DE REPUBLICA




Aldo Bello



Diceva Voltaire che la Storia è un grande arsenale dal quale ognuno prende l'arma che gli serve. E lui di manipolazioni s'intendeva. Il fatto che la Storia sia continuamente riscritta significa che la sensibilità, il punto di vista, persino gli umori di ogni generazione impongono una rilettura. Per questo ogni generazione ha la Storia che si merita. Scritta in maiuscolo o in minuscolo.
L'Italia è, come altre Nazioni europee, un Paese che soffre di un eccesso di Storia e di storie. Ora, poiché ci sono un tempo per lo slancio civile e uno per la riflessione, ritengo che passione e ragione, coniugate alternativamente nel tempo, debbano poi dar luogo a una sintesi, ad una "terzietà" che dia gusto al ricordo del passato, ma vedendolo sotto la luce dell'attualità. Guai se crolla il ponte fra il nostro ieri e il nostro oggi, che unisce, e non spezza, le generazioni. Ma la terzietà si ottiene professando amor di filologo, rintracciando e analizzando documenti, tutti i documenti possibili, senza censure di sorta; e chiamando le cose - i fatti - con il loro nome: senza giri di parole o raggiri del prossimo. Allora, nel momento in cui si discute di rotture dell'Unità, di secessioni e di altri strappi centrifughi, è bene rileggere alcuni momenti della nostra Storia e delle nostre storie, e interrogarci sul passato comune e sulla condizione presente, per ottenere più precisi punti di riferimento e più obiettive cognizioni di causa nel dibattito in corso d'opera in questi nostri giorni ambigui e per tanti versi oscuri.
Nello Stato unitario noi abbiamo avuto un certo Risorgimento, come poi una certa Resistenza. "Entrambi", ha scritto Aldo Maffey, "tutt'altro che certi, anzi alquanto improbabili"; che comunque contribuirono a creare un minimo, ma proprio minimo, di coscienza e di orgoglio nazionali. Solo gli storici più attenti sanno che Cavour minacciò di annientare Garibaldi e tutti i suoi garibaldini, se il Nizzardo non si fosse fermato nella sua risalita a Nord. Gli stessi storici sanno che la Resistenza è stata - e finalmente si comincia a chiamarla - una delle guerre civili italiane. Parliamo per ora delle minacce a Garibaldi. La frase testuale di Cavour fu questa: "Se si rivoltano, sterminateli fino all'ultimo". Nell'edizione nazionale delle Lettere di Cavour, che comprende molti e voluminosi tomi, questa frase venne eliminata. C'è solo l'invito a "mostrarsi inesorabili per Mazzini e i mazziniani" rivolto ai rappresentanti che Cavour aveva scelto fra i più accaniti nemici dell'Eroe dei due Mondi. Ora, finalmente, si può dir male anche di Garibaldi, e conoscere gli scrupoli scarsini di Cavour.
Denis Mack Smith ci fornisce buoni argomenti, nella sua biografia di Mazzini, per rivendicare a questi anche l'idea della spedizione dei Mille. Tenendo allo scuro Garibaldi per non offenderne la vanità. Quanto al Mazzini, non è stato mai simpatico alla stragrande maggioranza degli italiani. Non solo perché autore del - per noi - aureo testo sui diritti e i doveri del cittadino, in un Paese che continua a ritenere i diritti nient'altro che privilegi e a delegare i doveri agli altri, ma anche per la fama di iettatore che "il figlio del beccaio", Vittorio Emanuele II, gli aveva affibbiato. Tutto questo non è stato riversato nella società da giornali dell'epoca monarchica, né dalle pagine di un Pietro Silva in tempi repubblicani. Continua a restare alto e sterilizzato nei libri per specialisti. Al di fuori dei colti e delle, inclite, si propina la storia al minuscolo.
Partiamo dall'inizio. Tutto accadde duecento anni fa, nel 1797. Nel corso di un mese, tra la metà di gennaio e la metà di febbraio, l'Italia dell'Ancien Régime sobbalzò sotto una scarica di energia, cambiò bruscamente velocità e precipitò caoticamente nell'età moderna. Rivoluzione? Nient'affatto. Ciò che accadde fra Rivoli Veronese (14 gennaio), dove Bonaparte mise in fuga l'esercito austriaco di Alvinczy, e Tolentino (19 febbraio), dove mise in ginocchio il Sommo Pontefice, fu una combinazione esplosiva di audacia, ambizione, fortuna militare, torpore della vecchia aristocrazia, agitazione di piccole minoranze, opportunismo di politici emergenti, farneticazioni di intellettuali, intrighi di corte, calcolo di governi e una manciata di rabbia popolare, in parte spontanea, in parte suscitata artificialmente da "agenti provocatori". La vecchia Italia era uno splendido magazzino pieno di costumi, parrucche, uniformi, pennacchi, spade da torneo e corazze da parata. Bastò un mese perché la fiammata accesa da Napoleone lo riducesse a un mucchio di ceneri fumanti.
Nelle settimane seguenti, principescamente installato in un castello presso Milano, Bonaparte si mise a disegnare la carta d'Italia. Per tutta la primavera e parte dell'estate giocò a spostare confini e a progettare un nome per le province conquistate. Transpadana, Cispadana, Cisalpina: non passava giorno che la sua creatura non cambiasse nome.
Il 9 luglio, finalmente, nacque una "Repubblica Cisalpina" abitata da tre milioni di persone, di cui facevano parte la Lombardia con Mantova, le province di Verona e Rovigo, il Ducato di Modena, i Principati di Massa e Carrara, le Legazioni di Bologna, Ferrara e Romagna, e la Valtellina. Qualche mese dopo, il Trattato di Campoformio sancì la spartizione italiana. L'Austria riconobbe la "Cisalpina" ed ebbe in cambio l'Istria, la Dalmazia, le Bocche di Cattaro, le isole veneziane dell'Adriatico, Venezia con la laguna e le terre comprese fra il Garda, l'Adige e il Po Grande. L'Italia settentrionale fu spartita fra la più rivoluzionaria e la più conservatrice delle potenze europee. Cessò di esistere il più vecchio degli Stati (la Serenissima, appunto). Acquistammo una Repubblica falsamente indipendente, soggetta alla Francia e modello degli Stati satelliti - ha scritto Sergio Romano - che l'Urss creò in Europa centrale alla fine della seconda guerra mondiale. Perdemmo un'aristocrazia ormai decrepita, che non aveva saputo difendersi né difendere la Patria, e avemmo in cambio una democrazia che doveva la propria legittimità a una potenza straniera. Con questo viatico l'Italia entrò nell'età moderna.
"Gentiluomo e scrittore, sono monarchico per ragionamento, borbonico per onore, repubblicano per istinto", diceva di sé François René, visconte di Chateaubriand nell'introduzione alle sue Memorie dall'oltretomba, segnando con un tratto di penna il trapasso compiuto dalla condizione di nobile con gli eventi della Rivoluzione francese. Solo l'onore designava la più antica forma di appartenenza. La nuova sfida, quella dell'uguaglianza, riproponeva la questione dell'aristocrazia come elemento costitutivo dei regimi. I dibattiti politici e costituzionali del secolo XIX nell'Europa continentale sono profondamente segnati da questo tema. Tocqueville, introducendo i suoi Ricordi della rivoluzione del '48, davanti alla marea egualitaria montante, perora appassionatamente la causa della proprietà terriera come ultimo riferimento strutturale di una necessaria aristocrazia, una volta abolito il privilegio. E la proprietà diventa di per sé istituto che connette la nobiltà con altri ceti sociali, è un presupposto - oltre che di stabilità - di trapasso e di circolarità sociale, accanto al merito che, col sangue, è l'altro fondamento naturale d'ogni aristocrazia.
In Italia il ruolo della nobiltà (fino alla prima guerra mondiale, quando il contesto muta radicalmente) è stato assai meno univoco e anche meno incisivo che in altri Paesi europei. L'universo frantumato dei vari Stati preunitari ha in ciò, ovviamente, un peso determinante. Ma lo stesso amalgama che seguì fu tardivo e anche controverso. La nobiltà piemontese che, col suo legame storico con la monarchia sabauda, diede prove alte di devozione alla causa unitaria, non poteva tuttavia svolgere, nel bene e nel male, il ruolo che, ad esempio, svolsero nella Germania di Bismark gli Junker prussiani. D'altra parte, l'adesione al Risorgimento che coinvolse, ad esempio, tanti esponenti della nobiltà lombarda, toscana, siciliana, non fu mai propriamente un'adesione univoca di ceto. Così l'antica aristocrazia italiana non svolse compiutamente, nel secolo XIX, il ruolo che caratterizza la nobiltà di altri Paesi e che possiamo definire come quello della "continuità" storica, nel raccordo tra Stato e società, negli stili di governo, nel modo di essere intrinseca come classe dirigente con l'interesse generale. E ciò ha avuto un peso negativo nella costruzione del sentimento nazionale e nell'amalgama insieme sociale e anche costituzionale che si andava formando, quell'elemento cioè che Bagehot, nella sua opera classica sulla Costituzione inglese, designava come "dignified part", di contro all'"efficient part" della Costituzione stessa.
L'Italia, Paese senza vere rivoluzioni, presenta poi storicamente più fratture che continuità. Lo osservava lucidamente Giustino Fortunato, in un suo tardo scritto sulle origini del Fascismo, nel quale osservava che lo Stato unitario aveva costituito una "sottile crosta di modernità", destinata a più riprese ad essere "rotta in più pezzi". E almeno per un primo, ma fondamentale tratto della storia unitaria, le vicende del ceto nobiliare hanno avuto un ruolo non secondario negli esiti precari dell'amalgama.
E tra una borghesia che ancora non c'era, o stentava ad esserci, e un'aristocrazia prepotentemente attratta dai vecchi modelli parassitari di intermediazione tra lo Stato e la proprietà agraria, l'humus su cui doveva svilupparsi la classe dirigente italiana si rivelò assai poco denso. Sciagura, questa, tutt'altro che remota dai giorni che abbiamo vissuto.
In Atlante italiano scrive Alberto Ronchey: "Il secolare contenzioso tra Nord e Sud, in Italia, sembra troppo vetusto per cominciare da capo [ ... ]. Contro gli eccessi delle ribellioni nordiste si può ricordare, per esempio, che dopo la crisi di Tunisi e la famosa "guerra tariffaria" con la Francia, il protezionismo doganale aggravò l'impoverimento del Sud per favorire l'industria del Nord. Contro il vittimismo meridionale, tuttavia, si può ricordare ben altro. Perché il capitale agrario e mercantile del Sud, dall'Unità nazionale in poi, non volle o non seppe convertirsi all'imprenditoria industriale? Se tanto a lungo il risparmio, come lamentano i meridionali, fu rastrellato nel Sud e trasferito al Nord, questo poté accadere perché proprio le classi redditiere del Sud preferivano investire nella Padania o all'estero anziché nel Mezzogiorno".
Si sono fatte molte ipotesi su una patria che non c'è più. E fra le idee che vincono e che perdono al tramonto di questo Novecento, quella di Nazione sembra si trovi dalla parte delle sconfitte, come ha sostenuto Bobbio, secondo il quale la data tragica della perdita di identità nazionale è quella del 10 giugno 1940, giorno dell'entrata dell'Italia nel secondo conflitto mondiale. Per altri, (Renzo De Felice, nel libro-intervista Rosso e nero; Gian Enrico Rusconi, in Se cessiamo di essere una nazione; Ernesto Galli Della Loggia, che alla "morte della patria" ha dedicato il suo saggio più recente), si deve parlare piuttosto dell'8 settembre '43. Per Emilio Gentile, allievo di De Felice, il discorso è più complesso. Dice: è stato difficile per la cultura italiana accettare l'idea che nel tragico triennio '43-'45 si sviluppò in Italia una vera e propria guerra civile. La seconda di questo secolo. Per capire l'8 settembre, infatti, Gentile ritiene che si debba tornare anche alla prima "guerra civile ideologica", anzi a tutto il decennio 1912-22, dalla conquista della Libia alla marcia su Roma. Nacquero, in quel torno di tempo, tre fenomeni: il sentimento dell'Italia grande potenza; il Socialismo rivoluzionario che, a differenza di quello riformista, non accettava nulla dello Stato e ancor meno era disposto a recepire il principio nazionale che lo legittimava; il Nazionalismo che, invece, si appropriò questo mito nazionale, con il corollario principale che la libertà era una nemica della nazione. Poi tutto questo esplose "nell'auspicata guerra civile" che un giovane storico di allora, poi celeberrimo, Adolfo Omodeo, pieno di fervore antigiolittiano, invocava (era il 1912) per creare quella che definiva "la Patria nuova".
Evidentemente Omodeo non teneva conto della "lotta al brigantaggio meridionale", che poi era stata una sanguinosa guerra civile, che aveva costretto i "piemontesi" a "riconquistare" il Sud 0 forse si riferiva alla guerra di secessione americana, la prima guerra moderna, anticipatrice dei due conflitti mondiali del nostro secolo per il suo carattere totalitario, per la quantità immensa di mezzi materiali, di sacrifici e di sangue che aveva richiesto. Le analogie, si sa, magari prospettate forzando un poco la mano, hanno un loro fascino. I federati americani combattevano i confederati del Sud comandati dal generale Lee non solo con le armi, ma anche con la diplomazia, l'ideologia libertaria, la carica spirituale e morale e l'azione intellettuale di un grande Presidente, LincoIn; così come, sempre in quel torno di tempo, i "piemontesi" agivano sulla spinta dell'azione politica e della visione lungimirante di Cavour. Dopo Lincoln, una serie di Presidenti inetti e mediocri non seppe impedire che il Sud degli Stati Uniti fosse messo a sacco dapprima dai disperati locali, e in seguito dai politici e dai generali del Nord, che alle macerie della guerra di secessione sommarono quelle materiali delle città nuovamente distrutte (Charleston, Columbia, Richmond Atlanta, Galveston Vicksburg ... ) e morali (vendite semiforzose, a prezzi bassissimi rispetto a quelli di mercato, delle proprietà, soprattutto di quelle migliori; saccheggio di tutte le risorse rimaste nel Sud, ecc.).
Dopo Cavour, una successione di presidenti del Consiglio dei Ministri appartenenti alla Destra Storica, da Ricasoli a Rattazzi, a Minghetti, per quindici anni (fino al 1876) vessò il Sud col fisco, col protezionismo, con la legge marziale, con migliaia di fucilati, con centinaia di condanne a vita, con confische di beni, e con la creazione di una borghesia rurale più avara e tirannica della vecchia aristocrazia: il che contribuì a determinare lo "storico fossato" tra le, due Italie. Ma, ove altre non ne esistessero, una differenza fondamentale tra piemontesi e federati c'è: i radicali americani sterminarono l'intera classe dirigente del Sud, distrussero la loro economia (in gran parte fondata sulla coltivazione del cotone) e si accaparrarono tutti i mezzi di produzione; mentre in Italia la collera del generale Cialdini e dei suoi bersaglieri a cavallo si abbattè solo sui "cafoni", contribuendo ad alimentare contestualmente i rancori e le leggende, cioè a costruire i pilastri sui quali sarebbero cresciute le male piante della sfiducia nello Stato e dell'anti-Stato. Destra e Sinistra storiche, insieme, favorirono la sopravvivenza di un'aristocrazia e la nascita di un ceto medio ugualmente parassitari e strettamente legati agli interessi dello Stato. Dunque: non mancò una guerra civile, che ci fu, e fu atroce. Mancò un'autentica rivoluzione.
I padri fondatori, da Cavour a Mazzini, facevano coincidere la creazione di libere istituzioni rappresentative di tutto il popolo italiano con la conquista, per esso, della piena dignità dell'uomo moderno e con l'universalizzazione presso le grandi masse popolari di tutti gli strumenti del progresso economico, dell'autonomia morale, dell'integrale emancipazione civile. In quella visione (radicalmente contraria allo stato d'assedio che invece si attuò nel Sud), l'affermarsi dell'individualità italiana non alimentava contrapposizioni ostili e belligere alle altre entità nazionali. Fosse con i mezzi classici dell'equilibrio di potenza, fosse con quelli idealistici e messianici della fraternità repubblicana fra i popoli, la nascita di un nuovo Stato nazionale era fervidamente creduta fattore di pace e di cooperazione, non di minaccia e di conflitto.
Il giubileo del 1911 poteva fornire anche agli occhi degli osservatori meno benevoli motivi di compiacersi del cammino percorso nel Cinquantenario. L'Italia non primeggiava in alcun campo. Ma era certo che a meritarle lo status di grande potenza, e fosse pure l'ultima di esse, non erano solo le condizioni oggettive degli equilibri internazionali; erano anche gli sforzi giganteschi compiuti e i successi conseguiti nella crescita delle infrastrutture civili, dell'economia, della mobilità sociale, della finalizzazione delle energie interne del suo popolo. E tuttavia il solco Nord-Sud continuava ad esibire la sua ferita mostruosa, e il nuovo secolo trovava la cultura e la politica accesamente divise nell'interpretare il ruolo della nazione.
Dunque, il 1911 decretò la Il morte della Patria" e la nascita di tante Patrie in lotta fra loro? Certo, ci fu allora, o meglio, da allora, la "guerra civile ideologica".- secondo alcuni studiosi, interventisti, neutralisti, socialisti, cattolici, avrebbero distrutto l'idea di Nazione fondata sulla libertà, sullo Stato unitario, sulla modernità, cui i liberali dell'Ottocento avevano lavorato con dedizione. Soprattutto né i cattolici né i socialisti sarebbero mai riusciti a integrare il paradigma dei loro compiti come organizzatori e formatori di classi e gruppi sociali variamente esclusi e subalterni, con un'accettazione se non integrale, almeno maggioritaria, e comunque positiva di ciò che lo Stato nazionale aveva pur costruito. Dall'11 al '21 si succedono lo scontro fra neutralisti e interventisti, la prima guerra mondiale, la violenta reazione del Socialismo, del Socialismo contro lo Stato borghese, poi del Fascismo contro il Socialismo. La prima guerra mondiale, e di più la seconda, misero a nudo i pericoli di queste divaricazioni. Sostiene Emilio Gentile: il fallimento del Fascismo, che da quelle divaricazioni era nato, consistette proprio in questo. Si arrogò il monopolio di creare finalmente un senso universale e spontaneo di consonanza tra i fini dello Stato e tutta la multiforme vita organica del popolo italiano. Ma esclusivizzò e distorse a tal punto l'azione di sedicente avanguardia, da estraniare il popolo dalle finalità di questa, anziché coinvolgervelo integralmente.
L'11-12, il '22, il '43, il '45 sono numeri drammatici della nostra Storia recente. Ma ce n'è un altro: il 1961, anno del Centenario dell'Unità. Allora si avvertì come la prospettiva storica fosse cambiata. E' vero, all'inizio dell'Italia repubblicana tutte le forze politiche si erano servite del mito nazionale. Ognuno aveva preteso di rappresentare nel modo migliore e con maggiore fedeltà le aspirazioni di un popolo intero. Ma il patriottismo di partito servì a poco: quel tentativo di riportare in auge nella coscienza laica il principio nazionale, di ricostituire lo Stato nazionale, di rafforzarlo proprio in virtù del mito della Resistenza come secondo Risorgimento, fu un altro fallimento.
Nel '61 Gronchi lanciò un messaggio solenne alla Nazione davanti alle Camere unite, tentando di accreditare l'idea di un Risorgimento tutto cattolico; i marxisti si ritagliarono una mitologia nazionale che inglobava non solo gli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Garibaldi, ma tutti i grandi uomini dell'Italia liberale, da De Sanctis a Croce, a Gramsci. Tutti si sentivano impegnati a costruirsi una genealogia che li giustificasse come eredi e rappresentanti autentici e insospettabili di valori e di tradizioni universali e sostanziali della vita italiana nei secoli. Ma nessuno, in realtà, ricordava più quel che il Piave aveva mormorato. Nel senso che in nessuno la Nazione era, né forse fu mai, né primaria immagine, né immagine imprescindibilmente condizionante.
Se facciamo un confronto con un Paese altrettanto turbolento dal punto di vista istituzionale, come la Francia, scopriamo cose interessanti sotto questo profilo. Parigi ha saputo metabolizzare le sue crisi attraverso un alto sentimento di sé, in quanto Nazione, consentendo -per esempio - al più intransigente degli anti-gollisti, François Mitterrand, di governare con lo stile di Charles De Gaulle. Tutto questo, in Italia, non è accaduto. Perché? Torniamo ancora al '21-'22, quando maturò la scissione fra la Patria ideale e la Patria statale. Che cos'era la Patria, e quindi lo Stato? Un marxista si sentiva innanzitutto patriota della Gran Madre Unione Sovietica. Un cattolico, pur riconoscendo l'importanza dello Stato nazionale, aveva la sua Patria ideale nel Cristianesimo e forse nell'istituzione fondamentale che era la Chiesa.
Mancando lo Stato, cioè estinta l'idea di Patria, si impresse indelebilmente nella coscienza degli italiani l'idea che il loro destino dipendesse interamente da forze esterne: da Mosca o da Washington, o magari da San Pietro in Vaticano. Fino a quando la democrazia dei partiti degenerò in partitocrazia predatoria, e la patria (in minuscolo) diventò per molti un conto cifrato nei porti franchi delle banche estere.
"Stringiti alla Patria e siile fedele con tutto il cuore", proclama Schiller nel Guglielmo Tell. Ma Cioran è sul fronte opposto: " Un uomo che si rispetti", afferma, "non ha patria". Nell'abiura del passato che sta percorrendo l'Italia sembra esserci' posto solo per le etnocrazie tribali, vere o presunte che siano state all'epoca, e per le bandiere localistiche di serenissime repubbliche, ducati, granducati, principati e monarchie pedemontane e vallive che Napoleone abbatté, che in parte il Congresso di Vienna rimise in piedi, e che i plebisciti (abilmente manovrati, se vogliamo) cancellarono definitivamente. Non si parla più di "Patria" e "patriottismo". Si parla di "Paese", di "Azienda Italia", di "treno per Maastricht". E qualche volta di "Repubblica". Ma in questo caso per lanciare un segnale: il repubblicanesimo comincia ad essere discusso anche da noi, criticamente, come punto di riferimento per un progetto culturale. E' il caso di Patria e Repubblica, un lavoro di Gian Enrico Rusconi, docente di Scienza della politica a Torino. Rusconi parte dalla constatazione - giusta - che il repubblicanesimo non è stato mai una risorsa politica importante nella nostra recente vita politica, ad eccezione del processo costituente, che resta l'episodio più carico di valore e di pathos collettivo nazionale. Dopo di che, abbiamo vissuto in una Repubblica senza cultura repubblicana. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Come rimedio al danno della carenza di coscienza civile, si propone una precisa sfida intellettuale e politica: riattivare lo spirito del repubblicanesimo, rideclinare libertà e Patria con un codice e un linguaggio che sono nostri, del nostro tempo, prendendo le distanze, specialmente in tema di virtù civili, dal repubblicanesimo classico (che ha l'apogeo in Machiavelli) e ottocentesco. Nel corso dei secoli, ammonisce Rusconi, non cambia solo di fatto il contenuto delle virtù, ma il modo stesso in cui esse svolgono il loro ruolo integrativo della comunità dei cittadini o della "Patria".
D'accordo sulla "riattivazione".
Non sul resto. Il repubblicanesimo classico e l'umanesimo civile italiano sono ancora in grado di offrirci i concetti di virtù civile, di libertà e di Patria che possono formare il nucleo fondamentale di un ritrovato linguaggio repubblicano. Per i repubblicani classici la virtù civile non è lo spirito di sacrificio del bene individuale e particolare al bene comune, come spesso si sente dire, ma la saggezza di perseguire il bene individuale e particolare all'interno dei limiti posti dal riconoscimento di un bene comune, ovvero la Repubblica. Non chiede al cittadino di rinunciare alla vita privata, ma di arricchirla e renderla sicura. Per quanto mi sia provato, non sono riuscito a trovare nella letteratura politica una concezione della virtù civile migliore di quella teorizzata dagli umanisti del Quattrocento e dal vecchio Machiavelli. E lo stesso vale per la concezione repubblicana classica della libertà politica che si fonda sul principio che esser liberi non vuol dire solo non essere oppressi, ma anche non essere dipendenti dall'arbitrio degli altri. E ciò vale anche per le altre parole-chiave del progetto repubblicano, ovvero "Patria" e "amore della Patria".
Per i nostri classici la Patria è la Libera Repubblica, con la sua Storia e la sua Cultura; e quello della Patria è un amore che ha la sua radice nella carità e si traduce in atti di servizio e di cura nei confronti della Repubblica e dei concittadini.
Non è forse di questa idea di Patria e di questo patriottismo, e solo di questi, che ha bisogno il progetto repubblicano, e soprattutto abbiamo bisogno noi e la nostra Repubblica?
L'umanesimo civile e il repubblicanesimo classico sono forse i momenti più alti della nostra tradizione culturale e vivono nelle piazze, nelle vie e nella memoria di tante nostre città. E proprio perché sono parte della nostra Storia, oltre che per il loro valore teorico, la loro voce può essere più efficace di ogni altra. Un progetto repubblicano che voglia farne a meno non avrebbe una sua forza teorica autonoma; e non avrebbe neppure il calore della Storia. Della nostra Storia.
Forse pochi, o quasi nessuno sa che a sei anni dall'Unità l'Italia aveva ancora tre orari diversi. Infatti, nel 1866, per decreto reale, si era stabilito che gli orari di tutti i treni e di tutte le navi fossero misurati sul tempo medio di Roma, tranne quelli delle isole di Sicilia e Sardegna, che dovevano riferirsi rispettivamente al tempo medio di Palermo e di Cagliari. L'ora unica italiana sopravvenne solo dal novembre 1893, con un decreto di Umberto I. Così, gli orologi degli italiani adottavano su tutto il territorio nazionale il tempo solare del meridiano situato al 15° a est di Greenwich. Prima dell'Unità, c'erano un'ora media di Venezia, una di Milano, una di Torino, e così via. Il tramonto del XIX secolo italiano mise d'accordo i pendoli. Il tramonto del XX vuol riportare indietro le lancette della storia. Di quella rifilata alle sottoculture vallive. Così, Re Concolitano e Re Aneoroesto, richiamati in servizio dalla pace eterna concessa loro dal dio Taranis, 2.222 anni dopo si ripresentano sugli scenari celtico-padani, dove si ripercorrono le tappe della disfatta degli antenati sancita dalla celebre battaglia che diede gloria ai consoli L. Emilio Papa e C. Attilio Regolo: "Vorremmo che il mondo celtico ricordasse con un cippo, a Capo Talamone, il monito: fu la divisione tra fratelli a renderci schiavi dei Romani". Riscrivendo la storia dall'età del bronzo ai giorni di Obelix, cioè nostri, dopo aver recuperato Alberto da Giussano, i padani "ripensano" Cesare, salutato come "il primo leghista", ucciso a tradimento perché "voleva sostituire la classe politica e militare romana coi Galli, meglio ancora con la sua XIII Legione, che poi erano i Lombardi"! E i Celti? "Era il 225 a. C., l'anno dopo gli accordi tra i Cartaginesi e i Celti iberici, quando la Padania si mosse per fermare l'imperialismo romano. Ma purtroppo Veneti, Liguri, Cenomani e Boi si fecero incastrare dall'abilità della diplomazia romana. L'armata padana fu costretta a lasciare forze ingentissime a casa, dietro di sé, per proteggere le case e le terre minacciate da altri fratelli padani. L'esercito dei Celti, forte di 50 mila fanti e 5 mila cavalieri, arrivò a tre giorni di marcia da Roma, ma si trovò davanti un esercito di 250 mila uomini e 23 mila cavalieri. I nostri furono bravi. E andarono incontro a una grande battaglia dalle conseguenze incredibili, la fine del mondo celtico, la schiavitù del mondo celtico. Fu l'inizio del colonialismo".
Tutto qui? No. A sistemare i riottosi tasselli della storia e della geografia ci pensa tale Gilberto Oneto, noto tra i masi e gli stazzi come "ministro della cultura del governo Sole", autore del libro fondamentale L'invenzione della Padania, la rinascita della comunità più antica d'Europa, nel quale narra un po' di battaglie combattute separatamente da Veneti, Tirolesi o Liguri: da quella di Ponza tra Genovesi e Spagnoli a quella di Lepanto tra Veneziani e Turchi: "In qualche modo anche l'assedio e la conquista di Costantinopoli hanno avuto una valenza padana, le navi erano veneziane e il primo assalto alla città fu guidato da Bonifacio di Monferrato". E poi la battaglia di Lissa, la rivolta di Nizza contro i Francesi', e persino la conquista di Gerusalemme, marcata da "un suo forte segno di padanità", dal momento che "il primo gruppo di armati a salire sulle mura era guidato da Giovanni da Rho".
E con la razza pura, e celtica, come la mettiamo? Questo Svetonio da strapazzo non si perde d'animo, e privo del senso del ridicolo sostiene: "L'occupazione romana ha esercitato una forte influenza in termini culturali ma non ha lasciato tracce sulla composizione etnica (e sul patrimonio genetico) della Padania", grazie soprattutto al fatto che "la pur massiccia colonizzazione di vaste aree è stata effettuata da ex legionari in gran parte di stirpe celtico-germanica".
Inutile chiedersi se costui abbia avuto notizia di un certo Gustav Kossinna, il professore tedesco di storia che, compiendo un ribaltone culturale, scrisse il Manuale di preistoria della Nazione germanica, dichiarò l'archeologia "scienza di interesse nazionale", coniò la celebre frase "una razza, una cultura, un popolo" e contribuì ad aprire la strada al razzismo e agli sterminii.
E' più opportuno chiedersi quale cultura repubblicana possano aver mai questi personaggi che rappresentano un palese analfabetismo politico di ritorno. Ha scritto Eco: anche se tra loro ci sono membri della classe dirigente, economica o politica, sono selvaggiamente sensibili solo alla retorica neoceltica, alla mitologia fasulla dell'ampolla, al fascino della camicia di qualsiasi colore, purché uguale per tutti.
Come parlare a costoro? Chi e che cosa deve dire? Che cosa opporre alle becere occupazioni di campanili con supporto di blindati da armata Brancaleone? Scuola, mass media, intellettuali, che ruolo potranno avere? Io non lo so. Registro, da osservatore: quel che percepisco possa accadere, e quel che è già accaduto. Partiamo dall'accaduto, ad esempio dalla proposta di attuare in Padania un'educazione totalmente dialettale, con l'inglese come lingua franca. Dice Eco: qualsiasi persona mediamente colta sa che le lingue non si impongono; che l'idea di tradurre manuali di matematica o geografia, Omero o Kant, in bresciano o in bergamasco, fa ridere; che il dialetto più l'inglese appreso non dalla nascita ridurrebbe i ragazzi padani a degli handicappati impossibilitati ad avere rapporti articolati col resto del mondo, compresa Roma ladrona alla quale devono pur vendere il tondino e i prosciutti. Il progetto è ovviamente grottesco. Ma c'è gente che vi presta orecchio. Come sottrarre costoro (gli unici e veri "terroni" dell'Italia moderna) al fascino di questa rozzezza intellettuale?
E concludiamo con la percezione: a forza di occupare campanili, di predicare mitologie e storie che non stanno in piedi neanche a volerlo, di auspicare rivoluzioni algerine contro i colonizzatori italiani, non è che, al primo vento di crisi economica, i pronipoti "puri" di Vercingetorige daranno il via a quella guerra civile che, come riteneva Omodeo, può amalgamare gli italiani? Se non entreremo in Europa, nel 1999, staremo a vedere.


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