OLTRE LA MONETA UNICA




Vanni Plateroti



Poitiers è una cittadina francese, non tanto distante da Bordeaux, dove nel 732 Carlo Martello riuscì a fermare l'avanzata araba nel cuore dell'Europa. 1265 anni dopo, venerdì 13 giugno 1997, un altro leader francese, Lionel Jospin, ha tentato, in quella stessa cittadina, di fermare quella che molti considerano al tempo stesso la "monetarizzazione" e la "germanizzazione" dell'Europa.
Certo, Jospin è un improbabile epigono di Carlo Martello, così come il cancelliere tedesco Kohl ha ben poco in comune con il suo antagonista, l'emiro arabo Aberrahman. Ma il paragone rimane ugualmente suggestivo. La battaglia del 732 fu, infatti, un piccolo, incerto scontro, la cui rilevanza apparve chiara solo più tardi perché, dopo di allora, "li turchi" non avanzarono più; l'incontro franco-tedesco del '97, in preparazione del vertice successivo di Amsterdam, del 16 giugno, è stato anch'esso, in apparenza, soltanto uno degli affannosi scontri-incontri di una fase infuocata in cui Euro ed Europa sono stati posti in discussione e, sempre in apparenza, si è concluso con un nulla di fatto.
Per la prima volta, però, i problemi del lavoro sono passati dalle piazze d'Europa, percorse da cortei di disoccupati sempre più insistenti e sempre meno pazienti e pacifici, ai tavoli delle trattative d'Europa; e, tre giorni dopo, ad Amsterdam, sono ulteriormente passati dalle trattative all'anticamera dei trattati. I tedeschi hanno salvato il "patto di stabilità" e i francesi hanno portato a casa un abbozzo di "patto del lavoro": il tutto in un'atmosfera d'incertezza destinata a protrarsi a lungo, e che si colloca in un panorama eccezionalmente complesso, nel quale cerchiamo di orientarci, individuando una serie di problemi genuinamente europei.
Tra Poitiers e Amsterdam si è cominciato a parlare di un trattato "Maastricht 3", dopo le revisioni e i completamenti che vanno sotto il nome di "Maastricht 2". E' un'ammissione, ormai quasi ufficiale, dei difetti della moneta unica, e proprio di qui è bene partire. Che cosa c'è che non va nel "Maastricht 1"? Essenzialmente una cosa che l'Europa istituzionale non dice mai: il Trattato di Maastricht è rigidamente un Trattato fra Stati, che concepisce l'Europa presente e futura come un'unione fra Stati.
Di conseguenza, l'apparato centrale dell'Unione deriva il suo potere dagli Stati e non dal Parlamento; è squisitamente burocratico-amministrativo e mantiene rapporti con Stati e Regioni. Il Parlamento europeo, per contro, vede i suoi poteri espandersi poco e lentamente. Su questa concezione dell'Europa degli Stati concordano laburisti inglesi e conservatori tedeschi e tutte le élites dirigenti del Continente, comprese quelle dei Paesi che sono entrati da poco, o che chiedono di entrarvi, inserendo una nuova dimensione nel calderone europeo. In questo senso, almeno, l'Europa rimane fermamente "statalista".
In realtà, il vero problema dell'Unione è il divario nel redditi e nei tassi di crescita di questi redditi tra i diversi territori che la compongono. Chi entra nell'Unione, come si apprestano a fare alcuni Paesi dell'Est, lo fa nella speranza di vedere questi divari ridursi; e se ciò non accadesse, a lungo andare l'Europa si rivelerebbe un progetto irrealizzabile. All'esistenza di questi divari si tenta di ovviare con il meccanismo dei fondi europei, alimentati dal contributo dei singoli Paesi in base a coefficienti predeterminati, e distribuiti dalla burocrazia di Bruxelles.
Una simile politica in qualche caso ha avuto successo, specie in Paesi piccoli (Irlanda e Portogallo), e in qualche caso no (come nel Mezzogiorno d'Italia), ma comunque appare di difficile applicazione. Sarebbe preferibile un sistema automatico, basato su una tassazione europea, sottratta ai governi nazionali e determinata dal Parlamento europeo. In questo modo funzionano le cose negli Stati Uniti, dove un'imposta federale fortemente progressiva grava soprattutto sulle regioni ricche, lasciando respirare quelle povere.
Insomma, se si vuole la moneta unica, è difficile sottrarsi alla logica che richiede contemporaneamente un'imposta federale con meccanismo uniforme in tutta l'Unione, premessa per una forte redistribuzione automatica, e un Parlamento veramente funzionante; ovviamente è necessaria anche la flessibilità dei salari, oggi solo faticosamente enunciata, come è necessaria l'unicità dei mercati dei capitali, oggi in via di realizzazione. Pure in queste condizioni, l'Europa avrà maggiori difficoltà a realizzare un vero e proprio spazio economico integrato per la scarsissima mobilità di una popolazione legata al luogo d'origine da barriere di lingua e di tradizioni. Noi riteniamo che questo debba essere il "Maastricht 3". Esaminata in questo scenario più ampio, la moneta unica rappresenta una tappa forse necessaria ma non necessariamente cruciale, che si può realizzare subito o rinviare nel quadro di un grandioso progetto di integrazione, per ora non compiutamente decollato.
Il discorso della moneta unica acquista maggiore rilevanza se si guarda non all'interno dell'Europa, ma al suo esterno.
Alzando la testa dalle nostre beghe, possiamo osservare:
- un ritardo europeo nelle tecnologie di punta, vale a dire nel comparto elettronica / telecomunicazioni / informazioni / istruzione. Tale ritardo sembra essersi pericolosamente ampliato negli ultimi due-tre anni.
- il pericolo di una perdita di contatto dell'Europa nel settore, poco appariscente ma economicamente e tecnologicamente importante, dell'industria della difesa: dopo la fine della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno avviato una brillante ristrutturazione, mentre il Vecchio Continente non è riuscito a superare il livello delle divisioni nazionali; ora, l'industria europea degli armamenti rischia una decisiva sudditanza rispetto a quella dell'America del Nord;
- la confrontation America-Europa per quanto riguarda l'industria aeronautica civile, con la formazione di un maxi-polo americano attorno a Boeing che ha assorbito McDonnel Douglas e sta tagliando l'erba sotto i piedi del consorzio europeo Airbus;
- un duro confronto Europa-America sui diritti d'autore (che vede l'Italia in posizione particolarmente negativa);
- un confronto altrettanto duro sulle sovvenzioni agricole. Nel giro di un quinquennio o poco più, la carne bovina, buona e a basso prezzo, delle praterie americane potrebbe fare la sua comparsa sulle tavole degli europei.
Questi problemi richiedono una visione europea dell'Europa, che finora è, pressoché totalmente mancata, tranne che in alcuni comparti del mondo industriale e finanziario, in favore di visioni tedesche, francesi, inglesi, italiane, ecc. Forse il mondo sindacale, dopo lo choc della chiusura dello stabilimento belga di Vilvoorde da parte della società automobilistica francese Renault, sta per acquistare la medesima consapevolezza.
Se questo processo continuerà, avremo finalmente prima o poi qualche uomo politico davvero europeo, il che sarebbe una premessa realistica a una politica economica europea.
Per ora le politiche economiche sono nazionali e, soprattutto in Francia e in Germania, totalmente incompetenti. Gli elettori francesi hanno rispedito a casa il governo Juppé per la somma suicida di indecisione sulle pensioni, durezza fiscale, trucchi contabili ai bilanci pubblici.
Il ministro tedesco Waigel, in particolare, meriterebbe anche lui di essere rimandato a casa, in compagnia del suo antagonista, il governatore della Bundesbank, Tietmeyer, o almeno a scuola di ripetizione presso il Tesoro inglese, olandese o irlandese.
Ministro e governatore, infatti, hanno perseguito gli obiettivi della lotta all'inflazione e del risanamento finanziario nel modo peggiore possibile, ossia riducendo la spesa e aumentando le imposte.
E' probabile che una riduzione selettiva di imposte (sperimentata con successo e poi non "allargata" dai francesi) avrebbe avuto effetti migliori sui bilanci ed effetti meno drammatici sull'occupazione. Il Paese più ricco d'Europa, la Germania, appunto, si ritrova invece oggi a dover fare i conti con oltre quattro milioni di disoccupati e con un'industria invecchiata.
In questa situazione, l'Italia costituisce una "irritante" anomalia per i suoi paludati vicini. Concluderà quasi certamente il '97 con un deficit pubblico inferiore a quello dei tedeschi e francesi, e con un'economia in moderatissima crescita; avrà probabilmente posto, soprattutto con le recenti decisioni sull'Iri, le basi per un rinnovamento industriale capace finalmente di porre termine al lungo declino che ha travagliato il Paese negli ultimi anni.
Avrà naturalmente pagato un prezzo terribile in termini di mancata occupazione, di tensioni interne, di impoverimento ulteriore delle regioni del Sud. Le possibilità italiane di avere le carte in regola nell'economia europea e mondiale stanno, però, in realtà, aumentando a buon ritmo, pur nella generale atmosfera di "pasticcismo" che caratterizza il Paese. E questo, sia che la moneta unica si faccia, sia che non si faccia.
Per la cronaca, qualche mese fa il settimanale britannico The Economist paragonava l'Italia al "parente di campagna" dai modi un po' rozzi che Francia e Germania non volevano invitare al matrimonio elegante della moneta unica. In una curiosa inversione di tendenza e di ruoli, nel volgere di poco tempo, ora il matrimonio rischia di non essere più così elegante, e sono i "parenti ricchi", probabilmente, a non avere lo stile, cioè le carte in regola, per parteciparvi.


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