IL FLAUTO MAGICO DEI NUOVI ZAR




Claudio Alemanno



Mentre stavo contemplando l'aurora si è fatta sera. Questa immagine del poeta tedesco Novalis è il primo commento che mi sia venuto in mente leggendo le proposte della Bicamerale. Era difficile credere nella bontà di un progetto di revisione costituzionale adottato con metodi rituali nella produzione legislativa ordinaria. Era utopistico ritenere che emendamenti costituzionali sollecitati dall'urgenza politica di uscire da una pesante condizione di stallo potessero essere ispirati da una vigorosa e profetica voglia di rinnovamento. Era inevitabile che la bozza finale contenesse più incantesimi per una borghesia impaurita che propositi di riforma radicati nella Società e largamente condivisi.
E' pur vero che siamo ancora nella fase costituente (esistono altre iniziative ed almeno altri due progetti organici su cui lavorano a Milano gruppi di studio che fanno capo a Miglio e alla fondazione Popper), ma lo scetticismo è d'obbligo.
L'uso del manuale Cencelli per definire proposte costituzionali di estrazione parlamentare esprime bene il malessere della Politica, la sua dipendenza da logiche e affetti antichi. Più numerose sono le concessioni al metodo, più scadente risulta l'esito del compromesso.
Sono quindici anni che si porta avanti il tentativo di modificare la Costituzione per via parlamentare (prima hanno lavorato alacremente le Commissioni Bozzi e lotti, ora la Commissione D'Alema), dialogando sempre all'interno di circoli esclusivi in cui il gioco dei veti incrociati ha offerto l'unica testimonianza di potere sovrano.
Altro era il clima nella Commissione dei 75 presieduta da Ruini. Alimentata da un patrimonio ideale di alto profilo elaborò nel 1947 l'attuale assetto costituzionale lavorando al di sopra e al di fuori delle ferree logiche di partito.
Ecco uno snodo centrale. Una forte motivazione ideale si trova sempre alla base di ogni espressione di progettualità costituzionale. Anche la Magna Charta Libertatum (1215), atto di nascita del parlamentarismo europeo, ebbe origine dalla rivolta ideale dei baroni inglesi contro il loro re.
Di solito le riforme costituzionali danno legalità ad alcune idee vincenti nel definire la proprietà e l'organizzazione dei mezzi di produzione nonché i poteri statali di sostegno. Tutto ciò non è indolore, anzi finisce per lasciare sul campo morti e feriti.
Il rituale opaco e contraddittorio della Bicamerale rischia invece di rendere gli italiani cittadini europei sans-papier. Di fatto, finisce per dare vigore alle tendenze inclini a svuotare i poteri della costituzione formale a vantaggio di una costituzione materiale (s'inizia con l'adozione di pratiche surrogatorie, poi si istituzionalizzano forme di diritto consuetudinario).
Le tematiche per una riforma scritta della Costituzione non possono essere trattate con la cinica logica dello "scambio", come un pacchetto titoli da gestire in una Stanza di compensazione. L'intero processo decisionale ha risentito di un limite culturale emerso in modo palese negli aggiustamenti praticati in corso d'opera. La cultura della diga (fascismo-antifascismo, comunismo-anticomunismo, leghismo-antileghismo) e la logica degli schieramenti hanno movimentato timori politici e alimentato acrobazie tecniche che di fatto hanno reso poco credibile il progetto. Anche se pensato con buone intenzioni, resta difficile coniugare, come chiedeva Alain Touraine, la Ragione col soggetto, le istanze della Politica con le rendite istituzionali.
Un tempo si diceva che i regimi nascono a sinistra e muoiono a destra per la semplice ragione che è difficilmente gestibile una rendita di posizione rivoluzionaria (il recente collasso delle tecnocrazie comuniste lo conferma). Ma non basta il dissolversi di un sistema per rendere subito conveniente e convincente un sistema alternativo. Il disordine e la crisi attuale delle Società post-comuniste sono causati anzitutto dall'assenza di una classe dirigente che abbia confidenza con le regole del Mercato e della democrazia liberale. I buoni propositi espressi nelle nuove e pregevoli Carte costituzionali non hanno prodotto né potevano produrre da soli grandi risultati. La transizione che attraversa la Società italiana ha matrici diverse ma anche alcune analogie.
Sicuramente è meno drammatica, più per meriti altrui che nostri, dovendo essere grati alla lunga militanza nella Comunità Europea, ai saldi valori di democrazia ch'essa esprime e ai vincoli monetari ed economici che siamo tenuti a rispettare.
Ma anche da noi resta centrale il problema di rifondare la Società civile articolando ex novo ruolo e peso dei diversi segmenti di dirigenza. Anche da noi il Mercato è tutto da scoprire, essendo ancora una sorta di Moloch alieno alla cultura del popolo-principe.
I costituenti devono avere piena consapevolezza delle ragioni profonde che sono alla base del disagio italiano. Qualunque approccio verso il riordino degli apparati di gestione della cosa pubblica è allarmante. Se ci si avventura nelle tematiche della giustizia un dato colpisce subito per il suo significato emblematico. In Italia sono operanti cinque magistrature (ordinaria, amministrativa, tributaria, militare, delle acque pubbliche) oltre a numerose giurisdizioni speciali e cinque polizie ufficiali (carabinieri, polizia di Stato, guardia di finanza, guardia forestale, polizia municipale). I conflitti di competenza riempiono tomi di giurisprudenza e tavoli di lavoro. Eppure non si legge ancora una proposta chiara e forte (forse costituzionale!) che al principio della giurisdizione unica faccia seguire un unico organico e uffici specializzati per tipologia di contenzioso.
Se ci si accosta ad ipotesi di riforma dello Stato sociale balza subito in evidenza il labirinto delle rendite di posizione collegate alle innumerevoli nicchie protette. Così all'improvviso si scopre che il male oscuro nasce dall'atlante mai scritto di tutti i feudi abilitati ad esercitare l'ordinaria anarchia.
In fondo, al cittadino interessa poco sapere se in Italia domina il potere giudiziario, se deve restare egemone e centrale il ruolo del Parlamento e dei Partiti, se la forma-Governo più efficace è quella del premierato francese o israeliano. Il cittadino si aspetta un nuovo ordine formale e sostanziale e per ogni espressione dei pubblici poteri strumenti efficaci di controllo riconducibili alla sovranità popolare. Non è casuale che le aspettative in senso federalista sottolineino l'accresciuto interesse individuale verso l'autodeterminazione rispetto all'onnipotente principio delle deleghe. Non è casuale che proprio sulla proposta federalista di D'Onofrio vi siano state le reazioni più violente.
Come può una classe politica educata e cresciuta nella venerazione dell'ortodossia statalista abbracciare con convinta partecipazione l'idea di un sindacato delle sovranità? Se c'è buona fede nella proposta essa si scontra con molti pasticci istituzionali provocati inevitabilmente da una salda cultura statalista ancora dominante. E' difficile che su temi che implicano cambiamenti radicali di metodo e di costume si verifichino improvvise, catartiche conversioni.
Un equivoco di fondo domina questo dibattito. L'Amministrazione della Giustizia e degli altri poteri costituiti è stata fin qui interpretata non come funzione primaria di garanzia del cittadino ma come prevalente difesa della Società da parte dello Stato.
La degenerazione e lo scontro tra i poteri hanno la loro prima matrice in questo approccio interpretativo della concezione statalista che risale al momento unitario e che ha reso e rende parziale qualunque disputa sull'imparzialità e conflittuale ogni definizione di confine. Una riforma federalista postula la consapevolezza che nella riorganizzazione dei poteri dello Stato i diritti dei singoli siano prioritari rispetto ad ogni altra ipotesi di lavoro.
E' fatale poi che a sostegno dell'unità nazionale e contro possibili ipotesi degenerative di secessione si istituzionalizzi un Esecutivo forte o si doti la Repubblica federata di un Abate-Presidente.
Se siamo, come siamo, condannati a vivere in una Economia di Mercato occorre dotarsi di regole di gestione che abbiano nella Carta costituzionale un sicuro punto di riferimento. Ponendo limiti certi agli anarco-capitalisti e all'ideologia di un laissez-faire indiscriminato e onnicomprensivo.
Dal momento che l'ideologia comunista è decisamente screditata, le minacce più serie vengono ora da un'interpretazione totalizzante del laissez-faire. Nell'era industriale lo Stato era soggetto centrale nell'organizzazione della produzione e degli scambi e l'Impresa aveva con esso un rapporto di lavoro organico. Nell'era informatica, con la globalizzazione intesa come nuova frontiera dello sviluppo capitalistico, diventa centrale il potere dell'informazione e delle conoscenze (know-how). L'Ente Stato appare spiazzato, non è più interlocutore esclusivo e autorevole dell'Impresa. Di fatto, perde prestigio e competenze e vede ridursi l'area della sovranità di cui la cultura illuministica lo ha sempre accreditato. Ma ciò non esclude la centralità del suo ruolo e delle sue leggi, che paradossalmente acquistano una più incisiva funzione regolatrice proprio là dove il cyber mondo, il totalitarismo catodico e un Mercato senza regole tendono a ridurre gli spazi della democrazia condizionando i comportamenti individuali e collettivi. Ecco un altro buon motivo per salvaguardare e anteporre il primato del cittadino e dei diritti civili.
Da qui nasce una triplice esigenza costituzionale che ha quasi il sapore di una trincea: ripensare il rapporto Stato-Impresa, spostare il centro di gravità dai poteri degli apparati ai poteri del singolo, articolare un circuito istituzionale che renda praticabile una democrazia di massa abbandonando l'elitismo implicito nella concezione dello Stato-Dio minore.
Com'è noto, quando si va in cucina si lavora con gli ingredienti che si trovano in dispensa. E' fondamentale quindi trovare la giusta cucina. Fornita per l'occasione più del coraggio di D'Artagnan che della tenebrosa e intrigante astuzia di Richelieu.


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