NON CANCELLIAMO LE NAZIONI




Malcom Rifkind
Già Ministro degli Affari Esteri della Gran Bretagna



E' ora di un dibattito pubblico migliorato e allargato nell'Europa sul futuro dell'Unione. Come contributo a questo dibattito vorrei esporre il punto di vista britannico. La base dell'orientamento inglese è il senso dell'equilibrio. Equilibrio fra lo Stato-Nazione e l'Unione europea. Equilibrio fra azione a livello europeo e decisioni che è meglio lasciare ai singoli Stati-Nazione. Si tratta del principio di sussidiarietà che vogliamo veder rafforzato nel Trattato.
Il Trattato di Maastricht ha fissato un nuovo, ambizioso ordine del giorno per il futuro - Unione economica e monetaria, giustizia e affari interni, politica estera e di difesa comuni - e ha anche stabilito una struttura per la gestione di queste nuove attività. La struttura a pilastri dell'Ue decisa a Maastricht non era, per quel che riguarda il Regno Unito, una qualche fermata secondaria lungo una strada che inesorabilmente conduce alla piena integrazione. Era un equilibrio sensato e duraturo tra forme diverse di cooperazione per necessità diverse. Questo è l'orientamento equilibrato della Gran Bretagna verso il futuro dell'Ue. Alcuni dei nostri partner vedono le cose in maniera diversa. Essi vedono lo Stato-Nazione come superato.
Vogliono eliminare la nozione di cooperazione fra governi sovrani. Vogliono un processo costante di ulteriore integrazione.
In un tale modello, l'ampliamento della competenza comunitaria è naturale e inevitabile, con le istituzioni della Comunità - Commissione, Parlamento e Corte europei - che gradualmente guadagnano il controllo di una gamma sempre più vasta di attività. Si dice quindi, ad esempio, che i tre Pilastri devono fondersi in un unico Pilastro; che la votazione a maggioranza deve essere applicata in ogni settore; che si devono dare al Parlamento europeo nuovi poteri perché possa svolgere un completo ruolo legislativo sulla linea di quanto fa un Parlamento nazionale, e che si deve intraprendere una politica comune di difesa dell'Ue nell'ambito dello stesso quadro istituzionale delle altre attività dell'Ue. La prospettiva di allargamento viene talvolta usata come giustificazione per un tale orientamento, benché riteniamo che in realtà un'Unione europea più diversificata sia effettivamente un'argomentazione a sfavore.
Si insinua a volte che gli aderenti a un tale modello sono impegnati in un complotto al fine di diminuire o dominare gli altri. Respingo simili travisamenti grotteschi che tradiscono una erronea comprensione sia della storia che della realtà attuali dell'Europa. Quello integrazionista è un orientamento perfettamente legittimo. Anzi, molti dei suoi sostenitori in Germania e altrove sono tali per ragioni profondamente onorevoli. Rispetto la loro visione dell'Europa, ma non la condivido. Gli integrazionisti poggiano sulla teoria della bicicletta: se si smette di pedalare, la bicicletta cadrà. Ma non c'è molta logica in questo. Nessun ciclista intraprenderebbe un viaggio senza soste o senza fine. E nessuno applicherebbe a livello nazionale il concetto secondo cui la sopravvivenza dello Stato dipende da un governo in continua espansione. In effetti, viviamo nell'era dell'informatica, di governi più piccoli, di deregolamentazione, di diversità. Qui ci sono delle curiose risonanze. Alcuni fra quanti sono ostili all'Ue credono che la cooperazione europea minacci l'identità nazionale. Noto un'analoga insicurezza in coloro che ritengono che la costruzione europea è così fragile, che debba essere costantemente ampliata per evitare una sua disgregazione. Io vedo il pericolo opposto, cioè di sovraccaricare l'edificio europeo fin quando non crolli. I segnali d'allarme sono evidenti nei dubbi popolari circa l'Ue, dappertutto nell'Unione.
In Gran Bretagna, noto che ciò si riflette, ad esempio, nelle lamentele sulla politica comune della pesca o i benefici per i parlamentari europei. Proteste sulle singole politiche sono spesso il sintomo di una preoccupazione più profonda: che l'Ue significhi perpetui cambiamenti; cambiamento di tutto, dai poteri delle istituzioni nazionali all'unità di misura usata dal fruttivendolo per vendere le patate. Ciò che li preoccupa, inoltre, è che un tale cambiamento appare inesorabile: esso va solo in direzione integrazionista e nessuno sembra ascoltare quando si chiede di farlo rallentare o smettere. Molta gente nel mio Paese teme che il risultato inevitabile sarà un super-Stato federale in cui gli Stati-Nazione non avranno più controllo sulla vita dei propri cittadini, proprio come succede oggi ai consigli municipali.
Naturalmente, molti nelle classi politiche dell'Europa respingono come semplicistiche tali paure. Gli Stati Uniti d'Europa, dicono, sono fuori questione.
Riconoscono di essere in effetti a favore di una moneta comune, di una difesa comune, di un controllo centrale europeo su politica sociale, asilo, immigrazione, giustizia e po
lizia, di maggiori poteri al Parlamento europeo e di un più ampio ricorso alla votazione a maggioranza. Ma un super-Stato europeo? No, dicono, ciò non è nel nostro ordine del giorno. Mi fa piacere sentirlo, ma, chiedo, qual è la differenza fra i loro obiettivi dichiarati per l'Ue e un'Europa federale? Qual è la loro ultima destinazione?
Qual è il livello d'integrazione - politica ed economica - a cui stanno mirando?
Questa è la domanda-chiave a cui deve rispondere chi è a favore di una maggiore integrazione. Se questi non rispondono, o non sanno farlo, sarà molto arduo convincere la gente in tutta Europa del fatto che le proprie istituzioni e i propri valori sono salvi.
Il popolo d'Europa ha votato a favore di un'Europa intergovernativa e non federale. Non è necessariamente vero che ci sarebbe consenso per un'ulteriore integrazione verso un'Europa federale.
Dobbiamo mostrare alla gente che non ci troviamo in uno stato di rivoluzione perpetua. Nel 1986 l'Atto Unico europeo introdusse grandi mutamenti. Maastricht nel 1992 si è spinto oltre. Ed ora ci troviamo alle prese con ancora altre Conferenze intergovernative. Non credo si possa sostenere questo ritmo di cambiamento. Mutamenti costanti sottopongono la fiducia e il consenso dei nostri popoli ad uno stress enorme. Non dobbiamo fare il passo più lungo della gamba: il ricordo delle difficoltà legate alla ratifica di Maastricht dovrebbe essere ancora vivo nelle nostre menti. Ritengo che faremmo meglio a concentrarci su un uso efficace del quadro di associazione di Nazioni di cui disponiamo ora, che si trova a metà strada fra i due estremi di una semplice zona di libero scambio e uno Stato federale.
La visione britannica è quella di un'associazione di Nazioni riconciliate dopo secoli di rivalità e conflitti; unite da un forte senso degli obiettivi e dei valori comuni; che cooperano dentro un mercato unico aperto all'interno e al resto del mondo; che cooperano nella politica estera e nella lotta contro la criminalità internazionale; che uniscono le proprie forze nell'Ue, mantenendo tuttavia identità distinte, che costituiscono la ricchezza dell'Europa.


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