Le Giravolte




AA. VV.



L'Africa di Silvestri

"L'estremo pinnacolo si innalza sin quasi al livello dell'altopiano al quale è legato da un istmo dirupato e sottile, come un faro di roccia su un fiordo tortuoso e vulcanico. Alla base lo avvolge il fiume Mugher come una cintura d'argento; la cima è sempre nimbata di nebbia o di nubi piovasche. Si chiama Ullicciò - come dire "belvedere" - ed ha la forma dei monti che disegnano i bimbi che non li hanno mai visti".
Da Ullicciò alla caduta di Asmara si snoda la trama di Tempi d'Africa, sei racconti di Franco Silvestri. Dal '39 al '42, teatro d'azione principale è quel cuore di tenebra che sono l'acrocoro abissino, i "monti ancora inesplorati", i fiumi, le valli, le rocce, i grovigli verdi, i villaggi, le piste, il fango di una terra sospesa "in un ultimo ineffabile equilibrio di innocenza, stranito paradiso di silenzio". Un paradiso lacerato dalla guerra, perduto un poco ogni giorno. Sembrerebbe la guerra il filo conduttore di queste pagine. Non quella di trincea, né di battaglie frontali o di strategie giocate su uno scacchiere intelligente. Ma quella delle imboscate, delle sortite, delle rappresaglie, del saccheggio: una guerra di guerriglie feroci che attraversano tutti questi frammenti biografici, dando loro unità narrativa e ricomposizione di memoria storica. Sembrerebbe. Perché in realtà c'è soprattutto un diverso tessuto connettivo; c'è un alone magico che rende la sintassi narrativa spesso vicina ad una raffinatissima scrittura poetica: "Bella è la sosta in un'ansa boscosa del fiume sotto grandiose muraglie di roccia; sonore per lo scorrere delle acque sui ciottoli levigati e sorprendere la musica che fa al tramonto la corrente, parole di eternità, nostalgie del mare remoto, scandite chiare sotto il cielo crepuscolare striato di verde e di viola mentre si alza diritto il fumo a formare una immobile ala alta sopra il bivacco. E la voce del fiume soverchia il canto dell'uomo tra le gole che lentamente si colmano d'ombre".
"Fatto di cronaca in paradiso" è la prima, e la più lunga, delle sei testimonianze che non emergono solo dalla storia, ma dal cuore stesso dell'avventura, dalla condizione umana che si rivela nella sua precarietà, stretta nell'emergenza, costantemente contigua al naufragio; e dall'incanto che gli anni non sono riusciti a cancellare, se il filo della memoria è così vivo nell'evocazione, nelle suggestioni liriche, nella preziosità espressiva.
aldo bello

 

Torna poesia

Nelle settimane più calde dell'estate 1996 sorgono, in diversi osservatori di cose sociali e culturali, alcuni interrogativi. Primo fra tutti: torna davvero poesia? E da dove; verso dove?
Un incontro salentino del poeta Sanguineti con tanti giovani-anziani lettori; inaugurazione di una grande fontana alla "Poesia" quasi sulla battigia della jonica Torre Lapillo, su iniziativa del forte poeta in dialetto Erminio Caputo, d'uno scultore e di tanti "spontanei" popolari sostenitori; una voce del critico-professoressa Albarosa Macrì conviene con una mia riflessione, secondo la quale poesia, senza la presenza in se stessa di un "oltre", è quasi vano e labilissimo sforzo di vita, di studio, di speranza.
Dunque vai d'estate, per convegni letterario-poetici e ti imbatti, inaspettatamente direi, nell'Ente Provincia (Presidente Lorenzo Ria, Assessore Margarito, regista sensibile Peppino Conte funzionario-poeta) e nell'Ente Comune del caso Carpignano Salentino (Sindaco Calò e Assessore delegato in Serrano, De Donno) colla conduzione di Anna Grazia Doria, de "l'Immaginazione" di Piero Manni, che stampa e dona per l'occasione, sempre per conto degli enti promotori, ultime composizioni di un discusso ma navigatissimo Autore, Edoardo Sanguineti. Ma come? Al Sud-Salento, da tanto tempo e per tanti quasi-Africa, il potere sospettatissimo e vituperato dei nostri anni chiamaascolta-propone, fra musiche settecentesche e jazz brillante-pensoso-vitale, nientemeno che "poesia"! Ecco, a margine, libere laiche e molto mobili mie considerazioni. Fra i soliti e "non perituri" dubbi.
La sera del 25 luglio, giovedì, atrio-cortile d'un palazzo gentilizio di Serrano (Lecce), il paesino civilissimo, con Autorità e "operatori" molti di cultura, concretamente-simbolicamente offre olio salentino a Edoardo Sanguineti appunto, poeta ribelle-celebrato e forse molto equivocante-equivocato negli ultimi decenni.
Una platea di uditori e cultori del profondo SuditaliaEuropa, Mediterraneo insomma, si pone attenta, e silenziosa perfino con giovanissimi e infanti, all'ascolto di parole, prima sul "compositore" poi del "compositore", come egli (traspare!) si ritiene. E difatti i riferimenti a Schubert e a Schomberg e dodecafonia, e dissonanze-assonanze di questo nostro secolo, si sprecano, insieme con quelli alla pittura (sempre sorella a poesia-musica) di Tiziano e Picasso e informali-astratti e pop-artisti, e quant'altri. Tutto è perfetto e privo di smancerie "smaccate" nei "salutatori" e nei presentatori, gente di primo piano ma un po' troppo impacciata-stringata, e forse un po' severa con se stessa. Nell'atrio-cortile si raccoglie e si autoconsulta la cultura e l'arte poetica dell'oggi, che è ormai il Duemila. E ci sono persone e curiosi di popolo, "estimatori" istintivi non addetti ai lavori: una piccola luce, o una profonda speranza?
Andiamo all'ascolto. La mia scelta giovanissima (1951), dice l'autore, fu per gli esploratori di questo nostro secolo: il che spiega la lunghissima marcia del suo "sperimentalismo", che passa per i "Novissimi" e Palermo '63. In cui, ormai è storia, ci si ribellò, come si dice, all'acquisto, o già detto-ridetto. Il poeta non chiude questo discorso, mi pare, ma lo sottintende come viatico, indispensabile allo studio della contemporaneità e, a tratti, del "se stesso". Primo segno d'una responsabilità e autoperdonante interiorizzazione d'ogni nuovismo cercato/raccattato/depurato, ma di tanto in tanto, in poesia semplice e delicatissima, illuminato. Ricerca, a me pare, istintiva-incontenibile (e riluttante-rabbiosa) di Assoluto: spiritualità, fiato immortale dell'Io.
Ora qui, al memorante mio ripasso-ascolto della serata, mille e mille rami fremono al libeccio sostenuto: in selva, si protendono-discendono all'Azzurrissimo del Canale d'Otranto, che nella città-martire fu poi detto Amarissimo. E vien fatto di pensare che, come un popolo di ulivilecci-pini corre, per rocce dure impervie o candide battigie, al primigenio mare d'ogni vita, così persone e popoli cercano da sempre consolazione se non spiegazione dell'existenz in ogni autentica poesia. Rara e preziosa compagna di viaggio fra i mali del mondo, anche se spesso naufraga in terraferma fra tutti gli "ismi" stracchi ma impenitenti degli ultimi secoli. E siamo ormai fin sotto a un duemila libero, e forse rigenerante.
La "lettura" di Sanguineti-autore ha un'intonazione ribelle-sedicente-maldicente, blasfema solo nell'intenzione e nella forma, aliena a sostanziali volgarità; quella certa intonazione alla Cecco Angiolieri o "impiccata" al seguito di François Villon che serve solo a trovare per "Novissimum Testamentum" dell'Ottantatre un "utile" stile da iconoclasta, ma senza definiti obiettivi su uomini e cose. In concreto, neologismi da libri e "da strada"; libero metro per una "ottava" da racconto popolar-medievale, una cantata serio-ironica e a tratti forzata-sarcastica, antica e nuova quanto i mali del mondo; crisi dei linguaggi insomma, in quotidiani "arrangiamenti" lessico-sintattici; storia-mondo-vita-lavoro e soprattutto raffinata cultura-intelligenza, uguale a "hebel" o vuoto-vanità, da aramaico-ebraica concezione ed espressione di Qoelet. Sì, il pessimismo e la terrestrità gioiosa dell'Ecclesiaste, l'Autorità del pensiero indiscusso, proprio perché stupefatto e indiscutibile, dell'Antico Testamento: esso infatti risultava fermo, o perlomeno interdetto innanzi al Mistero dell'azione divina e della "Promessa", realizzata poi nel Vangelo.
Ahi, miscredenza caparbia e irrazionale di tanto Novecento, via fluente al comodo e ignavo "nonessere"! La Buona Novella, anche sotto esame laicissimo dei "fatti", risolve tutto (e per ieri-oggi-sempre!) in un Cristo-Amore, uno spirito che incalza e che travolge, un Padre che sconvolge e riconquista. E la prova-provata di tutto questo non è che l'Evidente, il fatto quotidiano o la promossa e registrata storia, la vita che ci incalza, ed è futuro, le creature, i corpi e l'anima del mondo che non hanno bisogno di "riscontri" per "esserci e risolversi", universalmente, in spirito. Ma noi a fare i genii, sofisti tenacissimi d'un oggi che già muore mentre nasce, o a estollere cervici al di là delle nubi-velo alla terra rossa, impervia o a zolle, dura madre ma rigeneratrice. Noi, polvere-da polvere-alla polvere volti, ma in un canto immortale. Ed esso è certo che si annunzia come un perpetuo-eterno, se cerchiamo inesausti Bellezza che si svela e che via scorre, a un dove-quando ipotetico e matematico insieme, non più labile. Attingiamo insomma un "Perfetto" nel l'umiltà-pentimento che ci discopre il bello; pianto e gioia strana, ma non vana.
Eppure, vanità e vuoto incombono sul migliore Sanguineti e sui tanti suoi compagni di viaggio che proclamano l'auto sufficienza del nasceremorire e che intanto cercano "l'uscita". Senza una tregua e mai rassegnati, fin sul letto di morte.
Oh, quel Leopardi dell'agonia in Napoli! Luce, più luce, invocò. Et emisit spiritum. "Vanitas vanitatum et omnia vanitas" allora. Sì, come suona e risuona in Qoelet. Ma anche una vita che va vissuta come "tempo di nascere e morire, di piantare e sradicare, di uccidere e di curare, demolire e costruire, piangere e ridere; di gettare le pietre e di raccoglierle, di abbracciare e allontanarsi; di guadagnare e perdere, conservare e scartare (anche il nostro sapere dunque, e la nostra-nonnostra poesia!); di stracciare-cucire, tacere e parlare; di amare e odiare (in un talamo onestamente preservato, o in un'alcova-postribolo, sembra dire questo pur nostro Sanguineti. E forse, con una medesima femmina-donna-madre!)".
Ecco dunque la varietà d'un existenz che al di là di ogni nichilismo è in questi mesi tanto intensamente ripercorso-indagato-sospettato, e finalmente "schivato", in volumi da celebrazione-tumulazione presso autori ed editori. Essi, in ogni velata evidenza, quasi si confessano, in un soprassalto di consapevole responsabilità e forse di vergogna. Si riafferma così, culturalmente, quell'ineludibile "Essere" che nell'antichissimo "divenire" non si dissolve, ma in esso resiste e conferma un "immutabile". E poeticamente proietta di là del "muro, d'ombra", ma ancora al di qua della "muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia", l'uomo di questo ardito erratico, tormentato Novecento. Valeva la pena allora di andar tanto "contro", o tanto lontano dagli Ungaretti reduci dalle trincee della "inutile strage", o dai molti epigoni di Montale perplessi-interroganti tra un "visiting angel" e un "Pater noster", pare, mormorato nell'estrema malattia? O si trattava forse solo di "forme" da rinnovare (sia pure a tappe forzate, dal Gruppo '63 in poi); o, meglio, di una "autonomia" stilistico-contenutistica? E non sono cose queste, da natura e da storia, in concreto universalmente possibili, anche fra i condizionamenti scontatissimi, ma anche combattibilissimi, di poteri e denari? Il nostro secolo è infelice ricercatore e glorioso innovatore dunque, in fatto di cultura-mentalità, perciò, a volte, in lotta inevitabile con se stesso.
Come i poeti-critici-pensatori alla Sanguineti, culturalmente tanto "attrezzati" e pur così scopertamente, o velatamente, inquieti nello spirito. Arbasino, Calvino, Eco, Fenoglio, Gadda, Pratolini prosatori ad esempio, o Bertolucci, Caproni, Gatto, Noventa, Pasolini, Penna, Zanzotto poeti. Quanti altri come questi, in dimensione nazionale-provinciale, potremmo elencare o interpretare? Molti davvero, in questo popolare e snobistico secolo che si contorce in estreme e sempre più stanche polemiche: si attende. Forse una "risalita" alle fonti, non tanto delle letterature ma della vita universa-terrestre e dei suoi "fatti", storia o scienze che siano. Chi vivrà vedrà, è vero. Ma, anche oggi, la biblica voce di Qoelet disincantato realista-pessimista conclude l'avventura intellettuale della persona, con l'obiettivo riconoscimento della insopprimibilità dell'Io, dell'Altro, e della loro via obbligata alla speranza e alla salvezza da Amore. "Caccia dal tuo cuore la malinconia... ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi... e il soffio vitale tornerà a Dio che lo ha dato". Qui vince, alla fine, il realista-credente che è Qoelet pensatore-predicatore, che non "annienta" alogicamente né l'universo fisico, né quello delle commosse consolazioni del cuore, o della mente-anima che dir si voglia.
Ma noi dei "Novissimi", noi davvero moderni siamo sapienti perché consapevoli di noi stessi e della vacuità di storia e mondo (homo sapiens-sapiens!). Questa supponenza, tanto ridicola dinanzi all'Infinito e al suo Mistero, è già stata ricollocata nel suo naturale ruolo di insufficiente finitezza dallo stesso Qoelet: "... i sapienti e le loro azioni sono (anch'essi, dunque) nelle mani di Dio". Mani paterne e pietose, mani per la salvezza dal naufragio nell'Ignoto, rivelerà e testimonierà in vita e resurrezione il Cristo.
Ma sentiamo qualche voce rilevante del nostro tempo poetico, a proposito di un tale discorso. Franco Fortini è mancato in questi ultimi tempi alla poesia dal grande respiro, tutta chiusa in un quasi eroico quotidiano isolamento umano e letterario, poesia che per lui, comunque, "non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi" (traducendo Brecht, 20-21). Quello "scrivere" è un andare avanti, un'accettazione umile e laboriosa della funzione di uomo e di scrittore, al di là del trasformismo che è il "vizio storico degli intellettuali italiani" (Giuseppe Nava ne L'Immaginazione, n. 130, 1996, pag. 3). Un'esperienza singolare e severa come quella di Fortini è anzi dichiaratamente contro questo malvezzo particolarmente italiano di "adeguarsi ai tempi", cioè alle mode che pagano subito ma subito sfumano: egli afferma con forza in "Al di là della speranza" (VII, 10-12) che "l'errore che fu mio, e il mio Vero, resterà". Errore e verità, dunque, e implicita ricerca di salvezza. E' questo uno dei più eloquenti esempi del dibattersi e del "cercare" nella più perplessa ma non rinunciataria poesia del Novecento.
Per contro, un narratore geniale e "ancor giovane" come Aldo Busi chiede a Radiotre "una trasmissione sporca". E all'intervistatore Marco Neirotti (La Stampa, sab. 10.8.96, pag. 20) dice, a proposito di quanto registrato: "ho iniziato a leggere e ho pianto. Per otto minuti". Ha pianto perché quel passo parlava di Dio? incalza l'intervistatore. Risposta: "La registrazione segue le modulazioni sentimentali con cui ho scritto". Schivata, una schivata questa, o una implicita disarmata confessione dei bisogno concretissimo di Assoluto? In "Sodomie in corpo II ", è stato annotato, Busi afferma: "Religiosità è trovare stupefacente il meccanismo del respiro; lasciarsi travolgere da questa bellezza argillare di cui niente è privo". E altrove egli rileva "nel romanzo dei Novecento la furba mancanza di religiosità", un falso-interessato agnosticismo, cioè. E certo, tutto pubblicitario e funzionale a notorietà, successo e cassetta. Ma ha già acutamente interpretato Giorgio Ficara, per la riedizione '93 (Bompiani) di "Sentire le donne": "Nulla è del tutto fermo tra uomo e donna, sembra dirci questo utopista. Qualcosa, forse la pagina più bella, è ancora da scrivere, nonostante tutto ... ". Quasi in risposta, in altra vicina occasione, Busi stesso parla di "verginità quale valore che più lo perdi più lo trovi". Chi ha ascoltato lo stesso Busi, nel suo raccontare in terza (ma sottintesa prima) persona delle esperienze infantili-adolescenziali-giovanili sessualmente maniacali, di un piccolo-piccolo protagonista sperduto-ingoiato nel vizio delle metropoli d'oggi, ha certamente avuto l'impressione che attraverso RAITRE egli ci voglia presentare l'autentico attuale carnaio di nostra vita.
Ma torniamo, proseguendo in questo discorso, al più scoperto e rivelatore "Testamentum" sanguinetiano. Esso ha in esordio un preventivo "per sempre rinuncio all'universo". Universo quindi implicitamente riconosciuto come fisico o metafisico ingombro alla vanesia (ma non vanificante!) affermazione del "nulla": essa, in logica e in vita, è solo "nullismo": l'existenz, proprio l'esserci, in forza del suo stesso concreto ed evidente "matematico", è naturalmente e culturalmente vittorioso su ogni nichilismo.
Dunque, "Testamentum... ma voi, per voi, non vi aspettate niente... il mio privato me lo tratto in piazza... sopra i tetti grido... se ancora vivono i cuori gentili... meglio assai, se mi lasciano perdere ... ". Ma è forse "privato" quell'evangelico "gridare dai tetti"? E la piazza deserta, per noi del Novecento, non è dialettico-metafisica solo in De Chirico? Perché "in piazza" ci sono sempre "gli altri", e in questo nostro secolo in particolare, purtroppo, altri contro altri, in discussione sanguigna, qualche decisiva volta in scontro sanguinoso. Questa piazza di Sanguineti allora non è che un malconfessato senso dell'alterità, di un comune "destino" da uomini, in mezzo allo stupore scientifico del nostro tempo per piante e animali apparentemente indifferenti, ma vitali e "amici" a chi "grida dai tetti" appunto, in evangelico, e forse inconsapevole, slancio verso una verità, che non sa o non vuole ancora essere "per" la Verità grido dal profondo comunque, e irresistibile. Le esplicite spinte-motivazioni del Testamentum di Sanguineti sono le "realtà" della vita quotidiana e banale, come la realtà dell'uomo e del mondo è il fondamento d'ogni pessimistica considerazione e di ogni saggio consiglio a non trascurare, ma a godere le gioie offerte a ogni vita d'uomo, nella voce senza tempo di Qoelet.
Con quali espressioni volutamente trasandate, e spesso gergali, Sanguineti racconta il suo riesame del vissuto come un rendiconto finale e che finale non è? " ... Speranze, a me, non sono mai cresciute (e come potevano, diciamo noi, fra tutti gli stanchi semi-menefreghismi del geniale-turbolento-autolesionista Novecento")... il bene è che sparisci". Ma è questa una soluzione, o un infantile e afilosofico chiudere gli occhi su ogni abissale perché? "Alla vedova mia ci parlo chiaro... fatta la mia parte me ne vado in pace... noi siamo pezzi del ricambio in serie... catena di montaggio è amore". Ecco il punto scoperto, il tallone di Achille per cui vita-morte-il dopo fiottano e vanno, in un divenire-essere tra l'Alfa e Omega. Et plurimi uomini o plurimi infiniti non hanno più prigioni, ma forse solo Amore, pur da terrestri amori.
E più avanti, un esempio lampante, un andare-venire tipicamente sanguinetiano fra i richiami. Dei corpi e quelli dell'anima: "Lascio parole d'amore che non dissi... quelle pensate che, a pensarci, ci pensavo". E' o non è un autentico "indiarsi" quel lasciare "parole d'amore", a distinguerle da ogni banale espressione di labile-amaro erotismo? Perché è sete evidente di un Infinito-Eterno.
Poi Sanguineti, implicitamente proseguendo nell'autoconfessione su questo punto cardine di Testamentum, e rispondendo a domanda di un giovane, ricorda che a Venezia di recente, tra fondatori e figli del "Gruppo '63" lì convocati dall'ancora ribelle Balestrini, essendo stato richiesto da più voci un sanguinetiano verso estemporaneo su una lavagna già offerta ad altri poeti partecipanti, egli ha così scritto, o meglio dichiarato:" ... non ho amato l'amore, ma l'osceno". E ancora, su questo tasto, rimanda a "I fiori del male" di Baudelaire. "Nel bruto che si assopisce (mi) si risveglia un angelo". E ci torna alla mente, in particolare, la preghiera-ringraziamento della bodeleriana "Benedizione": "Siate benedetto mio Dio, che donate la sofferenza come un divino rimedio alle nostre impurità". In questo modo, per me, Sanguineti liquida come inquinamento-fallimento tutti quei "baciari-carezzari-abbracciari-avvinghiari" e via pornoscrivendo con sempre più stanca trasgressione.
Si va verso la conclusiva confessione, o disperazione, di Testamentum come in una indifferenza rassegnata: "dopo di me verranno nuovi Adami... il nostro mondo grande magazzino... quella che spinge all'uscita è la vita... la provvidenza di pietra è filosofale, tanta filosofia da darci, alla rovescia, l'alchimia... addio l'amore, allora, e tutte cose... addio lì i monti che dalle acque sorgono". Un addio deserto e sfiduciato, ma che tale non vorrebbe essere: "in buona fede solo chi muore si rivede". E allora, "principe giusto, non fare battaglia... pace che poco dura è da pensare: io, eterna pace, basto a me, a trovare". Quell'eterna pace vale, forse, un'invocazione. "In ogni caso, già si è fatta sera; altro per oggi né dico né scrivo". L'uscita, fuori fede, è oscura, ma inevitabile. Questo è il problema., dall'inizio alla fine.
E proprio alla fine del lungo dialogo autore-uditori, un'illuminazione dialettica: Il Cinque Maggio e coro sulla morte di Ermengarda nell'Adelchi manzoniano molto validi, sottolinea Sanguineti; la Pentecoste, molto meno! Ma ci crede veramente? Certo, la forza civico-storica e redentrice, alla fine, per un Napoleone "vinto", è troppo giustamente celebrata.
Intanto, in Pentecoste, lo Spirito è salvificamente invocato: " ... spira dei nostri bamboli ne l'ineffabil riso ... spargi l'onesta porpora alle donzelle in viso ... tempra dei baldi giovani il confidente ingegno reggi il viril proposito ad infallibil segno... adorna la canizie di liete voglie sante... brilla nel guardo errante di chi sperando muor". Ma non è forse questo l'inconfessato sogno d'un Leopardi che rifiuta il concetto di l'uomo massa? Altro che aristocratico-reazionario, caro Sanguineti! L'individualista cantore, come a volte Giacomo può apparire, è sempre un aspirante libertario, specialmente nella chiamata alla solidarietà, nel valore dell'altissima Ginestra. "Mi insisteva implacabile il diavolo: quod vidi tacui, (ma) quod tacui feci". E chi non ce l'ha, come te dentro, un diavolo? Dici poi, in un lampo di reinnamoramento, negli ultimi versi, (stampati e distribuiti da Piero Manni, durante la serata in Salento): "Per le vie dorate, tra i miracoli germogliavano gigagiardini". Meglio così, per tutti i poeti figli del sospetto e della speranza del Novecento.
francesco rausa

 

Lettere dal mondo

"E' stato durante le pulizie di primavera del '94. Sull'armadio, in una cassetta di legno, ho trovato alcune lettere da me spedite quando lavoravo sulle navi. Destinataria Emilia, mia moglie".
Nasce Scrivimi a Singapore, autore Natale Rizzo. Originale e a suo modo eccentrico: comandante in seconda - par di capire - su tredici navi, dal '72 all'82, sulle rotte planetarie, marinaio di cospicue letture ("E proprio allo Yemen era dedicato un articolo di Pasolini che ho letto ieri sera", "Dal marconista ho comperato un libro sulle farfalle", "Ho letto "Caro Michele" fino a pagina 153", "Ho cominciato a leggere "L'Airone" di Bassani", "Faccio anche il bibliotecario. Ci sono quasi 500 libri. Quelli buoni sono una quarantina", ecc.), destina ad Emilia 51 lettere (tante può averne selezionate, forse: comunque, il classico numero delle perle in una collana), che formano il personale diario di bordo di Rizzo, l'agenda intima di un uomo di mare (che ha scritto, nel '95, Racconti dalla petroliera) che fra cronaca, notazioni, appunti di relazioni e di lavoro, sentimenti velati e quasi rattenuti, traccia magnifici frammenti: "Lasciatemi, dèi del sonno. Stanotte voglio vedere le stelle. Notte cattiva e stupenda, notte di ubriachi e di comete. Voglio guardare le risacche e i cani in amore sul molo. Notte bambina, con le scarpe di tela, notte arancione di ricordi che si perdono lontano. Penso alla mia donna, a un carretto che scende verso il mare. Notte di panettieri, di naviganti e di cicale sognanti. Sirio e Aldebaran tacciono appese a fili di nylon e lo scirocco sbuffa tra le nubi".

 

Tentativi di poesia

Nuvole nell'immenso di Luigi Marsella (autore anche di La primula rossa e di Frammenti) vuol essere - citiamo testualmente dalla prefazione - la manifestazione di "tentativi di poesia" che "si muovono in questo alveo: richiamare, aggregare, costruire un momento particolare di partecipazione, di coinvolgimento in positivo, di sensazioni forti che aiutino a vivere, ad andare avanti, a superare quei pochi o tanti momenti di scoraggiamento che rischiano di sopraffarci".
E' poesia dei buoni sentimenti ("Caro Maestro"), delle solitudini ("Nostradamus", "Humanitas"), degli slanci innocenti ("Una sera in sette": " ... trovare / una goccia che scorre / in un fiume, / che nasce per / giungere al mare ... "), degli sgomenti per le tragedie della storia e per gli inganni dell'uomo ("Primavera '90"), della presa d'atto della solitarietà della terra natale ("La pioggia sul Salento": "Prigionieri del vento / della pioggia del tempo / del nulla di oggi / del nulla di ieri"), della speranza ("Inno alla vita", "L'immenso"). Pagine snelle, incentrate sul verso libero. Voci dell'anima, gridate nel "deserto" di sabbie mobili che lacerano - disgregandoli - i valori creativi della cultura e della civiltà salentine.

Fascinose sequenze

Avviene spesso che scrittori, intellettuali, critici letterari e cinematografici trovino scandaloso il "normale", il continuo e imprevedibile sviluppo delle idee e del costume. Si affezionano all'evento più che al fatto, al teatrino della vita più che alla vita stessa. Certo è difficile porsi con umiltà e libertà di intenti di fronte al "diverso", per comprendere e viaggiare attraverso differenti percorsi culturali. Eppure il microcosmo dei critici dovrebbe essere per definizione dotato di spregiudicatezza, immaginazione e curiosità intellettuale. Prevale invece l'ortodossia tecnocratica, l'amore per la tesi e la celebrazione attraverso osservazioni confezionate con devota partigianeria verso il credo di appartenenza. Così valori ed emozioni trovano sempre la loro casella e tutto diventa chiaramente spiegabile, formalmente certo come l'Amen che conclude la messa domenicale.
In questo panorama di streghe e stregoni Vincenzo Camerino (II centenario del cinema, Edizioni Il sogno di una cosa, Lecce 1996), da uomo del Sud, di un Sud qualunque, costituisce una felice meteora, un riferimento avvincente per chi ama avere di una lunga sequenza di emozioni cinematografiche una lettura agevole, non accademica, esente da peccati di orgoglio o d'ingenuità letteraria. Non ci sono riserve mentali, non c'è nel suo racconto di cento anni di cinema nessuna tentazione antologica. Non ci sono neanche le frustrazioni, la retorica sociale, i dubbi esistenziali propri del meridionale. Lontano dai circoli letterari, dagli interessi precostituiti, Camerino offre del cinema la "sua" chiave di lettura, attenta soprattutto a mettere in risalto i migliori momenti espressivi che non a caso coincidono con stati d'animo autenticamente rivoluzionari.
Si può certo vivere bene anche senza essere eccessivamente "illuminati". Ma il recupero di una sintesi intimista nella lettura di cento anni di cinema assicura una ventata di aria fresca nel mondo arido dell'informazione computerizzata e dell'immagine quotidianamente urlata producendo un rinnovato interesse verso la più stupefacente ed efficace tecnica descrittiva dell'avventura umana.
Abituandoci a sedimentare le emozioni, a ragionare su orizzonti più ampi, a vedere cause ed effetti negli eroismi ed egoismi quotidiani che il susseguirsi repentino degli eventi spesso rimuove dalla coscienza individuale e collettiva.
Aiutandoci a rivivere le magiche atmosfere che nella realtà fantastica pongono le passioni e i sentimenti sempre al limite tra poetico e visionario. Restituendo, in una parola, vitalità e rango ai nostri fantasmi.
claudio alemanno

 

Non solo un relitto

Storia come rigorosa annotazione dei fatti più rimarchevoli di un popolo, come sostanziale svolgimento e come frutto di un necessario, seppur macchinoso, travaglio economico, religioso, sociale; storia certamente come interpretazione filosofica. Ma storia anche come amore, rispetto di quelle piccole "manifestazioni minori", di quelle minuscole testimonianze (al di là dì ogni stucchevole leziosità che oggi abbonda, anche nel Salento, ed in cui affondano le radici molte pubblicazioni di pseudo-storia patria d'arrembaggio), che, con la loro semplicità, ma con perfetta dignità, rappresentano un passato, circoscritto ma essenziale, necessario per individuare e cogliere la sostanziale evoluzione di una società, delle sue strutture fondamentali, delle sue Intelligenze e del rapporto che quella società ha intessuto con le altre società ad essa più vicine.
La positività dei singoli contributi, in chiave di identificazione ed esposizione scientifica della sola documentazione rappresentata dalle fonti, sta proprio nella possibilità di concatenazione, di compenetrazione e nella opportunità di uno studio parallelo, per la soluzione di altre eventuali, più complesse, problematiche storiche.
Il nostro Salento è ricco di testimonianze storiche "minori"; soprattutto ricchissimo di limpidissime e inequivocabili tracce di una civiltà medievale attraversata da cento dominazioni e influenze. Tra queste, quelle di Bizantini e Normanni hanno favorito la fondazione di numerosi insediamenti.
Fondamentali, per la conoscenza e lo studio di questo particolare momento storico e sociale del Salento, sono i lavori del Guillou, del Poso, dello Jacob.
Ma notevole importanza assumono anche testi come questo del De Bernart e del Cazzato, che si aggiunge, in modo puntiglioso e assolutamente incoraggiante, alla notevole storiografia bizantina scientificamente valida.
Questo studio monografico si presenta in solare veste tipografica, stampato per l'Editore Congedo, e fa parte della collana "Biblioteca di Cultura Pugliese", diretta da Mario Congedo.
Gli Autori, collaudati e appassionati studiosi di arte e storia salentina, riescono a tessere, con un preciso percorso di indagine a scandaglio, fatto direttamente sulle fonti, un momento di storia che non è solo dell'antica fondazione di Santa Anastasia o del diretto rapporto che essa ebbe col vicino monastero di S. Eleuterio o di quella "umanità" matinese, ma che diviene soprattutto testimonianza dell'organizzazione religiosa e sociale caratteristica di molte zone del meridione e del Salento in particolare.
La metodologia di ricerca è quella propria dello storico che restringe il campo d'azione e mira alla ricostruzione di una figura con i soli tasselli di cui riesce a venire in possesso, evitando di cadere nella superficialità, nel l'approssimazione, nell'imprecisione.
Una ricerca, quindi, basata su questi principi e orientata in questa direzione presenta, senza dubbio, non poche difficoltà, date soprattutto dalla scarsità di fonti documentarie che in genere si incontra quando ci si avvicina allo studio di testimonianze medievali.
Nonostante tutto e rimanendo, precisamente, entro tali confini, De Bernart e Cazzato riescono a darci un quadro evolutivo abbastanza soddisfacente e soprattutto molto ricco di un apparato bibliografico e di documentazioni archivistiche di assoluto rilievo.
Tale lavoro si compone di due parti: la prima, "la storia dell'insediamento", descrive l'arco storico che va dall'XI secolo ai nostri giorni; la seconda, "le fonti", raccoglie 10 documenti, quegli dagli Autori ritenuti più significativi, a cominciare dalla pergamena del gennaio 1099 conservata nell'Archivio della Curia di Nardò, in cui il conte Goffredo offre pro-anima ad Everardo, priore del Monastero di Santa Maria di Nardò, la Chiesa di Santa Anastasia di Matino con le case, gli alberi e le terre ad essa annesse.
Unite alla fine dell'opera le 14 illustrazioni fuori testo che documentano l'architettura e lo stato di conservazione dell'attuale cappella.
La struttura di essa, situata a Sud-Ovest dell'abitato di Matino, è tipica dell'edilizia sacra rurale che spessissimo si incontra nelle campagne del Salento e pare, da quanto si legge nel documento VII dello Schivani (pag. 51), che fu l'Arciprete di Matino, D. Francesco Antonio De Blasi, ad edificare la nuova cappella essendo distrutta l'antica, intorno alla metà del XVII sec.
Il testo è improntato su una linearità espositiva che ne facilita l'interpretazione e che rende piacevole la lettura, riuscendo sicuramente a pervenire a quello scopo che, senza dubbio, è il principale e che ha spinto sia gli autori, sia soprattutto i proprietari di questa cappelletta alla realizzazione della pubblicazione.
Gli Autori, De Bernart e Cazzato, con la loro puntigliosità di studiosi, ci hanno testimoniato come "un relitto architettonico possa essere ancora un testimone di storia millenaria quando non prevale [ ... ] l'indifferenza o l'interessato fatalismo"; i proprietari, i coniugi Lucia Romano e Rosario Giorgio Costa, i quali, venuti in possesso del terreno su cui insiste l'antica fondazione, hanno certamente fatto buona opera riprendendo e riproponendo alla comunità di Matino, ma non solo ad essa, una pagina di storia, una fetta di vita sociale, una testimonianza di rapporti umani che la società del benessere, forse, avrebbe già posto in un ripostiglio impolverato, tra le cose che non avevano più nulla da dire.
giuseppe conte


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