La lezione del '29




Giulio Arcangeli
Interventi di: Paul Samuelson, Milton Friedman, John K. Galbraith



Il terremoto che si abbatté sul sistema finanziario americano nel '29 rese impossibile il proseguimento dei crediti Usa verso l'Europa. Prime penalizzate furono Germania e Austria, le cui economie si reggevano, dalla fine della guerra, sull'afflusso di investimenti esteri. Anche l'Italia, che dal '26 aveva fatto ricorso ai prestiti della Banca Morgan e di altre case americane, per una cifra pari a otto miliardi dell'epoca, fu presto coinvolta nella spirale della crisi. Niente più iniezioni di capitali da oltreoccano, di cui avevano beneficiato non solo le principali imprese industriali (dalla Edison alla Pirelli, dalla Fiat alla Montecatini e alla Breda), ma anche grandi comuni, come Roma e Milano.
Già alla fine del '30 la disoccupazione nell'industria italiana era aumentata del 70% e quella agricola del 50%.
Nel '33 il numero dei disoccupati raggiunse la cifra record di 1,3 milioni di persone, senza contare i lavoratori ad orario e a paga ridotti. A quella data il reddito individuale, che era già molto basso, accusava una diminuzione del 10% in termini reali, mentre il risparmio era calato a vista d'occhio. Nelle fabbriche la decurtazione generale dei salari fu decretata d'autorità. Nelle campagne reddito agrario e paghe dei braccianti si ridussero della metà.
Ma il peggio doveva ancora venire. Fra il '31 e il '32 si manifestò in tutta la sua gravità lo spettro di un crollo generale del sistema economico. Le condizioni sempre più precarie di molte imprese minacciavano ormai di travolgere anche i principali istituti di credito. Da oltre un trentennio le più importanti banche italiane convogliavano infatti verso gli investimenti industriali una parte sempre più consistente dei loro depositi, assumendo anche partecipazioni dirette nelle imprese finanziate. In tal modo la Banca Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma avevano finito col legare la propria sorte a quella di alcune industrie. Col prolungarsi della crisi, di fronte ai pesanti immobilizzi di capitali nelle imprese e alla continua flessione dei depositi, la loro situazione era divenuta disperata. La Banca d'Italia non si trovava più nella possibilità di largheggiare nella concessione alle banche di crediti sotto forma di anticipazioni e sconti di portafoglio commerciali.
La mancanza di liquidità minacciava pertanto di travolgere la più gran parte del sistema produttivo. Quasi tutte le principali imprese industriali erano legate a filo doppio con una o più delle tre banche.
C'erano dentro la Sip, l'Edison e la Sme, nel settore elettrico; la Terni nella siderurgia e nell'elettrochimica; la Châtillon nelle fibre artificiali; l'Alfa Romeo, l'Ansaldo, la Breda e la Dalmine nel settore metalmeccanico; il Gruppo Ilva nella siderurgia di base; la Società Italia di Navigazione e i Cantieri Riuniti dell'Adriatico nel settore navale; oltre a numerose società immobiliari.
Al governo non rimase che intervenire direttamente, per scongiurare il disastro. Con la fondazione, nel novembre '31, dell'Imi, lo Stato si sostituì alle banche nel finanziamento industriale. Ma fu necessario, due anni dopo, creare un altro ente, l'Iri, per provvedere al salvataggio di un gran numero di imprese, altrimenti destinate al fallimento. A conclusione di queste complesse operazioni, i pacchetti azionari detenuti dalle banche, e anche Credit, Comit e Bancoroma, passarono sotto il controllo Iri. L'intervento dello Stato, che aveva già alle spalle una lunga tradizione, risalente al periodo del decollo industriale di fine 800, assunse dimensioni più estese e caratteristiche sue proprie. Da tutta una serie di decisioni ispirate inizialmente dalla preoccupazione di salvare il salvabile, si giunse infatti allo Stato banchiere e imprenditore, al controllo pressoché assoluto del credito d'investimento e a una rilevante presenza pubblica nella proprietà e nella gestione di una parte cospicua dell'attività industriale, pari a circa il 25% dell'intero capitale azionario, quota proporzionalmente più ampia che in ogni altro Paese dell'Europa occidentale.
Fu la guerra d'Abissinia, seguita all'accordo italo-francese, a far uscire l'Italia dal tunnel, grazie alla mobilitazione di tutte le risorse interne e alla rimessa in moto a pieno regime delle attività di molte imprese. Ma nel frattempo era accaduta qualche cosa, che non sarebbe mutata per molti decenni. Mussolini non nascondeva la sua diffidenza verso i grandi gruppi industriali, a cui preferiva le piccole imprese e il mondo rurale. E, al pari di Bottai, riteneva che il sistema capitalistico stesse attraversando una crisi di carattere strutturale. Ma, nel caso italiano, almeno per quel momento non intendeva provocare attriti nei rapporti con la grande impresa. Perciò sposò le tesi dei fautori del corporativismo e spinse a fondo il pedale del dirigismo statale. I principali esponenti dell'industria italiana, da Pirelli a Cini, da Donegani ad Agnelli e a Falk, quando la barca rischiava di affondare, potevano sollecitare l'intervento dello Stato, senza che fosse limitato il loro diritto di proprietà. Il che portò Ugo Spirito ad osservare, nel '32, che "lo Stato interveniva nella cosiddetta economia privata soltanto per rendere pubbliche le sue perdite". Era nata la figura dell'industriale (pubblico e privato) protetto. Un fardello che ancora oggi pesa sull'economia italiana e sulla diseconomia meridionale.
Nel momento in cui corriamo verso l'Europa, cercando di superare, eludere, e in alcuni casi mascherare le varie crisi che affliggono un po' tutti i Paesi del continente (disoccupazione, lavoro nero, migrazioni bibliche, guerre etniche, e quant'altro), e con la prospettiva di stagnazione, se non di recessione, che coinvolge persino economie forti, lo spettro del '29 può ripresentarsi? A questa domanda rispondono alcuni Nobel per l'economia ed esperti mondiali.


Paul Samuelson
Il grande crack di Borsa potrebbe ripetersi, anche se le probabilità sono molto minori, perché oggi ci sono limiti precisi alle operazioni allo scoperto, mentre nel '29 non c'erano limiti del genere, e gli speculatori giocavano con denaro preso a prestito. A quell'epoca le voci più assurde e improbabili trovavano credito, mentre adesso questo non avviene più. Abbiamo norme che, in qualche misura, impediscono la manipolazione del mercato. Ma quando i prezzi salgono rapidamente, possono precipitare ancora più velocemente.
Marx ha affermato che la storia si ripete, la prima volta in chiave di farsa, la seconda di tragedia. La storia economica non si ripete secondo questa regola. La grande differenza, della quale gli storici dell'economia debbono tener conto, è che nel periodo fra il 1929 e il 1935 si viveva nel mondo dell'ortodossia, le regole erano assolutamente vincolanti, non solo ai fini dell'azione, ma anche a quelli del pensiero. Nessuno si sarebbe sognato, mentre negli Stati Uniti ottomila banche stavano fallendo, di mettere sotto pressione la tipografia della Zecca e, stampando denaro, salvare così le banche con un atto dello Stato.
Se andiamo a rileggerci i documenti dell'epoca, gli articoli di giornale, le minute delle riunioni segrete dei responsabili della Banca centrale, vediamo che tutti davano per scontato l'obbligo di mantenere un rapporto costante fra le riserve monetarie e il circolante. E questa religione continuò a prevalere fino all'avvento di Hitler, il quale, per ignoranza o per astuzia, cambiò completamente le regole del gioco.
Oggi non si potrebbe più verificare, come si verificò allora, una corsa al ritiro dei risparmi dalle banche, con conseguente fallimento a catena degli istituti di credito, soltanto perché i governi, per motivi costituzionali, non possono attivare la rotativa delle banconote. Le moderne democrazie che prevalgono nel mondo occidentale, anche nei Paesi più ortodossi, come la Svizzera o la Germania, non consentirebbero l'innesto di un processo deflazionistico, di un circolo vizioso provocato dalla paura. Un circolo vizioso che può essere interrotto mediante la creazione di cartamoneta.
E' vero che in questo modo si crea inflazione. E non nego che essa ponga certi problemi.
Ma non dimentichiamo che alcuni economisti, anche seri, hanno sostenuto che il motivo per cui il crack del '29 si è verificato è che l'estrazione di oro non riusciva a tener dietro all'espansione del commercio mondiale. Robert Triffin e altri esperti sì preoccupavano, vent'anni fa, per la scarsità di flottante monetario internazionale. E proprio per quel motivo il prezzo dell'oro venne aumentato. Ebbene, ora il sistema nuota in un mare di liquidità. Questo non vuol dire che i nostri problemi sono risolti. Significa che alla ribalta ci sono nuovi tipi di problemi, e che il vecchio problema è stato eliminato.


Milton Friedman
Non credo che, nelle condizioni attuali e prevedibili per il futuro, si possa ragionevolmente profetizzare un'altra grande depressione come quella del 1929/33. La caratteristica principale di quell'evento storico fu, soprattutto negli Stati Uniti, la deflazione monetaria. Oggi, il problema dominante è quello opposto, l'inflazione.
Dalla Grande Depressione ad oggi, sono intervenuti mutamenti fondamentali nelle istituzioni e nei modi di pensare, che hanno modificato sostanzialmente le reazioni cicliche dell'economia americana, europea, giapponese. E i cambiamenti intervenuti nell'atteggiamento del pubblico nei confronti dell'inflazione e della deflazione hanno modificato completamente le reazioni a livello politico ai mutamenti economici. A mio avviso, gli effetti complessivi di queste alterazioni delle istituzioni e dei modi di pensare fanno sì che una depressione di notevole gravità, ossia paragonabile a quella cominciata nel 1929, sia oggi inconcepibile.
Quella depressione fu una catastrofe di dimensioni senza precedenti, e non solo per gli Usa. Nel '33 il reddito monetario americano era dimezzato, il prodotto totale si era ridotto di un terzo e un lavoratore potenziale su quattro era disoccupato. Ma fu un'immane catastrofe per il resto del mondo. Il diffondersi della depressione ad altri Paesi causò diminuzioni della produzione, lievitazioni della disoccupazione, fame e miseria dappertutto. In Germania, contribuì all'ascesa al potere di Hitler, preparando così lo scoppio della seconda guerra mondiale. In Giappone rafforzò il già notevole potere dei circoli militaristici che sognavano di creare la "sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale". In Cina distrusse il sistema monetario, indebolì il governo nazionalista impegnato nella lotta contro i giapponesi e, successivamente, contro i comunisti, e creò le premesse dell'iperinflazione che segnò il destino di Chiang Kai-shek e l'avvento al potere di Mao.
Le conseguenze furono, dunque, di ordine politico, ma anche filosofico e sociale.
Convinsero, ad esempio, che Marx aveva ragione nel condannare il capitalismo, giudicandolo un sistema fondamentalmente instabile e suscettibile di provocare crisi anche più gravi. Ma provocarono anche un drastico giro di boa nel pensiero economico, lanciando la rivoluzione keynesiana, che non solo conquistò gran parte degli economisti, ma fornì una diagnosi e una terapia che giustificarono massicci interventi governativi nell'economia.

John K. Galbraith
La storia non ha bisogno di essere difesa: la sua forza è la sua realtà. Ma penso che sia importante tener viva la memoria di quel che accadde nel '29 e negli anni successivi, perché né le regolamentazioni pubbliche né il migliore livello morale dei promotori societari, brokers, venditori di titoli, operatori di mercato, banchieri e gestori di fondi d'investimento possono evitare queste ricorrenti epidemie speculative e le loro conseguenze. La prevenzione è affidata alla memoria delle illusioni passate, e al risveglio da queste illusioni.
Negli anni Sessanta, così come negli anni '20, uomini che la natura aveva destinato a occupazioni che non richiedevano troppa intelligenza diventarono ricchi, almeno per un po'. E questo soltanto perché il mercato saliva. Alcune conseguenze, dopo che questa fase venne a conclusione nel 1970, furono ancora peggiori. Negli anni '60 le ditte di Wall Street si rivelarono nettamente più incompetenti nella gestione della loro amministrazione che negli anni '20, e si erano ampliate molto più incoscientemente.
Quando venne il crollo, le conseguenze furono molto più gravi di quelle del '29. Ma le nuove leggi avevano fatto, almeno in parte, il loro dovere.
Di conseguenza, l'innesto della retromarcia, inevitabile quando una società deve pagare gli interessi prelevandoli da profitti in diminuzione sulle azioni, fu molto meno violento. Il giorno del giudizio, nel '70, e quel che seguì, furono esperienze sgradevoli, e l'ampiezza del declino del mercato non fu molto diversa da quella dell'autunno del '29. Magli effetti non furono cumulativi e le conseguenze sui consumi privati, sugli investimenti industriali e sull'economia in generale furono meno severi.
La lezione è chiara: né le regolamentazioni né la memoria rappresentano una protezione perfetta contro la tentazione di illudere se stessi o gli altri. Se gli uomini si persuadono a sufficienza della loro abilità magica, o di quella di altri, finiranno per perdere il loro denaro. Ma le leggi e le norme che erano il retaggio del '29 possono attenuare il colpo. E sono convinto che anche il ricordo del '29 può contribuire ad evitare il peggio.


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