panni dei personaggi stessi della commedia. Divenendo, allora, "attore" e rivestendo quasi il ruolo del coro, nel continuo riproporsi del meccanismo della simulazione.
Così il Gruppo Artistico Culturale di Palmariggi propone la teatralità popolare di Raffaele Protopapa mettendo in scena "Na causa alla Pretura", mentre l'anno successivo la Compagnia Media-Mass, Laboratorio by Media 2000 Melpignano (Le) con 'Il Teatro a Malandrino" parte dal romanzo di Rina Durante dall'omonimo titolo o quasi (Tutto il teatro a Malandrino. Vita e spettacolo in un paese del Salento, Bulzoni, Roma, 1976) per un adattamento finalizzato a farei comprendere come vita e spettacolo siano strettamente connessi, passando dall'uno all'altra e viceversa in maniera quasi automatica e confusionaria.
Ma questo non vuol dire, forse, individuare nella stessa vita una costante tendenza a teatralizzarsi, divenendo rappresentazione di se stessa, e quindi "esibizione" plurima di segni, di immagini, di riti, di verità e di falsità?
E in questa adesione agli schemi funzionali e quanto mai praticabili della commedia dell'arte, così cari al teatro popolare di Raffaele Viviani e alla tradizione comica e farsesca che ci rimanda facilmente a Molière (ma quanti riferimenti e quanti nomi potremmo fare ripercorrendo gli anni tutti della storia dell'uomo?), ecco Vincenzo Abati, destinato a giocare una parte preponderante in questi abituali incontri di mezz'agosto.
Sono state, infatti, tre sue commedie burlesche a susseguirsi negli ultimissimi anni, da "Lu Scazzamurreddhu" con l'Associazione Culturale Solarium a "Focu meu 'mpizzicatu" e al recentissimo "Sutta 'sti chiari de luna", entrambi con il Piccolo Teatro Scorranese. In esse Abati, autore e al tempo stesso regista, fa sì che gli aspetti tutti del teatro popolare possano riemergere non solo nella sequenzialità dei testi quant'anche in quello che è il loro successivo porsi in teatralità, costruendo sequenze sempre frizzanti, sovente legate anche all'attualità di certi riferimenti che, a nostro avviso, contribuiscono al sempre più ampio coinvolgimento di quel pubblico eterogeneo sopra evidenziato, superando le ovvie difficoltà insite nella comprensione del "linguaggio". Lungo il filo della continua invenzione le scene si determinano ed articolano, talvolta riflettendosi come in un gioco di specchi.
Le praticabili architetture della pagghiara, allora, si integrano molto bene con le reminiscenze insite in questo teatro, divenendo palcoscenico e quinte, oltre che suggestiva platea: la farsa, l'ironia, il dramma attraversano le pietre pregne di storia, aggiungendo ulteriori segni a quelli già esistenti, anche quando si sarà spenta quella spirale di fuoco - e che segno! - a lungo visibile nella notte.
E permane, durevole negli occhi e nella memoria, l'immagine fantasmica di quel David che richiama il rispetto dei patti tra angoscia e ilarità, e con essa anche quella della grande barca, arenata e colma d'acqua, dell'ultima "azione" di Armando Marrocco ("Gli aromi dei misteri", ancora una volta con le musiche di Fernando Sulpizi e per l'esecuzione degli Hyperprism/Percussioni) tra nuovi fumi colorati e ritmi battuti nell'acqua, avvolti tutti in un olfattivo e reale coinvolgimento, ben oltre la profumata letterarietà di Suskind.
Questo è, alla fine, "Mediterranea. Memoria e innovazione nella Masseria Fani", un esercizio sull'arte e sulla storia, mescolando insieme parole, suoni e figurazioni.
Ma che cosa, in realtà, potrebbe essere?
E d'improvviso riemerge in noi - ma non solo - il senso della "contrapposizione" che è quasi alla radice di quest'incontro plurimo, privato ma non troppo, che s'avvia a divenire finalmente -occorre, però, un moltiplicarsi degli eventi, coinvolgendo la danza ed ancor più la musica, e quella "territorialità" di confine che mescola il visuale alle altre sensorialità - un'autentica realtà festivaliera in questo Sud che rivendica, solo a parole talvolta, la sua centralità mediterranea: ovvero dell'essere nel mezzo delle terre, e quindi anche del tempo.
Nella ricerca delle concordanze e delle discordanze potrebbe, allora, verificarsi anche il superamento del ruolo del luogo, riconoscendo ad esso, però, uno status determinabile ma sempre "indefinito", ritornando a discutere sul concetto di "centro", una volta spossessati dalla temporalità. Che sia proprio questo il fascino e il futuro di "Mediterranea"?


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