LE DIMENSIONI DEL DISAGIO




Franco Bonati, Alberto Franceschi



L'occupazione del municipio di Messina, i gravissimi incidenti di Napoli, la situazione pugliese con gli sbarchi albanesi in parte alimentati da organizzazioni criminali, sono sintomi di un disagio di tipo nuovo che si sovrappone al dualismo economico Nord-Sud, una piaga storica dell'Italia. Le cronache degli "interventi" nel Mezzogiorno, nati per ridurre il famoso e famigerato divario, testimoniano il fallimento delle politiche di riequilibrio, eccezion fatta per alcune aree. Queste, a dire il vero, si sono sviluppate più grazie a una vivace imprenditoria locale, che in virtù degli onerosissimi interventi della Cassa per il Mezzogiorno e, negli anni '80, della legge 64 "per l'intervento straordinario".
Il nuovo disagio meridionale nasce dall'accentuarsi, a partire dal 1992, del divario col Centro-Nord per quanto riguarda occupazione, reddito, tenore di vita, sviluppo. Fino allora, infatti, la tensione tra Nord e Sud era ammortizzata dalla redistribuzione operata dalla spesa pubblica, che interveniva sia con investimenti in opere pubbliche sia col sostegno dei redditi mediante trasferimenti, sia infine con la creazione diretta di posti di lavoro, al di là delle oggettive necessità. Al riguardo, si può citare il paradosso della città di Palermo, più "terziarizzata" (in termini di addetti al settore pubblico e dei servizi non destinabili alla vendita sul totale della popolazione) della stessa Milano. Accanto al sostegno esplicito della spesa pubblica, esisteva la rete a maglia stretta dell'economia informale. Il settore sommerso - fatto dì attività lecite e non -occupava nel Sud, secondo le stime Istat, ben il 32% dei lavoratori nel complesso. Non ci si meravigli, pertanto, che fino al 1993 la stima del "salario di riserva" - ossia del salario minimo per accettare un posto dì lavoro ufficiale - superasse il milione e mezzo di lire per più di un disoccupato meridionale su due.

Demografia e occupazione
Si deve riconoscere che la crisi del '92 riguardò tutto il Paese, e che i processi di ristrutturazione colpirono pesantemente l'occupazione settentrionale. Nel '94, tuttavia, il Sud riprese ad allontanarsi dal Nord. Questo, infatti, trasse vantaggio, con la sua produzione orientata ai mercati esteri, dalla svalutazione della lira, tanto che, dopo una caduta esaurita nel '94, l'occupazione del Nord prese nuovamente a salire, mentre quella del Sud non cessò di scendere. Inoltre, poiché il Nord e il Sud hanno tassi di accrescimento demografico diversi, le nuove classi che si affacciano ogni anno sul mercato del lavoro sono significativamente più ampie nel Sud che al Centro-Nord, e questo aggrava la situazione nelle regioni già fortemente colpite dal fenomeno della disoccupazione.
Nel Nord, la mera domanda di lavoratori per il turnover è, in prospettiva, più o meno bilanciata dall'offerta demografica locale, il che sarebbe sufficiente a non fare ulteriormente peggiorare il tasso di disoccupazione, pari in media al 7,1%. Per contro, l'allarmante proporzione di disoccupati nel Sud (media del 21,3% della forza lavoro) tende ad accrescersi sia per il vuoto di spesa pubblica, non compensato dal settore privato, sia perché le classi giovanili sono ancora relativamente numerose, tanto che tra i giovani meridionali la disoccupazione ha già oltrepassato la soglia-limite di una persona su due (59,9%).


Si possono comprendere, allora, gli scricchiolii dello Stivale. Che provengono sicuramente dalla Pianura Padana, luogo originario della nascita della Lega Nord, ma anche dal tratto di penisola che va da Napoli all'estremo limite di Lampedusa. La gravità dei segnali - ampiamente sottovalutata, almeno fino ad oggi - è del resto confermata anche da numerosi indicatori, economici e non, riguardanti la società meridionale.

La crisi dell'edilizia
Dal '92 tutto è mutato. La spesa pubblica corrente in percentuale del Pil ha cessato di crescere, incanalando il bilancio dello Stato in un necessario sentiero di risanamento che dovrebbe sfociare nell'Uem. La spesa per gli investimenti pubblici infrastrutturali si è anch'essa bloccata, frenata dall'abolizione dell'intervento straordinario, nonché dagli effetti collaterali di Tangentopoli, che si stanno protraendo ai nostri giorni. La caduta verticale del settore delle costruzioni ha colpito in maniera diseguale le diverse regioni del Paese, e ha particolarmente penalizzato la parte meridionale, dove l'edilizia rappresentava ancora un settore di base e - talora - la maggiore industria, quella portante, dalla quale dipendeva l'articolato indotto dei settori artigianali. Si pensi che all'inizio degli anni '90 le costruzioni rappresentavano il 15,3% del valore aggiunto industriale nel Centro e nel Nord. La percentuale era però del 28,2% nel Sud, con punte del 31,3 in Sicilia e del 41,5 in Calabria.

L'aumento dei fallimenti
La fragilità del tessuto produttivo privato, scarsamente internazionalizzato, sottocapitalizzato e povero di innovazione, è testimoniata dalla frequenza dei fallimenti. Nel 1996 sono cresciuti, in un solo anno, del 14% in Calabria, del 15% in Sicilia, del 16% in Sardegna, contro le cifre più favorevoli delle regioni del Nord (+8% in Lombardia, -0,5% nel Trentino Alto Adige). Ancora: è fallito negli ultimi dodici mesi il 2,5% delle imprese piemontesi, ma ben il 4,5% di quelle pugliesi e il 5,3% di quelle campane.

A fronte di questa situazione, la giustizia esecutiva, fondamentale in ogni economia di mercato, in taluni tribunali del Sud ha ancora aperti fascicoli che risalgono agli anni Settanta.

La criminalità
Il fenomeno è in crescita costante. L'indice sintetico calcolato dal Centro Studi Confindustria colloca il Sud d'Italia al livello di 165, fatta pari a 100 la media nazionale. Il Piemonte, per esempio, non arriva a un valore di 80, e una piccola regione come la Valle d'Aosta ha un indice appena di 44. Le sfaccettature della criminalità sono molte, non ultima quella degli effetti sullo sviluppo.
A giudicare dagli ultimi dati disponibili, la relazione tra benessere e criminalità nelle regioni italiane è negativa, il che rende più che mai urgente il ripristino di condizioni di legalità minima nel Sud, come pre-requisito per il normale svolgersi delle attività produttive.

La dotazione infrastrutturale
Da questo punto di vista, il territorio meridionale è ancora troppo povero per attrarre nuove attività manifatturiere. Secondo i dati, fatta pari a 100 la media nazionale, la dotazione infrastrutturale del Piemonte è 102,4, quella della Lombardia 129,5. In Campania si scende a 92, 1, in Calabria a 81,8 e in Sicilia a 69,3. Terminata l'epoca discussa degli "interventi straordinari", buona parte del Sud è tuttavia compresa tra le regioni "in ritardo di sviluppo", il cui adeguamento infrastrutturale rappresenta l'obiettivo Uno dell'Ue.
Le risorse messe a disposizione dall'Unione sono imponenti, anche perché si aggiungono, e non si sostituiscono, ai finanziamenti degli Stati per gli stessi scopi. Ma dei 55 mila miliardi europei (più altrettanti che Stato e Regioni debbono sommare, più quelli degli imprenditori che intendono investire nel Sud) disponibili per il periodo 1994-99, solo il 15,8% era stato speso alla fine del '96, e vi è il concreto rischio di perdere in parte o del tutto le somme stanziate se almeno il 38% non sarà speso entro la fine del '97. Il deficit di infrastrutture si accompagna quindi anche a un deficit di progettualità e di capacità di gestione di una ricchezza che potrebbe per tanti versi essere risolutiva di molti antichi e nuovi problemi.

L'inefficienza della Pubblica Amministrazione
E' vero che l'amministrazione pubblica italiana non brilla per efficienza: ma nelle regioni meridionali la sua luce è proprio fioca. I lavori dell'autostrada Palermo-Messina sono ad appena i due terzi del percorso, a vent'anni dall'inizio. E gli 80 metri della bretella Brancaccio-Palermo stanno aspettando da 15 anni!
L'area industriale di Marcianise, in Campania, che occupa 10 mila addetti e dove l'investimento di Benetton è ostacolato dalla burocrazia, è senza raccordo ferroviario e con l'interporto incompiuto. Ancora: la diga sul fiume Metramo (Reggio Calabria) è poco più che un'amenità paesaggistica, visto che gli impianti di derivazione delle acque a valle non sono stati mai realizzati. I capitoli di questa tragica antologia potrebbero continuare per un bel po'. E riguardano tutte le regioni.

Credito e usura
Anche nel settore finanziario il sistema meridionale non ha dato una buona prova: la fusione tra Bnl e Banco di Napoli è, in realtà, un'operazione di alta ingegneria finanziaria, fortemente voluta e pilotata dal Tesoro, grazie alla quale la Fondazione del Banco è stata esautorata e il Consiglio dell'azienda di credito svanirà di fatto, suggellando la chiusura di un'epoca di crediti facili, concessi a soggetti "a rischio", e costati ai contribuenti circa duemila miliardi di lire nel '96. E' paradossale la situazione creditizia del Mezzogiorno. Il confronto tra il valore locale e quello nazionale del quoziente impieghi/depositi bancari mette in evidenza che vi sarebbero circa 40 mila miliardi potenzialmente disponibili per finanziare l'economia, che invece i risparmiatori dirottano prevalentemente verso i titoli di Stato. Così, l'economia locale resta quasi all'asciutto, ed èsostenuta da banche radicate nel territorio da molti decenni. Intanto, la diffusione delle varie forme di attività criminale, insieme alla crisi economica, produce ed estende l'odioso fenomeno dei prestiti usurari. Nel '96, secondo quanto emerso dal "Rapporto Bnl/Centro Einaudi sul risparmio e sui risparmiatori in Italia", gli intervistati (risparmiatori) a conoscenza diretta di fatti di usura costituivano appena il 2,8% del campione nel Nord-Est. Salivano al 5,8% nel Nord-Ovest, all'8,3% nel Centro-Nord, al 9,9% nel Centro-Sud. E toccavano la punta dell'11,2% al Sud e nelle Isole.

L'impoverimento dei bilanci familiari
Un ultimo segnale del particolare disagio meridionale si trova negli stessi saldi dei bilanci di famiglia dichiarati dagli intervistati nell'indagine Bnl/Centro Einaudi. Il campione sondato non è rappresentativo della famiglia italiana, ma piuttosto della famiglia appartenente alla classe media. Per esigenze informative, infatti, il campione è deliberatamente selezionato tra coloro che hanno la disponibilità di un conto corrente bancario o postale, sicché in solo tre interviste su 1.021 si sono raccolte informazioni da persone prive di occupazione.

 

Eppure, il 7,2% delle famiglie intervistate ha espresso uno stato di acuto disagio economico, derivante dal mancato risparmio, unito all'insufficienza del reddito corrente per sostenere il tenore di vita quotidiano. Il "disagio delle classi medie" si distribuisce in modo molto differenziato da Nord a Sud. Tocca il minimo nel Nord-Est, dove riguarda appena l'1,7% delle famiglie. Triplica nel Nord-Ovest (5,8%) e raggiunge i valori massimi nelle Isole (8,9%) e nel Sud (18,2%). Proiettando queste percentuali sull'universo delle famiglie, divise per arca geografica, si giunge alle cifre indicate nell'ultimo grafico.
Sono ben un milione e 600 mila le famiglie italiane cadute nel '96 nella condizione di non disporre di mezzi sufficienti per sostenere il normale tenore di vita, quindi probabilmente costrette a prelevare risparmi o ad accedere al credito (o all'usura) per i consumi quotidiani. Ma mentre nel Nord-Est queste famiglie superano di poco le 60 mila unità e nel Nord-Ovest raggiungono il numero di 334 mila, nel Sud e nelle Isole si concentra la maggior parte del "disagio delle classi medie", essendo oltre 950 mila le famiglie medie toccate dal problema di non riuscire più ad arrivare alla fine del mese. Si tratta di numeri rilevanti, che, aggiunti a quello dei senza lavoro e/o indigenti al di sotto della linea di povertà, contribuiscono a definire la vastità e la capillarità della crisi del sistema economico meridionale.


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