L'Africa
di Silvestri
"L'estremo
pinnacolo si innalza sin quasi al livello dell'altopiano al quale
è legato da un istmo dirupato e sottile, come un faro di roccia
su un fiordo tortuoso e vulcanico. Alla base lo avvolge il fiume Mugher
come una cintura d'argento; la cima è sempre nimbata di nebbia
o di nubi piovasche. Si chiama Ullicciò - come dire "belvedere"
- ed ha la forma dei monti che disegnano i bimbi che non li hanno
mai visti".
Da Ullicciò alla caduta di Asmara si snoda la trama di Tempi
d'Africa, sei racconti di Franco Silvestri. Dal '39 al '42, teatro
d'azione principale è quel cuore di tenebra che sono l'acrocoro
abissino, i "monti ancora inesplorati", i fiumi, le valli,
le rocce, i grovigli verdi, i villaggi, le piste, il fango di una
terra sospesa "in un ultimo ineffabile equilibrio di innocenza,
stranito paradiso di silenzio". Un paradiso lacerato dalla guerra,
perduto un poco ogni giorno. Sembrerebbe la guerra il filo conduttore
di queste pagine. Non quella di trincea, né di battaglie frontali
o di strategie giocate su uno scacchiere intelligente. Ma quella delle
imboscate, delle sortite, delle rappresaglie, del saccheggio: una
guerra di guerriglie feroci che attraversano tutti questi frammenti
biografici, dando loro unità narrativa e ricomposizione di
memoria storica. Sembrerebbe. Perché in realtà c'è
soprattutto un diverso tessuto connettivo; c'è un alone magico
che rende la sintassi narrativa spesso vicina ad una raffinatissima
scrittura poetica: "Bella è la sosta in un'ansa boscosa
del fiume sotto grandiose muraglie di roccia; sonore per lo scorrere
delle acque sui ciottoli levigati e sorprendere la musica che fa al
tramonto la corrente, parole di eternità, nostalgie del mare
remoto, scandite chiare sotto il cielo crepuscolare striato di verde
e di viola mentre si alza diritto il fumo a formare una immobile ala
alta sopra il bivacco. E la voce del fiume soverchia il canto dell'uomo
tra le gole che lentamente si colmano d'ombre".
"Fatto di cronaca in paradiso" è la prima, e la più
lunga, delle sei testimonianze che non emergono solo dalla storia,
ma dal cuore stesso dell'avventura, dalla condizione umana che si
rivela nella sua precarietà, stretta nell'emergenza, costantemente
contigua al naufragio; e dall'incanto che gli anni non sono riusciti
a cancellare, se il filo della memoria è così vivo nell'evocazione,
nelle suggestioni liriche, nella preziosità espressiva.
aldo bello
Torna poesia
Nelle settimane
più calde dell'estate 1996 sorgono, in diversi osservatori
di cose sociali e culturali, alcuni interrogativi. Primo fra tutti:
torna davvero poesia? E da dove; verso dove?
Un incontro salentino del poeta Sanguineti con tanti giovani-anziani
lettori; inaugurazione di una grande fontana alla "Poesia"
quasi sulla battigia della jonica Torre Lapillo, su iniziativa del
forte poeta in dialetto Erminio Caputo, d'uno scultore e di tanti
"spontanei" popolari sostenitori; una voce del critico-professoressa
Albarosa Macrì conviene con una mia riflessione, secondo la
quale poesia, senza la presenza in se stessa di un "oltre",
è quasi vano e labilissimo sforzo di vita, di studio, di speranza.
Dunque vai d'estate, per convegni letterario-poetici e ti imbatti,
inaspettatamente direi, nell'Ente Provincia (Presidente Lorenzo Ria,
Assessore Margarito, regista sensibile Peppino Conte funzionario-poeta)
e nell'Ente Comune del caso Carpignano Salentino (Sindaco Calò
e Assessore delegato in Serrano, De Donno) colla conduzione di Anna
Grazia Doria, de "l'Immaginazione" di Piero Manni, che stampa
e dona per l'occasione, sempre per conto degli enti promotori, ultime
composizioni di un discusso ma navigatissimo Autore, Edoardo Sanguineti.
Ma come? Al Sud-Salento, da tanto tempo e per tanti quasi-Africa,
il potere sospettatissimo e vituperato dei nostri anni chiamaascolta-propone,
fra musiche settecentesche e jazz brillante-pensoso-vitale, nientemeno
che "poesia"! Ecco, a margine, libere laiche e molto mobili
mie considerazioni. Fra i soliti e "non perituri" dubbi.
La sera del 25 luglio, giovedì, atrio-cortile d'un palazzo
gentilizio di Serrano (Lecce), il paesino civilissimo, con Autorità
e "operatori" molti di cultura, concretamente-simbolicamente
offre olio salentino a Edoardo Sanguineti appunto, poeta ribelle-celebrato
e forse molto equivocante-equivocato negli ultimi decenni.
Una platea di uditori e cultori del profondo SuditaliaEuropa, Mediterraneo
insomma, si pone attenta, e silenziosa perfino con giovanissimi e
infanti, all'ascolto di parole, prima sul "compositore"
poi del "compositore", come egli (traspare!) si ritiene.
E difatti i riferimenti a Schubert e a Schomberg e dodecafonia, e
dissonanze-assonanze di questo nostro secolo, si sprecano, insieme
con quelli alla pittura (sempre sorella a poesia-musica) di Tiziano
e Picasso e informali-astratti e pop-artisti, e quant'altri. Tutto
è perfetto e privo di smancerie "smaccate" nei "salutatori"
e nei presentatori, gente di primo piano ma un po' troppo impacciata-stringata,
e forse un po' severa con se stessa. Nell'atrio-cortile si raccoglie
e si autoconsulta la cultura e l'arte poetica dell'oggi, che è
ormai il Duemila. E ci sono persone e curiosi di popolo, "estimatori"
istintivi non addetti ai lavori: una piccola luce, o una profonda
speranza?
Andiamo all'ascolto. La mia scelta giovanissima (1951), dice l'autore,
fu per gli esploratori di questo nostro secolo: il che spiega la lunghissima
marcia del suo "sperimentalismo", che passa per i "Novissimi"
e Palermo '63. In cui, ormai è storia, ci si ribellò,
come si dice, all'acquisto, o già detto-ridetto. Il poeta non
chiude questo discorso, mi pare, ma lo sottintende come viatico, indispensabile
allo studio della contemporaneità e, a tratti, del "se
stesso". Primo segno d'una responsabilità e autoperdonante
interiorizzazione d'ogni nuovismo cercato/raccattato/depurato, ma
di tanto in tanto, in poesia semplice e delicatissima, illuminato.
Ricerca, a me pare, istintiva-incontenibile (e riluttante-rabbiosa)
di Assoluto: spiritualità, fiato immortale dell'Io.
Ora qui, al memorante mio ripasso-ascolto della serata, mille e mille
rami fremono al libeccio sostenuto: in selva, si protendono-discendono
all'Azzurrissimo del Canale d'Otranto, che nella città-martire
fu poi detto Amarissimo. E vien fatto di pensare che, come un popolo
di ulivilecci-pini corre, per rocce dure impervie o candide battigie,
al primigenio mare d'ogni vita, così persone e popoli cercano
da sempre consolazione se non spiegazione dell'existenz in ogni autentica
poesia. Rara e preziosa compagna di viaggio fra i mali del mondo,
anche se spesso naufraga in terraferma fra tutti gli "ismi"
stracchi ma impenitenti degli ultimi secoli. E siamo ormai fin sotto
a un duemila libero, e forse rigenerante.
La "lettura" di Sanguineti-autore ha un'intonazione ribelle-sedicente-maldicente,
blasfema solo nell'intenzione e nella forma, aliena a sostanziali
volgarità; quella certa intonazione alla Cecco Angiolieri o
"impiccata" al seguito di François Villon che serve
solo a trovare per "Novissimum Testamentum" dell'Ottantatre
un "utile" stile da iconoclasta, ma senza definiti obiettivi
su uomini e cose. In concreto, neologismi da libri e "da strada";
libero metro per una "ottava" da racconto popolar-medievale,
una cantata serio-ironica e a tratti forzata-sarcastica, antica e
nuova quanto i mali del mondo; crisi dei linguaggi insomma, in quotidiani
"arrangiamenti" lessico-sintattici; storia-mondo-vita-lavoro
e soprattutto raffinata cultura-intelligenza, uguale a "hebel"
o vuoto-vanità, da aramaico-ebraica concezione ed espressione
di Qoelet. Sì, il pessimismo e la terrestrità gioiosa
dell'Ecclesiaste, l'Autorità del pensiero indiscusso, proprio
perché stupefatto e indiscutibile, dell'Antico Testamento:
esso infatti risultava fermo, o perlomeno interdetto innanzi al Mistero
dell'azione divina e della "Promessa", realizzata poi nel
Vangelo.
Ahi, miscredenza caparbia e irrazionale di tanto Novecento, via fluente
al comodo e ignavo "nonessere"! La Buona Novella, anche
sotto esame laicissimo dei "fatti", risolve tutto (e per
ieri-oggi-sempre!) in un Cristo-Amore, uno spirito che incalza e che
travolge, un Padre che sconvolge e riconquista. E la prova-provata
di tutto questo non è che l'Evidente, il fatto quotidiano o
la promossa e registrata storia, la vita che ci incalza, ed è
futuro, le creature, i corpi e l'anima del mondo che non hanno bisogno
di "riscontri" per "esserci e risolversi", universalmente,
in spirito. Ma noi a fare i genii, sofisti tenacissimi d'un oggi che
già muore mentre nasce, o a estollere cervici al di là
delle nubi-velo alla terra rossa, impervia o a zolle, dura madre ma
rigeneratrice. Noi, polvere-da polvere-alla polvere volti, ma in un
canto immortale. Ed esso è certo che si annunzia come un perpetuo-eterno,
se cerchiamo inesausti Bellezza che si svela e che via scorre, a un
dove-quando ipotetico e matematico insieme, non più labile.
Attingiamo insomma un "Perfetto" nel l'umiltà-pentimento
che ci discopre il bello; pianto e gioia strana, ma non vana.
Eppure, vanità e vuoto incombono sul migliore Sanguineti e
sui tanti suoi compagni di viaggio che proclamano l'auto sufficienza
del nasceremorire e che intanto cercano "l'uscita". Senza
una tregua e mai rassegnati, fin sul letto di morte.
Oh, quel Leopardi dell'agonia in Napoli! Luce, più luce, invocò.
Et emisit spiritum. "Vanitas vanitatum et omnia vanitas"
allora. Sì, come suona e risuona in Qoelet. Ma anche una vita
che va vissuta come "tempo di nascere e morire, di piantare e
sradicare, di uccidere e di curare, demolire e costruire, piangere
e ridere; di gettare le pietre e di raccoglierle, di abbracciare e
allontanarsi; di guadagnare e perdere, conservare e scartare (anche
il nostro sapere dunque, e la nostra-nonnostra poesia!); di stracciare-cucire,
tacere e parlare; di amare e odiare (in un talamo onestamente preservato,
o in un'alcova-postribolo, sembra dire questo pur nostro Sanguineti.
E forse, con una medesima femmina-donna-madre!)".
Ecco dunque la varietà d'un existenz che al di là di
ogni nichilismo è in questi mesi tanto intensamente ripercorso-indagato-sospettato,
e finalmente "schivato", in volumi da celebrazione-tumulazione
presso autori ed editori. Essi, in ogni velata evidenza, quasi si
confessano, in un soprassalto di consapevole responsabilità
e forse di vergogna. Si riafferma così, culturalmente, quell'ineludibile
"Essere" che nell'antichissimo "divenire" non
si dissolve, ma in esso resiste e conferma un "immutabile".
E poeticamente proietta di là del "muro, d'ombra",
ma ancora al di qua della "muraglia che ha in cima cocci aguzzi
di bottiglia", l'uomo di questo ardito erratico, tormentato Novecento.
Valeva la pena allora di andar tanto "contro", o tanto lontano
dagli Ungaretti reduci dalle trincee della "inutile strage",
o dai molti epigoni di Montale perplessi-interroganti tra un "visiting
angel" e un "Pater noster", pare, mormorato nell'estrema
malattia? O si trattava forse solo di "forme" da rinnovare
(sia pure a tappe forzate, dal Gruppo '63 in poi); o, meglio, di una
"autonomia" stilistico-contenutistica? E non sono cose queste,
da natura e da storia, in concreto universalmente possibili, anche
fra i condizionamenti scontatissimi, ma anche combattibilissimi, di
poteri e denari? Il nostro secolo è infelice ricercatore e
glorioso innovatore dunque, in fatto di cultura-mentalità,
perciò, a volte, in lotta inevitabile con se stesso.
Come i poeti-critici-pensatori alla Sanguineti, culturalmente tanto
"attrezzati" e pur così scopertamente, o velatamente,
inquieti nello spirito. Arbasino, Calvino, Eco, Fenoglio, Gadda, Pratolini
prosatori ad esempio, o Bertolucci, Caproni, Gatto, Noventa, Pasolini,
Penna, Zanzotto poeti. Quanti altri come questi, in dimensione nazionale-provinciale,
potremmo elencare o interpretare? Molti davvero, in questo popolare
e snobistico secolo che si contorce in estreme e sempre più
stanche polemiche: si attende. Forse una "risalita" alle
fonti, non tanto delle letterature ma della vita universa-terrestre
e dei suoi "fatti", storia o scienze che siano. Chi vivrà
vedrà, è vero. Ma, anche oggi, la biblica voce di Qoelet
disincantato realista-pessimista conclude l'avventura intellettuale
della persona, con l'obiettivo riconoscimento della insopprimibilità
dell'Io, dell'Altro, e della loro via obbligata alla speranza e alla
salvezza da Amore. "Caccia dal tuo cuore la malinconia... ricordati
del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano
i giorni tristi... e il soffio vitale tornerà a Dio che lo
ha dato". Qui vince, alla fine, il realista-credente che è
Qoelet pensatore-predicatore, che non "annienta" alogicamente
né l'universo fisico, né quello delle commosse consolazioni
del cuore, o della mente-anima che dir si voglia.
Ma noi dei "Novissimi", noi davvero moderni siamo sapienti
perché consapevoli di noi stessi e della vacuità di
storia e mondo (homo sapiens-sapiens!). Questa supponenza, tanto ridicola
dinanzi all'Infinito e al suo Mistero, è già stata ricollocata
nel suo naturale ruolo di insufficiente finitezza dallo stesso Qoelet:
"... i sapienti e le loro azioni sono (anch'essi, dunque) nelle
mani di Dio". Mani paterne e pietose, mani per la salvezza dal
naufragio nell'Ignoto, rivelerà e testimonierà in vita
e resurrezione il Cristo.
Ma sentiamo qualche voce rilevante del nostro tempo poetico, a proposito
di un tale discorso. Franco Fortini è mancato in questi ultimi
tempi alla poesia dal grande respiro, tutta chiusa in un quasi eroico
quotidiano isolamento umano e letterario, poesia che per lui, comunque,
"non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi" (traducendo
Brecht, 20-21). Quello "scrivere" è un andare avanti,
un'accettazione umile e laboriosa della funzione di uomo e di scrittore,
al di là del trasformismo che è il "vizio storico
degli intellettuali italiani" (Giuseppe Nava ne L'Immaginazione,
n. 130, 1996, pag. 3). Un'esperienza singolare e severa come quella
di Fortini è anzi dichiaratamente contro questo malvezzo particolarmente
italiano di "adeguarsi ai tempi", cioè alle mode
che pagano subito ma subito sfumano: egli afferma con forza in "Al
di là della speranza" (VII, 10-12) che "l'errore
che fu mio, e il mio Vero, resterà". Errore e verità,
dunque, e implicita ricerca di salvezza. E' questo uno dei più
eloquenti esempi del dibattersi e del "cercare" nella più
perplessa ma non rinunciataria poesia del Novecento.
Per contro, un narratore geniale e "ancor giovane" come
Aldo Busi chiede a Radiotre "una trasmissione sporca". E
all'intervistatore Marco Neirotti (La Stampa, sab. 10.8.96, pag. 20)
dice, a proposito di quanto registrato: "ho iniziato a leggere
e ho pianto. Per otto minuti". Ha pianto perché quel passo
parlava di Dio? incalza l'intervistatore. Risposta: "La registrazione
segue le modulazioni sentimentali con cui ho scritto". Schivata,
una schivata questa, o una implicita disarmata confessione dei bisogno
concretissimo di Assoluto? In "Sodomie in corpo II ", è
stato annotato, Busi afferma: "Religiosità è trovare
stupefacente il meccanismo del respiro; lasciarsi travolgere da questa
bellezza argillare di cui niente è privo". E altrove egli
rileva "nel romanzo dei Novecento la furba mancanza di religiosità",
un falso-interessato agnosticismo, cioè. E certo, tutto pubblicitario
e funzionale a notorietà, successo e cassetta. Ma ha già
acutamente interpretato Giorgio Ficara, per la riedizione '93 (Bompiani)
di "Sentire le donne": "Nulla è del tutto fermo
tra uomo e donna, sembra dirci questo utopista. Qualcosa, forse la
pagina più bella, è ancora da scrivere, nonostante tutto
... ". Quasi in risposta, in altra vicina occasione, Busi stesso
parla di "verginità quale valore che più lo perdi
più lo trovi". Chi ha ascoltato lo stesso Busi, nel suo
raccontare in terza (ma sottintesa prima) persona delle esperienze
infantili-adolescenziali-giovanili sessualmente maniacali, di un piccolo-piccolo
protagonista sperduto-ingoiato nel vizio delle metropoli d'oggi, ha
certamente avuto l'impressione che attraverso RAITRE egli ci voglia
presentare l'autentico attuale carnaio di nostra vita.
Ma torniamo, proseguendo in questo discorso, al più scoperto
e rivelatore "Testamentum" sanguinetiano. Esso ha in esordio
un preventivo "per sempre rinuncio all'universo". Universo
quindi implicitamente riconosciuto come fisico o metafisico ingombro
alla vanesia (ma non vanificante!) affermazione del "nulla":
essa, in logica e in vita, è solo "nullismo": l'existenz,
proprio l'esserci, in forza del suo stesso concreto ed evidente "matematico",
è naturalmente e culturalmente vittorioso su ogni nichilismo.
Dunque, "Testamentum... ma voi, per voi, non vi aspettate niente...
il mio privato me lo tratto in piazza... sopra i tetti grido... se
ancora vivono i cuori gentili... meglio assai, se mi lasciano perdere
... ". Ma è forse "privato" quell'evangelico
"gridare dai tetti"? E la piazza deserta, per noi del Novecento,
non è dialettico-metafisica solo in De Chirico? Perché
"in piazza" ci sono sempre "gli altri", e in questo
nostro secolo in particolare, purtroppo, altri contro altri, in discussione
sanguigna, qualche decisiva volta in scontro sanguinoso. Questa piazza
di Sanguineti allora non è che un malconfessato senso dell'alterità,
di un comune "destino" da uomini, in mezzo allo stupore
scientifico del nostro tempo per piante e animali apparentemente indifferenti,
ma vitali e "amici" a chi "grida dai tetti" appunto,
in evangelico, e forse inconsapevole, slancio verso una verità,
che non sa o non vuole ancora essere "per" la Verità
grido dal profondo comunque, e irresistibile. Le esplicite spinte-motivazioni
del Testamentum di Sanguineti sono le "realtà" della
vita quotidiana e banale, come la realtà dell'uomo e del mondo
è il fondamento d'ogni pessimistica considerazione e di ogni
saggio consiglio a non trascurare, ma a godere le gioie offerte a
ogni vita d'uomo, nella voce senza tempo di Qoelet.
Con quali espressioni volutamente trasandate, e spesso gergali, Sanguineti
racconta il suo riesame del vissuto come un rendiconto finale e che
finale non è? " ... Speranze, a me, non sono mai cresciute
(e come potevano, diciamo noi, fra tutti gli stanchi semi-menefreghismi
del geniale-turbolento-autolesionista Novecento")... il bene
è che sparisci". Ma è questa una soluzione, o un
infantile e afilosofico chiudere gli occhi su ogni abissale perché?
"Alla vedova mia ci parlo chiaro... fatta la mia parte me ne
vado in pace... noi siamo pezzi del ricambio in serie... catena di
montaggio è amore". Ecco il punto scoperto, il tallone
di Achille per cui vita-morte-il dopo fiottano e vanno, in un divenire-essere
tra l'Alfa e Omega. Et plurimi uomini o plurimi infiniti non hanno
più prigioni, ma forse solo Amore, pur da terrestri amori.
E più avanti, un esempio lampante, un andare-venire tipicamente
sanguinetiano fra i richiami. Dei corpi e quelli dell'anima: "Lascio
parole d'amore che non dissi... quelle pensate che, a pensarci, ci
pensavo". E' o non è un autentico "indiarsi"
quel lasciare "parole d'amore", a distinguerle da ogni banale
espressione di labile-amaro erotismo? Perché è sete
evidente di un Infinito-Eterno.
Poi Sanguineti, implicitamente proseguendo nell'autoconfessione su
questo punto cardine di Testamentum, e rispondendo a domanda di un
giovane, ricorda che a Venezia di recente, tra fondatori e figli del
"Gruppo '63" lì convocati dall'ancora ribelle Balestrini,
essendo stato richiesto da più voci un sanguinetiano verso
estemporaneo su una lavagna già offerta ad altri poeti partecipanti,
egli ha così scritto, o meglio dichiarato:" ... non ho
amato l'amore, ma l'osceno". E ancora, su questo tasto, rimanda
a "I fiori del male" di Baudelaire. "Nel bruto che
si assopisce (mi) si risveglia un angelo". E ci torna alla mente,
in particolare, la preghiera-ringraziamento della bodeleriana "Benedizione":
"Siate benedetto mio Dio, che donate la sofferenza come un divino
rimedio alle nostre impurità". In questo modo, per me,
Sanguineti liquida come inquinamento-fallimento tutti quei "baciari-carezzari-abbracciari-avvinghiari"
e via pornoscrivendo con sempre più stanca trasgressione.
Si va verso la conclusiva confessione, o disperazione, di Testamentum
come in una indifferenza rassegnata: "dopo di me verranno nuovi
Adami... il nostro mondo grande magazzino... quella che spinge all'uscita
è la vita... la provvidenza di pietra è filosofale,
tanta filosofia da darci, alla rovescia, l'alchimia... addio l'amore,
allora, e tutte cose... addio lì i monti che dalle acque sorgono".
Un addio deserto e sfiduciato, ma che tale non vorrebbe essere: "in
buona fede solo chi muore si rivede". E allora, "principe
giusto, non fare battaglia... pace che poco dura è da pensare:
io, eterna pace, basto a me, a trovare". Quell'eterna pace vale,
forse, un'invocazione. "In ogni caso, già si è
fatta sera; altro per oggi né dico né scrivo".
L'uscita, fuori fede, è oscura, ma inevitabile. Questo è
il problema., dall'inizio alla fine.
E proprio alla fine del lungo dialogo autore-uditori, un'illuminazione
dialettica: Il Cinque Maggio e coro sulla morte di Ermengarda nell'Adelchi
manzoniano molto validi, sottolinea Sanguineti; la Pentecoste, molto
meno! Ma ci crede veramente? Certo, la forza civico-storica e redentrice,
alla fine, per un Napoleone "vinto", è troppo giustamente
celebrata.
Intanto, in Pentecoste, lo Spirito è salvificamente invocato:
" ... spira dei nostri bamboli ne l'ineffabil riso ... spargi
l'onesta porpora alle donzelle in viso ... tempra dei baldi giovani
il confidente ingegno reggi il viril proposito ad infallibil segno...
adorna la canizie di liete voglie sante... brilla nel guardo errante
di chi sperando muor". Ma non è forse questo l'inconfessato
sogno d'un Leopardi che rifiuta il concetto di l'uomo massa? Altro
che aristocratico-reazionario, caro Sanguineti! L'individualista cantore,
come a volte Giacomo può apparire, è sempre un aspirante
libertario, specialmente nella chiamata alla solidarietà, nel
valore dell'altissima Ginestra. "Mi insisteva implacabile il
diavolo: quod vidi tacui, (ma) quod tacui feci". E chi non ce
l'ha, come te dentro, un diavolo? Dici poi, in un lampo di reinnamoramento,
negli ultimi versi, (stampati e distribuiti da Piero Manni, durante
la serata in Salento): "Per le vie dorate, tra i miracoli germogliavano
gigagiardini". Meglio così, per tutti i poeti figli del
sospetto e della speranza del Novecento.
francesco rausa
Lettere dal
mondo
"E' stato
durante le pulizie di primavera del '94. Sull'armadio, in una cassetta
di legno, ho trovato alcune lettere da me spedite quando lavoravo
sulle navi. Destinataria Emilia, mia moglie".
Nasce Scrivimi a Singapore, autore Natale Rizzo. Originale e a suo
modo eccentrico: comandante in seconda - par di capire - su tredici
navi, dal '72 all'82, sulle rotte planetarie, marinaio di cospicue
letture ("E proprio allo Yemen era dedicato un articolo di Pasolini
che ho letto ieri sera", "Dal marconista ho comperato un
libro sulle farfalle", "Ho letto "Caro Michele"
fino a pagina 153", "Ho cominciato a leggere "L'Airone"
di Bassani", "Faccio anche il bibliotecario. Ci sono quasi
500 libri. Quelli buoni sono una quarantina", ecc.), destina
ad Emilia 51 lettere (tante può averne selezionate, forse:
comunque, il classico numero delle perle in una collana), che formano
il personale diario di bordo di Rizzo, l'agenda intima di un uomo
di mare (che ha scritto, nel '95, Racconti dalla petroliera) che fra
cronaca, notazioni, appunti di relazioni e di lavoro, sentimenti velati
e quasi rattenuti, traccia magnifici frammenti: "Lasciatemi,
dèi del sonno. Stanotte voglio vedere le stelle. Notte cattiva
e stupenda, notte di ubriachi e di comete. Voglio guardare le risacche
e i cani in amore sul molo. Notte bambina, con le scarpe di tela,
notte arancione di ricordi che si perdono lontano. Penso alla mia
donna, a un carretto che scende verso il mare. Notte di panettieri,
di naviganti e di cicale sognanti. Sirio e Aldebaran tacciono appese
a fili di nylon e lo scirocco sbuffa tra le nubi".
Tentativi di
poesia
Nuvole nell'immenso
di Luigi Marsella (autore anche di La primula rossa e di Frammenti)
vuol essere - citiamo testualmente dalla prefazione - la manifestazione
di "tentativi di poesia" che "si muovono in questo
alveo: richiamare, aggregare, costruire un momento particolare di
partecipazione, di coinvolgimento in positivo, di sensazioni forti
che aiutino a vivere, ad andare avanti, a superare quei pochi o tanti
momenti di scoraggiamento che rischiano di sopraffarci".
E' poesia dei buoni sentimenti ("Caro Maestro"), delle solitudini
("Nostradamus", "Humanitas"), degli slanci innocenti
("Una sera in sette": " ... trovare / una goccia che
scorre / in un fiume, / che nasce per / giungere al mare ... "),
degli sgomenti per le tragedie della storia e per gli inganni dell'uomo
("Primavera '90"), della presa d'atto della solitarietà
della terra natale ("La pioggia sul Salento": "Prigionieri
del vento / della pioggia del tempo / del nulla di oggi / del nulla
di ieri"), della speranza ("Inno alla vita", "L'immenso").
Pagine snelle, incentrate sul verso libero. Voci dell'anima, gridate
nel "deserto" di sabbie mobili che lacerano - disgregandoli
- i valori creativi della cultura e della civiltà salentine.
Fascinose sequenze
Avviene spesso
che scrittori, intellettuali, critici letterari e cinematografici
trovino scandaloso il "normale", il continuo e imprevedibile
sviluppo delle idee e del costume. Si affezionano all'evento più
che al fatto, al teatrino della vita più che alla vita stessa.
Certo è difficile porsi con umiltà e libertà
di intenti di fronte al "diverso", per comprendere e viaggiare
attraverso differenti percorsi culturali. Eppure il microcosmo dei
critici dovrebbe essere per definizione dotato di spregiudicatezza,
immaginazione e curiosità intellettuale. Prevale invece l'ortodossia
tecnocratica, l'amore per la tesi e la celebrazione attraverso osservazioni
confezionate con devota partigianeria verso il credo di appartenenza.
Così valori ed emozioni trovano sempre la loro casella e tutto
diventa chiaramente spiegabile, formalmente certo come l'Amen che
conclude la messa domenicale.
In questo panorama di streghe e stregoni Vincenzo Camerino (II centenario
del cinema, Edizioni Il sogno di una cosa, Lecce 1996), da uomo del
Sud, di un Sud qualunque, costituisce una felice meteora, un riferimento
avvincente per chi ama avere di una lunga sequenza di emozioni cinematografiche
una lettura agevole, non accademica, esente da peccati di orgoglio
o d'ingenuità letteraria. Non ci sono riserve mentali, non
c'è nel suo racconto di cento anni di cinema nessuna tentazione
antologica. Non ci sono neanche le frustrazioni, la retorica sociale,
i dubbi esistenziali propri del meridionale. Lontano dai circoli letterari,
dagli interessi precostituiti, Camerino offre del cinema la "sua"
chiave di lettura, attenta soprattutto a mettere in risalto i migliori
momenti espressivi che non a caso coincidono con stati d'animo autenticamente
rivoluzionari.
Si può certo vivere bene anche senza essere eccessivamente
"illuminati". Ma il recupero di una sintesi intimista nella
lettura di cento anni di cinema assicura una ventata di aria fresca
nel mondo arido dell'informazione computerizzata e dell'immagine quotidianamente
urlata producendo un rinnovato interesse verso la più stupefacente
ed efficace tecnica descrittiva dell'avventura umana.
Abituandoci a sedimentare le emozioni, a ragionare su orizzonti più
ampi, a vedere cause ed effetti negli eroismi ed egoismi quotidiani
che il susseguirsi repentino degli eventi spesso rimuove dalla coscienza
individuale e collettiva.
Aiutandoci a rivivere le magiche atmosfere che nella realtà
fantastica pongono le passioni e i sentimenti sempre al limite tra
poetico e visionario. Restituendo, in una parola, vitalità
e rango ai nostri fantasmi.
claudio alemanno
Non solo un
relitto
Storia come rigorosa
annotazione dei fatti più rimarchevoli di un popolo, come sostanziale
svolgimento e come frutto di un necessario, seppur macchinoso, travaglio
economico, religioso, sociale; storia certamente come interpretazione
filosofica. Ma storia anche come amore, rispetto di quelle piccole
"manifestazioni minori", di quelle minuscole testimonianze
(al di là dì ogni stucchevole leziosità che oggi
abbonda, anche nel Salento, ed in cui affondano le radici molte pubblicazioni
di pseudo-storia patria d'arrembaggio), che, con la loro semplicità,
ma con perfetta dignità, rappresentano un passato, circoscritto
ma essenziale, necessario per individuare e cogliere la sostanziale
evoluzione di una società, delle sue strutture fondamentali,
delle sue Intelligenze e del rapporto che quella società ha
intessuto con le altre società ad essa più vicine.
La positività dei singoli contributi, in chiave di identificazione
ed esposizione scientifica della sola documentazione rappresentata
dalle fonti, sta proprio nella possibilità di concatenazione,
di compenetrazione e nella opportunità di uno studio parallelo,
per la soluzione di altre eventuali, più complesse, problematiche
storiche.
Il nostro Salento è ricco di testimonianze storiche "minori";
soprattutto ricchissimo di limpidissime e inequivocabili tracce di
una civiltà medievale attraversata da cento dominazioni e influenze.
Tra queste, quelle di Bizantini e Normanni hanno favorito la fondazione
di numerosi insediamenti.
Fondamentali, per la conoscenza e lo studio di questo particolare
momento storico e sociale del Salento, sono i lavori del Guillou,
del Poso, dello Jacob.
Ma notevole importanza assumono anche testi come questo del De Bernart
e del Cazzato, che si aggiunge, in modo puntiglioso e assolutamente
incoraggiante, alla notevole storiografia bizantina scientificamente
valida.
Questo studio monografico si presenta in solare veste tipografica,
stampato per l'Editore Congedo, e fa parte della collana "Biblioteca
di Cultura Pugliese", diretta da Mario Congedo.
Gli Autori, collaudati e appassionati studiosi di arte e storia salentina,
riescono a tessere, con un preciso percorso di indagine a scandaglio,
fatto direttamente sulle fonti, un momento di storia che non è
solo dell'antica fondazione di Santa Anastasia o del diretto rapporto
che essa ebbe col vicino monastero di S. Eleuterio o di quella "umanità"
matinese, ma che diviene soprattutto testimonianza dell'organizzazione
religiosa e sociale caratteristica di molte zone del meridione e del
Salento in particolare.
La metodologia di ricerca è quella propria dello storico che
restringe il campo d'azione e mira alla ricostruzione di una figura
con i soli tasselli di cui riesce a venire in possesso, evitando di
cadere nella superficialità, nel l'approssimazione, nell'imprecisione.
Una ricerca, quindi, basata su questi principi e orientata in questa
direzione presenta, senza dubbio, non poche difficoltà, date
soprattutto dalla scarsità di fonti documentarie che in genere
si incontra quando ci si avvicina allo studio di testimonianze medievali.
Nonostante tutto e rimanendo, precisamente, entro tali confini, De
Bernart e Cazzato riescono a darci un quadro evolutivo abbastanza
soddisfacente e soprattutto molto ricco di un apparato bibliografico
e di documentazioni archivistiche di assoluto rilievo.
Tale lavoro si compone di due parti: la prima, "la storia dell'insediamento",
descrive l'arco storico che va dall'XI secolo ai nostri giorni; la
seconda, "le fonti", raccoglie 10 documenti, quegli dagli
Autori ritenuti più significativi, a cominciare dalla pergamena
del gennaio 1099 conservata nell'Archivio della Curia di Nardò,
in cui il conte Goffredo offre pro-anima ad Everardo, priore del Monastero
di Santa Maria di Nardò, la Chiesa di Santa Anastasia di Matino
con le case, gli alberi e le terre ad essa annesse.
Unite alla fine dell'opera le 14 illustrazioni fuori testo che documentano
l'architettura e lo stato di conservazione dell'attuale cappella.
La struttura di essa, situata a Sud-Ovest dell'abitato di Matino,
è tipica dell'edilizia sacra rurale che spessissimo si incontra
nelle campagne del Salento e pare, da quanto si legge nel documento
VII dello Schivani (pag. 51), che fu l'Arciprete di Matino, D. Francesco
Antonio De Blasi, ad edificare la nuova cappella essendo distrutta
l'antica, intorno alla metà del XVII sec.
Il testo è improntato su una linearità espositiva che
ne facilita l'interpretazione e che rende piacevole la lettura, riuscendo
sicuramente a pervenire a quello scopo che, senza dubbio, è
il principale e che ha spinto sia gli autori, sia soprattutto i proprietari
di questa cappelletta alla realizzazione della pubblicazione.
Gli Autori, De Bernart e Cazzato, con la loro puntigliosità
di studiosi, ci hanno testimoniato come "un relitto architettonico
possa essere ancora un testimone di storia millenaria quando non prevale
[ ... ] l'indifferenza o l'interessato fatalismo"; i proprietari,
i coniugi Lucia Romano e Rosario Giorgio Costa, i quali, venuti in
possesso del terreno su cui insiste l'antica fondazione, hanno certamente
fatto buona opera riprendendo e riproponendo alla comunità
di Matino, ma non solo ad essa, una pagina di storia, una fetta di
vita sociale, una testimonianza di rapporti umani che la società
del benessere, forse, avrebbe già posto in un ripostiglio impolverato,
tra le cose che non avevano più nulla da dire.
giuseppe conte