Il
terremoto che si abbatté sul sistema finanziario americano nel
'29 rese impossibile il proseguimento dei crediti Usa verso l'Europa.
Prime penalizzate furono Germania e Austria, le cui economie si reggevano,
dalla fine della guerra, sull'afflusso di investimenti esteri. Anche
l'Italia, che dal '26 aveva fatto ricorso ai prestiti della Banca Morgan
e di altre case americane, per una cifra pari a otto miliardi dell'epoca,
fu presto coinvolta nella spirale della crisi. Niente più iniezioni
di capitali da oltreoccano, di cui avevano beneficiato non solo le principali
imprese industriali (dalla Edison alla Pirelli, dalla Fiat alla Montecatini
e alla Breda), ma anche grandi comuni, come Roma e Milano.
Già alla fine del '30 la disoccupazione nell'industria italiana
era aumentata del 70% e quella agricola del 50%.
Nel '33 il numero dei disoccupati raggiunse la cifra record di 1,3 milioni
di persone, senza contare i lavoratori ad orario e a paga ridotti. A
quella data il reddito individuale, che era già molto basso,
accusava una diminuzione del 10% in termini reali, mentre il risparmio
era calato a vista d'occhio. Nelle fabbriche la decurtazione generale
dei salari fu decretata d'autorità. Nelle campagne reddito agrario
e paghe dei braccianti si ridussero della metà.
Ma il peggio doveva ancora venire. Fra il '31 e il '32 si manifestò
in tutta la sua gravità lo spettro di un crollo generale del
sistema economico. Le condizioni sempre più precarie di molte
imprese minacciavano ormai di travolgere anche i principali istituti
di credito. Da oltre un trentennio le più importanti banche italiane
convogliavano infatti verso gli investimenti industriali una parte sempre
più consistente dei loro depositi, assumendo anche partecipazioni
dirette nelle imprese finanziate. In tal modo la Banca Commerciale,
il Credito Italiano e il Banco di Roma avevano finito col legare la
propria sorte a quella di alcune industrie. Col prolungarsi della crisi,
di fronte ai pesanti immobilizzi di capitali nelle imprese e alla continua
flessione dei depositi, la loro situazione era divenuta disperata. La
Banca d'Italia non si trovava più nella possibilità di
largheggiare nella concessione alle banche di crediti sotto forma di
anticipazioni e sconti di portafoglio commerciali.
La mancanza di liquidità minacciava pertanto di travolgere la
più gran parte del sistema produttivo. Quasi tutte le principali
imprese industriali erano legate a filo doppio con una o più
delle tre banche.
C'erano dentro la Sip, l'Edison e la Sme, nel settore elettrico; la
Terni nella siderurgia e nell'elettrochimica; la Châtillon nelle
fibre artificiali; l'Alfa Romeo, l'Ansaldo, la Breda e la Dalmine nel
settore metalmeccanico; il Gruppo Ilva nella siderurgia di base; la
Società Italia di Navigazione e i Cantieri Riuniti dell'Adriatico
nel settore navale; oltre a numerose società immobiliari.
Al governo non rimase che intervenire direttamente, per scongiurare
il disastro. Con la fondazione, nel novembre '31, dell'Imi, lo Stato
si sostituì alle banche nel finanziamento industriale. Ma fu
necessario, due anni dopo, creare un altro ente, l'Iri, per provvedere
al salvataggio di un gran numero di imprese, altrimenti destinate al
fallimento. A conclusione di queste complesse operazioni, i pacchetti
azionari detenuti dalle banche, e anche Credit, Comit e Bancoroma, passarono
sotto il controllo Iri. L'intervento dello Stato, che aveva già
alle spalle una lunga tradizione, risalente al periodo del decollo industriale
di fine 800, assunse dimensioni più estese e caratteristiche
sue proprie. Da tutta una serie di decisioni ispirate inizialmente dalla
preoccupazione di salvare il salvabile, si giunse infatti allo Stato
banchiere e imprenditore, al controllo pressoché assoluto del
credito d'investimento e a una rilevante presenza pubblica nella proprietà
e nella gestione di una parte cospicua dell'attività industriale,
pari a circa il 25% dell'intero capitale azionario, quota proporzionalmente
più ampia che in ogni altro Paese dell'Europa occidentale.
Fu la guerra d'Abissinia, seguita all'accordo italo-francese, a far
uscire l'Italia dal tunnel, grazie alla mobilitazione di tutte le risorse
interne e alla rimessa in moto a pieno regime delle attività
di molte imprese. Ma nel frattempo era accaduta qualche cosa, che non
sarebbe mutata per molti decenni. Mussolini non nascondeva la sua diffidenza
verso i grandi gruppi industriali, a cui preferiva le piccole imprese
e il mondo rurale. E, al pari di Bottai, riteneva che il sistema capitalistico
stesse attraversando una crisi di carattere strutturale. Ma, nel caso
italiano, almeno per quel momento non intendeva provocare attriti nei
rapporti con la grande impresa. Perciò sposò le tesi dei
fautori del corporativismo e spinse a fondo il pedale del dirigismo
statale. I principali esponenti dell'industria italiana, da Pirelli
a Cini, da Donegani ad Agnelli e a Falk, quando la barca rischiava di
affondare, potevano sollecitare l'intervento dello Stato, senza che
fosse limitato il loro diritto di proprietà. Il che portò
Ugo Spirito ad osservare, nel '32, che "lo Stato interveniva nella
cosiddetta economia privata soltanto per rendere pubbliche le sue perdite".
Era nata la figura dell'industriale (pubblico e privato) protetto. Un
fardello che ancora oggi pesa sull'economia italiana e sulla diseconomia
meridionale.
Nel momento in cui corriamo verso l'Europa, cercando di superare, eludere,
e in alcuni casi mascherare le varie crisi che affliggono un po' tutti
i Paesi del continente (disoccupazione, lavoro nero, migrazioni bibliche,
guerre etniche, e quant'altro), e con la prospettiva di stagnazione,
se non di recessione, che coinvolge persino economie forti, lo spettro
del '29 può ripresentarsi? A questa domanda rispondono alcuni
Nobel per l'economia ed esperti mondiali.
Paul Samuelson
Il grande crack di Borsa potrebbe ripetersi, anche se le probabilità
sono molto minori, perché oggi ci sono limiti precisi alle
operazioni allo scoperto, mentre nel '29 non c'erano limiti del genere,
e gli speculatori giocavano con denaro preso a prestito. A quell'epoca
le voci più assurde e improbabili trovavano credito, mentre
adesso questo non avviene più. Abbiamo norme che, in qualche
misura, impediscono la manipolazione del mercato. Ma quando i prezzi
salgono rapidamente, possono precipitare ancora più velocemente.
Marx ha affermato che la storia si ripete, la prima volta in chiave
di farsa, la seconda di tragedia. La storia economica non si ripete
secondo questa regola. La grande differenza, della quale gli storici
dell'economia debbono tener conto, è che nel periodo fra il
1929 e il 1935 si viveva nel mondo dell'ortodossia, le regole erano
assolutamente vincolanti, non solo ai fini dell'azione, ma anche a
quelli del pensiero. Nessuno si sarebbe sognato, mentre negli Stati
Uniti ottomila banche stavano fallendo, di mettere sotto pressione
la tipografia della Zecca e, stampando denaro, salvare così
le banche con un atto dello Stato.
Se andiamo a rileggerci i documenti dell'epoca, gli articoli di giornale,
le minute delle riunioni segrete dei responsabili della Banca centrale,
vediamo che tutti davano per scontato l'obbligo di mantenere un rapporto
costante fra le riserve monetarie e il circolante. E questa religione
continuò a prevalere fino all'avvento di Hitler, il quale,
per ignoranza o per astuzia, cambiò completamente le regole
del gioco.
Oggi non si potrebbe più verificare, come si verificò
allora, una corsa al ritiro dei risparmi dalle banche, con conseguente
fallimento a catena degli istituti di credito, soltanto perché
i governi, per motivi costituzionali, non possono attivare la rotativa
delle banconote. Le moderne democrazie che prevalgono nel mondo occidentale,
anche nei Paesi più ortodossi, come la Svizzera o la Germania,
non consentirebbero l'innesto di un processo deflazionistico, di un
circolo vizioso provocato dalla paura. Un circolo vizioso che può
essere interrotto mediante la creazione di cartamoneta.
E' vero che in questo modo si crea inflazione. E non nego che essa
ponga certi problemi.
Ma non dimentichiamo che alcuni economisti, anche seri, hanno sostenuto
che il motivo per cui il crack del '29 si è verificato è
che l'estrazione di oro non riusciva a tener dietro all'espansione
del commercio mondiale. Robert Triffin e altri esperti sì preoccupavano,
vent'anni fa, per la scarsità di flottante monetario internazionale.
E proprio per quel motivo il prezzo dell'oro venne aumentato. Ebbene,
ora il sistema nuota in un mare di liquidità. Questo non vuol
dire che i nostri problemi sono risolti. Significa che alla ribalta
ci sono nuovi tipi di problemi, e che il vecchio problema è
stato eliminato.
Milton Friedman
Non credo che, nelle condizioni attuali e prevedibili per il futuro,
si possa ragionevolmente profetizzare un'altra grande depressione
come quella del 1929/33. La caratteristica principale di quell'evento
storico fu, soprattutto negli Stati Uniti, la deflazione monetaria.
Oggi, il problema dominante è quello opposto, l'inflazione.
Dalla Grande Depressione ad oggi, sono intervenuti mutamenti fondamentali
nelle istituzioni e nei modi di pensare, che hanno modificato sostanzialmente
le reazioni cicliche dell'economia americana, europea, giapponese.
E i cambiamenti intervenuti nell'atteggiamento del pubblico nei confronti
dell'inflazione e della deflazione hanno modificato completamente
le reazioni a livello politico ai mutamenti economici. A mio avviso,
gli effetti complessivi di queste alterazioni delle istituzioni e
dei modi di pensare fanno sì che una depressione di notevole
gravità, ossia paragonabile a quella cominciata nel 1929, sia
oggi inconcepibile.
Quella depressione fu una catastrofe di dimensioni senza precedenti,
e non solo per gli Usa. Nel '33 il reddito monetario americano era
dimezzato, il prodotto totale si era ridotto di un terzo e un lavoratore
potenziale su quattro era disoccupato. Ma fu un'immane catastrofe
per il resto del mondo. Il diffondersi della depressione ad altri
Paesi causò diminuzioni della produzione, lievitazioni della
disoccupazione, fame e miseria dappertutto. In Germania, contribuì
all'ascesa al potere di Hitler, preparando così lo scoppio
della seconda guerra mondiale. In Giappone rafforzò il già
notevole potere dei circoli militaristici che sognavano di creare
la "sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale".
In Cina distrusse il sistema monetario, indebolì il governo
nazionalista impegnato nella lotta contro i giapponesi e, successivamente,
contro i comunisti, e creò le premesse dell'iperinflazione
che segnò il destino di Chiang Kai-shek e l'avvento al potere
di Mao.
Le conseguenze furono, dunque, di ordine politico, ma anche filosofico
e sociale.
Convinsero, ad esempio, che Marx aveva ragione nel condannare il capitalismo,
giudicandolo un sistema fondamentalmente instabile e suscettibile
di provocare crisi anche più gravi. Ma provocarono anche un
drastico giro di boa nel pensiero economico, lanciando la rivoluzione
keynesiana, che non solo conquistò gran parte degli economisti,
ma fornì una diagnosi e una terapia che giustificarono massicci
interventi governativi nell'economia.
John K. Galbraith
La storia non ha bisogno di essere difesa: la sua forza è la
sua realtà. Ma penso che sia importante tener viva la memoria
di quel che accadde nel '29 e negli anni successivi, perché
né le regolamentazioni pubbliche né il migliore livello
morale dei promotori societari, brokers, venditori di titoli, operatori
di mercato, banchieri e gestori di fondi d'investimento possono evitare
queste ricorrenti epidemie speculative e le loro conseguenze. La prevenzione
è affidata alla memoria delle illusioni passate, e al risveglio
da queste illusioni.
Negli anni Sessanta, così come negli anni '20, uomini che la
natura aveva destinato a occupazioni che non richiedevano troppa intelligenza
diventarono ricchi, almeno per un po'. E questo soltanto perché
il mercato saliva. Alcune conseguenze, dopo che questa fase venne
a conclusione nel 1970, furono ancora peggiori. Negli anni '60 le
ditte di Wall Street si rivelarono nettamente più incompetenti
nella gestione della loro amministrazione che negli anni '20, e si
erano ampliate molto più incoscientemente.
Quando venne il crollo, le conseguenze furono molto più gravi
di quelle del '29. Ma le nuove leggi avevano fatto, almeno in parte,
il loro dovere.
Di conseguenza, l'innesto della retromarcia, inevitabile quando una
società deve pagare gli interessi prelevandoli da profitti
in diminuzione sulle azioni, fu molto meno violento. Il giorno del
giudizio, nel '70, e quel che seguì, furono esperienze sgradevoli,
e l'ampiezza del declino del mercato non fu molto diversa da quella
dell'autunno del '29. Magli effetti non furono cumulativi e le conseguenze
sui consumi privati, sugli investimenti industriali e sull'economia
in generale furono meno severi.
La lezione è chiara: né le regolamentazioni né
la memoria rappresentano una protezione perfetta contro la tentazione
di illudere se stessi o gli altri. Se gli uomini si persuadono a sufficienza
della loro abilità magica, o di quella di altri, finiranno
per perdere il loro denaro. Ma le leggi e le norme che erano il retaggio
del '29 possono attenuare il colpo. E sono convinto che anche il ricordo
del '29 può contribuire ad evitare il peggio.
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