I GIORNI DEL VOLTURNO




Ada Provenzano, Franco Rey, Lùcia Vangelli



"Obligato di lasciare l'esercito sul Volturno e di recarmi a Palermo io avea raccomandato al generale Sirtori degno capo dello stato maggiore di lanciare delle bande nostre, sulle comunicazioni del nemico. Ciò fu fatto, ma pare, chi ne avea l'incarico trovò opportuno di fare qualche cosa di più serio e col prestigio delle precedenti vittorie non dubitò qualunque impresa esser possibile, ai nostri prodi militi".
Così scrive il primo ottobre 1860 Garibaldi, rievocando la battaglia che decise le sorti del Regno di Napoli e, dopo l'assedio di Gaeta, quelle dell'Unità d'Italia. Il "qualche cosa di più serio" significava l'occupazione di Caiazzo, "villaggio all'oriente di Capua sulla sponda del Volturno": posizione piuttosto difendibile, che distava poche miglia dal grosso dell'esercito borbonico, accampato ad est di Capua e forte di 40 mila uomini.
Per impossessarsi della città, i garibaldini fecero un'azione dimostrativa sulla sponda sinistra del fiume, dove perdettero non pochi soldati, soprattutto per la superiorità delle carabine borboniche e perché costretti ad avanzare allo scoperto. Sottolinea Garibaldi: "Il 19 settembre ebbe luogo l'operazione - si occupò Cajazzo - ed io giunsi nello stesso giorno da Palermo, per assistere al deplorevole spettacolo, del sacrifizio dei nostri militi che avendo marciato secondo il costume dei volontari, con impeto verso la sponda del fiume furono poi obligati, non trovandovi ricovero, contro la grandine di palle nemiche, di retrocedere fuggendo, fulminati nella schiena [ ... ]. Il giorno seguente poi, attaccato Cajazzo da forze borboniche preponderanti, i pochi nostri furono obligati di evacuarlo, e ritirarsi precipitosamente sul Volturno, ove si perdettero non pochi militi, fucilati, ed affogati nel passaggio del fiume". Garibaldi considerò che l'operazione fu più che un'imprudenza: fu una "mancanza di tatto militare da parte di chi la comandava".
Il momento non era favorevole. La sconfitta di Caiazzo e un'altra, analoga, ad Isernia, aumentavano in ragione diretta il risveglio della reazione soprattutto nelle campagne "a tramontana del Volturno", alimentato dall'attività dell'Idra pretina, dal concentramento e dall'accrescimento dell'esercito borbonico a Capua e dalle "astute mene dei Cavouriani che lavoravano a tutt'uomo per screditarci". Tutto ciò contribuiva a demoralizzare i garibaldini e ad imbaldanzire i borbonici, che intanto fortificavano Gaeta.
Si formarono gli schieramenti che avrebbero dato luogo alla battaglia dell'1 e del 2 ottobre. Le prime colonne garibaldine dell'esercito meridionale, giunte nelle vicinanze di Napoli, vennero inviate ad Avellino e ad Ariano, a "sedare alcuni moti, suscitati da preti e da borbonici": le comandava il generale Türr, uno degli ungheresi (gli altri erano Tuckery, Eber, Dunyow) al seguito di Garibaldi, che "adempì perfettamente", sedando le rivolte, e occupando successivamente Caserta e Santa Maria (Capua Vetere).
Intanto, Bixio occupava Maddaloni, che controllava la strada per Campobasso e gli Abruzzi, e formava l'ala destra dello schieramento garibaldino. La disposizione delle altre truppe è così descritta: "La Divisione Medici occupò monte S. Angelo che domina Capua e il Volturno, e fu rinforzata poi da corpi di nuova formazione comandati dal generale Avezzana. Una brigata della Divisione Medici comandata dal generale Sacchi occupava il pendìo settentrionale del monte Tifata che mette sul Volturno. Tutte quelle forze formavano il nostro centro. La Divisione Türr occupò Santa Maria, formando la nostra sinistra". Le riserve, agli ordini del Capo di Stato Maggiore generale Sirtori, erano dislocate a Caserta.
"L'aurora del P Ottobre illuminava nelle pianure della vecchia Capitale della Campania un'atroce mischia della battaglia fratricida! Dalla parte dei borbonici - è vero - erano molti i mercenari stranieri: Bavaresi, Svizzeri, ed altri che, da vari secoli, sono assuefatti a considerare questa nostra Italia come una villeggiatura od un lupanare.
E cotesta ciurmaglia, sotto la guida e la benedizione del prete, ha sempre sgozzato di preferenza gl'italiani, dal prete educati a piegar il ginocchio. Ma pur troppo: la maggior parte dei combattenti alle falde del Tifata eran figli di questa terra infelice spinti a macellarsi reciprocamente, gli uni condotti da un giovine re, figlio del delitto, gli altri propugnando la causa santa del loro paese. Da Annibale, vincitore delle superbe legioni, ai giorni nostri, le campagne Campane non avean certo veduto più fiero conflitto, ed il bifolco passando l'aratro su quelle zolle ubertose urterà, per molto tempo ancora, nei teschi, dalla rabbia umana seminati".
Garibaldi era tornato dalla Sicilia e aveva stabilito il quartier generale a Sant'Angelo in Formis, dalla cui posizione dominante poteva scorgere il campo nemico che si trovava a levante di Capua e sulla sponda destra del Volturno. Era convinto che i borbonici si preparassero a passare all'offensiva. Per questo, fece approntare le difese, perché il fronte era lungo, (da Maddaloni a Santa Maria), e frammentato. Sant'Angelo era al centro dello schieramento, MaddaIoni era dominata dalle cime del Tifata, mentre il grosso dell'esercito borbonico poteva uscire di notte da Capua, investire Maddaloni, raggiungere Napoli e lasciare i garibaldini sul Volturno Capuano. Si temevano soprattutto le infiltrazioni attraverso i varchi lasciati dai reparti garibaldini allungati sull'intero fronte. Per questa ragione vennero rinforzate le difese nelle campagne di Santa Maria e si occupò San Tammaro. Malgrado ciò, la linea restava debole, al punto che il generale confessa le sue perplessità sulla possibilità di sostenere un urto dei nemici: "Avressimo dovuto aver più tempo, eseguirvi le opere di difesa necessarie e più gente per difenderne la vasta sua area".
Garibaldi trasferì il quartier generale a Caserta. E il primo ottobre, mentre si trasferiva a Santa Maria in treno, udì la fucileria borbonica in azione sull'intero fronte. Raggiunse il fronte in carrozza, accolto da una gragnuola di pallottole, che uccisero il cocchiere. Accorsi in suo aiuto i genovesi di Mosto e i lombardi di Simonetta, si aprì la strada verso Sant'Angelo. Ma a mano a mano che procedeva, poté verificare che i borbonici, evidentemente più pratici del terreno, avevano preso possesso delle alture: di là tiravano al bersaglio sui garibaldini. Registrò nelle memorie: "Tra le strade che dal Tifata e da monte Sant'Angelo mettono verso Capua, ve ne sono incassate nel terreno che posa sul tufo vulcanico, alla profondità di più metri. Tali strade furon forse praticate in tempi antichi come comunicazioni tattiche d'un campo di battaglia e le acque piovane scendendo dai monti circostanti hanno senza dubbio influito a scavarne maggiormente il fondo. Il fatto sta: che in una di quelle strade ponno transitarvi forze considerevoli, anche delle tre armi, ed assolutamente al coperto. I Generali borbonici, nel loro meditatissimo piano di battaglia, avevano accortamente profittato di tali strade per far passare alcuni battaglioni alle spalle della nostra linea e collocarsi sulle formidabili alture del Tifata, nella notte".
Raccolti tutti i soldati che gli vennero a portata di mano, con la Compagnia Milanese e con due compagnie della brigata Sacchi giunte dalla riserva, Garibaldi mosse alla conquista della cima del Tifata, tra le case sparse del villaggio di San Nicola, sulle alture che dominavano tutte le colline di Sant'Angelo. Fu la prima strage, con atti di eroismo dall'una e dall'altra parte: "Io potei allora salire sul monte Sant'Angelo da dove vidi la pugna fervere energicamente su tutta la linea da Santa Maria a Sant'Angelo, ora favorevole a noi ed ora i nostri piegando davanti all'impulso delle masse nemiche".
Quella dell'esercito borbonico fu una tattica di guerra classica: attacchi sull'ala destra e poi su quella sinistra, con intenti diversivi, nel tentativo di fare accorrere sulle linee esterne aiuti in uomini e artiglieria, sguarnendo così il grosso dell'esercito garibaldino; azioni di disturbo portate con pochi reparti nei punti scoperti del fronte, facilmente arginati dagli uomini di Garibaldi.
Il generale, però, non cadde nella trappola. Lasciò che i borbonici ottenessero successi parziali, limitando al massimo i danni, e tenne intatto lo schieramento di centro. Contro il quale i generali borbonici impiegarono tutte le forze disponibili in campo e nelle fortezze. E le impiegarono simultaneamente su tutte le posizioni garibaldine: "Dovunque si combatteva, e con molta ostinazione, da Maddaloni a Santa Maria". Pianura e colline del Volturno si tinsero di sangue, fino a quando Bixio sconfisse i nemici a Maddaloni, e il generale Milbitz li respinse a Santa Maria, dove lasciarono molti prigionieri e un gran numero di cannoni.
A Sant'Angelo i combattimenti si protrassero per oltre sei ore. Qui i borbonici erano stati disposti magnificamente e altrettanto magnificamente si battevano. Sicché Garibaldi fu costretto a gettare nella fornace tutte le riserve che aveva a Caserta, oltre alla brigata Eber, ai calabresi di Pace che erano appostati sui fianchi boscosi del saliente e ai bersaglieri milanesi rafforzati da un battaglione di volontari. La sanguinosissima battaglia è descritta in questo modo da Garibaldi: "Lo stradale che da Santa Maria va a Sant'Angelo è a destra di quello da Santa Maria a Capua e forma con questo un angolo di circa 40 gradi, dimodocché procedendo la colonna nostra per lo stradale, lo spiegamento della stessa doveva esser sempre sulla sinistra, ove si trovava il nemico in gran numero dietro a ripari naturali. Impegnati che furono i Milanesi e Calabresi, io spinsi ai nemici la brigata Eber, sulla destra dei primi. Ed era bel vedere i veterani dell'Ungheria, coi loro compagni dei Mille, marciare al fuoco colla tranquillità, col sangue freddo con cui si passeggia in un campo di manovre, e collo stesso ordine. La brigata Assanti seguì il movimento in avanti, e la ritirata del nemico tardò poco a manifestarsi verso Capua [ ... ]. Il nemico, dopo d'aver combattuto ostinatamente, fu sbaragliato su tutta la linea e si ritirò in disordine dentro Capua, protetto dal cannone della piazza, verso le cinque pomeridiane. Circa a quell'ora il generale Bixio mi annunciava la sua vittoria dell'ala destra sui borbonici. Per cui io potei telegrafare a Napoli: "Vittoria su tutta la linea"".
Che cosa contribuì a risolvere in favore di Garibaldi quella battaglia campale, il coraggio dei suoi uomini o l'insipienza dei generali borbonici? La risposta è nelle memorie: "Ho già detto esser la nostra linea difettosa, per irregolarità e per troppa estensione. Ebbene, per fortuna nostra, fu pur difettoso il piano di battaglia dei generali borbonici. Essi ci diedero una battaglia parallela, potendo darcela obliqua, con cui avrebbero inutilizzato le opere nostre di difesa e ricavato dei vantaggi immensi. Essi ci attaccarono con forze considerevoli su tutta la linea, in sei punti diversi, a Maddaloni, a Castel Morrone, a S. Angelo, a S. Maria, a S. Tammaro ed a S. Leucio [ ... ] cozzando con posizioni e forze preparate a riceverli. Se avessero, invece, preferito una battaglia obliqua [ ... ] e nella notte stessa portare 40 mila uomini sulla nostra sinistra a S. Tammaro, io non dubito: essi potevano giungere a Napoli, con poche perdite ... ".
I borbonici dovettero ritirarsi a Gaeta, con Francesco Il e la regina Maria Sofia, appena diciannovenne, che divenne I' "eroina" della resistenza. L'assedio fu lungo e non lasciò scampo. Le artiglierie navali piemontesi causarono un numero enorme di vittime, qui, come a Messina e a Civitella del Tronto che ancora resistevano. Cavour giunse ad offrire, tramite il generale Cialdini e l'ammiraglio Persano, due milioni di lire a Francesco II, perché abbandonasse la piazzaforte e invitasse le altre due città ad arrendersi. Gli inviati borbonici, inviati a parlamentare con i piemontesi, rifiutarono sdegnosamente. Si sarebbe scoperto, in seguito, che i Savoia avevano derubato i Borbone: un milione e 300 mila sterline sarebbero scomparse da una banca londinese. Il 5 febbraio '61 le artiglierie aumentarono il volume del fuoco, facendo saltare in aria la polveriera di Sant'Antonio. Fu una strage. Il 13 febbraio, alle tre del pomeriggio, saltò in aria il deposito di munizioni della batteria Transilvania che conteneva diciotto tonnellate di polvere da sparo.
Perirono 50 soldati e molti civili. Gaeta era ridotta in macerie. La capitolazione venne firmata due ore dopo. L'accordo raggiunto garantiva gli onori militari per tutta la guarnigione. Gli ufficiali avrebbero potuto conservare le armi personali e i cavalli; ai militari sarebbe stata concessa la paga di due mesi; era assicurata la pensione alle vedove e agli orfani. Non vi erano segrete clausole finanziarie. Il Re di Napoli, fedele al suo stile, non chiese nulla per sé e per la sua famiglia. Si limitò soltanto a far stabilire che la capitolazione avesse luogo dopo la sua partenza.
Racconta Arrigo Petacco: alle 7 del mattino del 14 febbraio 1861, Francesco Il e Maria Sofia uscirono dalla casamatta in cui avevano vissuto durante l'assedio. Li seguivano i principi di Trani e Caserta, ministri, generali, diplomatici e domestici [ ... ]. Dalla casamatta alla "porta a mare", un percorso di circa 300 metri, una folla di militari e di civili premeva contro i cordoni dei soldati schierati in ordine serrato per consentire il passaggio del corteo. Dalle finestre delle case donne piangenti lanciavano grida di saluto. La commozione generale era intensa e la banda intonò l'inno borbonico che era risonato tante volte sugli spalti durante i bombardamenti. Per qualche tempo l'emozione fu contenuta anche se soldati e ufficiali laceri e smunti piangevano senza vergogna. Poi la folla ruppe i cordoni e molti si gettarono ai piedi del re e della regina per baciare loro le mani e le vesti. Viva 'o re!, gridavano tutti, mentre alcuni ufficiali spezzavano con rabbia le loro spade e gettavano via i tronconi. Quel breve percorso richiese molto tempo, tanta era la pressione della folla [ ... ]. Quando i reali raggiunsero la Mouette a bordo di una lancia, la bandiera borbonica fu alzata sul pennone accanto a quella francese.
Un'ora dopo la nave francese salpava passando in mezzo alle navi di Persano che la sorvegliavano a distanza. Quando la Mouette superò la punta, dalla batteria borbonica di Santa Maria fu eseguita la salva reale di ventun colpi. Contemporaneamente sull'alta Torre di Orlando la bandiera gigliata fu alzata e abbassata tre volte in segno di omaggio ai sovrani che partivano. Subito dopo veniva ammainata del tutto e al suo posto fu innalzato il tricolore con la croce dei Savoia.
Il regno di Napoli non esisteva più. Ma non si può negare che un "raggio di gloria" non abbia indorato il suo tramonto.
Ci sono un po' dovunque testimonianze della guerra garibaldina nel Sud. I morti riposano ai Ponti della Valle, presso Maddaloni, a Santa Maria Capua Vetere, nella chiesa di San Lazzaro di Capua, a Castel Morrone. Ma forse il più suggestivo di tutti è a Sant'Angelo in Formis, a due passi da Capua: il paese antico, che ospitò Garibaldi, è in cima a una salita non aspra, ha case e strade di antico sapore e una lindura civilissima. Così anche gli abitanti, ai quali dobbiamo la scoperta del Cimitero garibaldino. Che è discosto dal centro antico, si raggiunge percorrendo un viottolo carrozzabile: un giorno era in aperta campagna, e in rovina. Oggi lo circondano villette con alberi di limone, quali forse solo questa terra può far crescere così opulenti. Qui è anzi la linea polare degli agrumi, il loro nord, che poi sconfina in Calabria, in Sicilia e nel Mediterraneo africano. Il cimitero è un recinto con una gradinata e tre sacelli. 0 meglio: tre sarcofaghi in pietra, il terzo dei quali raccoglie i resti di più uomini. Lo curano gli anziani dell'Auser-Filo d'Argento, che vi hanno lavorato ad uno splendido restauro, guidati da un maresciallo in pensione, Elpidio Mingione, nume tutelare di queste pietre storiche. Dentro, una pace serena, e la quiete di chi riposa per sempre, dopo i giorni del sangue e del furore: un soldato di appena 17 anni, un ufficiale, quelli del sacello comune... Un fiato rovente passò per queste colline e montagne, e si fece storia, da ideale che era stato. Speculare, nella casa del paese nella quale dimorò Garibaldi, la lapide dettata dallo Zuppetta:
"QUI IL 1° OTTOBRE 1860 / UN PUGNO DI VOLONTARI CAPITANATI DA GIUSEPPE GARIBALDI / SCONFISSE UN NUMEROSO ESERCITO BORBONICO / E GITTO' LE VERE FONDAMENTA / DELLA LIBERTA' E DELLA INDIPENDENZA D'ITALIA. / I GARIBALDINI NON HANNO PARI NELLA STORIA / SI POTREBBERO SOLO COMPARARE AI TRECENTO DI SPARTA / GUIDATI DA LEONIDA ALLE TERMOPILI. / SE NON OCCORRESSE QUESTA DIFFERENZA / CHE GLI EROI DI SPARTA SEPPERO COMBATTERE E MORIRE / MENTRE GLI EROI D'ITALIA SEPPERO COMBATTERE / MORIRE E TRIONFARE".
In quella stessa casa Garibaldi scrisse il decreto di annessione delle province meridionali. Qualche giorno dopo cadde Messina. Qualche giorno dopo ancora bruciò Civitella. Di lì a poco Roma sarebbe stata a portata di mano. L'ultima guerra d'indipendenza, e prima guerra mondiale, avrebbe unificato l'intero Stivale al prezzo di 600 mila morti.


Revisione

"L'Italia del Settentrione è fatta, non vi sono più né Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli, noi siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i Napoletani. Oh! vi è molta corruzione nel loro paese. Non è colpa loro, povera gente: sono stati così mal governati! E quel briccone di Ferdinando!
No, no, un governo così corruttore non può essere più restaurato: la Provvidenza non lo permetterà.
Bisogna moralizzare il paese, educar l'infanzia e la gioventù, crear sale d'asilo, collegi militari: ma non si pensi di cambiare i Napoletani ingiuriandoli. Essi mi domandano impieghi, croci, promozioni.
bisogna che lavorino, che siano onesti, ed io darò loro croci, promozioni, decorazioni; ma soprattutto non lasciar passargliene una: l'impiegato non deve nemmeno esser sospettato. Niente stato d'assedio, nessun mezzo da governo assoluto. Tutti son capaci di governare con lo stato d'assedio. Io li governerò con la libertà, e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le provincie più ricche d'Italia. No, niente stato d'assedio: ve lo raccomando".

(Cavour citato da W. De La Rive)

Ma era poi così povero il Regno di Napoli? Sicilia e Puglia, insieme con l'Egitto, erano state i granai di Roma. Quando l'Egitto fu perduto e la Sicilia cadde in mano ai Vandali, l'annona di Roma poté contare sempre sulla Puglia. Dal confine campano-laziale cominciava il mondo degli agrumi e degli ortaggi. Gli allevamenti erano ricchissimi, le transumanze partivano dall'Abruzzo e dal Molise e giungevano in Puglia e in Calabria attraverso tratturi che non erano carrarecce, ma piste larghe a tratti anche trenta metri. La produzione di latte, formaggi, pelli e lane era di prim'ordine.
C'era, è vero, un'enorme pressione demografica nelle campagne. Ma si trattava di un mal comune all'intera penisola, come tutti spartivano, chi più chi meno, le tragiche conseguenze di epidemie e pestilenze, invasioni e piraterie. Ma ridurre la storia del Mezzogiorno all'illusione di una gran ricchezza trasformatasi in delusione per l'arretratezza e la povertà delle genti e delle terre è riduttivo e distorto. Nel '600 il pensiero intellettuale napoletano era all'avanguardia in Europa, come nel '700 Napoli era capitale europea assai più di quanto potessero esserlo Parigi o Berlino. Nel secolo successivo, napoletane furono la prima ferrovia (la Napoli-Portici), cui seguirono altre due (Napoli-Caserta e Napoli-Capua); la prima compagnia marittima commerciale di Europa; la prima nave a vapore nel Mediterraneo.
Nel Regno operavano industrie navali, meccaniche, tessili, minerarie. E la Settima Riunione degli Scienziati Italiani tenutasi a Napoli nel 1845 servì ad esplorare quello meridionale come un mondo dotato di una ragione storica, letteraria e scientifica vitalissima. Ha scritto Giuseppe Galasso che la Napoli del '600 e del '700, tratta giustamente fuori da una ormai irricevibile connotazione di "decadenza", è venuta largamente a configurarsi come un paesaggio press'a poco di avanguardia europea, con una densità appena credibile di sviluppi di ogni genere. "Elaborato anche sul piano della storia politica e sociale, questo criterio ha trovato rapidamente cittadinanza in alcuni settori della storia intellettuale, come quello della storia delle scienze e del movimento, delle istituzioni e delle realizzazioni scientifiche": basti pensare, come limiti estremi di tale tendenza, alle ricerche sulla "nuova scienza a Napoli tra Seicento e Settecento", e al rilievo che Gianfranco Dioguardi ha dato alla sua comprensibile e non infondata esaltazione della traduzione napoletana (che è anche un ampliamento) della Cyclopaedia del Chambers del 1747, anteriore di un anno a quella veneziana ben più nota e interferente, a suo avviso, con la stessa iniziativa dell'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert.
Così, una Napoli scientificamente più dotta della Royal Society o dei gabinetti scientifici inglesi e tedeschi, una Napoli più innanzi nello spirito dei tempi della Parigi del massimo Illuminismo europeo è sembrata venirsi disegnando.
Lungi dal sottovalutare tutto questo, è necessario acquisire proprietà ed equilibrio di prospettive. Il Sud d'Italia resta, fra i secoli XVII e XIX, una parte arretrata d'Italia e d'Europa. Ma la ricchezza di articolazioni e di sviluppi della sua vita economica e sociale, la vivacità e continuità e talora genialità delle sue espressioni intellettuali sono tutte da riscoprire e da prospettare nel loro grande valore storico e civile. Anzi, debbono, come possono, contribuire ad una più ricca visione della generale vicenda culturale italiana ed europea.
La riduzione di Napoli e del suo Regno ad una pura e povera "periferia dell'impero" dell'intelligenza europea non è poco valida solo rispetto a Napoli, ma lo è anche nei riguardi di quella stessa più generale vicenda, che perde, in caso contrario, alcune sue articolazioni molto importanti e alcune sue ispirazioni singolari e originali. Il criterio della perifericità è, dunque, altamente incongruo alla natura e allo spessore storico di questi problemi. E' congruo, invece, un criterio che integri profondamente storia napoletana e storia europea e ne riconosca le rispettive parti e relazioni.
La storia napoletana non ne esce ingigantita, ma opportunamente e proficuamente stabilita nelle sue effettive e nobili, creative e positive dimensioni.
a. b.

Brigantesse del Sud

Altro che "lavare i napolitani", come aveva progettato Cavour. L'annessione del Regno di Napoli significò il loro scotennamento fiscale, il saccheggio delle banche di Napoli e di Palermo, la coscrizione obbligatoria che impoverì le famiglie di primogeniti e le campagne di braccia, lo sbando di decine di migliaia di uomini che avevano combattuto con Garibaldi. L'annessione in realtà fu una conquista, che come tutte le conquiste comportò una reazione legittimista e le rivolte di chi fu ingannato e di chi si sentì vessato. La storia, scritta dai vincitori, celebrò i fasti risorgimentali e condannò senza appello il sanguinario "brigantaggio" del Sud.
Negli anni '60 del secolo scorso fu calcolato che i "briganti" meridionali erano 80.702. Non esiste, nella storia e nella cronaca di nessun paese al mondo, neanche del più arretrato e "selvaggio", un numero di "fuorbanditi" così esorbitante. Ad affrontarli, c'erano 100 soldati, in gran parte bersaglieri, in grandissima parte a cavallo, poi diventati addirittura 135 mila: cioè un esercito organizzato contro schiere di rivoltosi separate, raramente alleate, che singolarmente prese non superarono mai il numero di 2-3.000 unità, ma che pure riuscirono a controllare intere aree dell'ex Reame. Non pochi furono certamente i fuorilegge veri e propri, i saccheggiatori, i taglieggiatori, gli uomini di stupro e d'imboscata, che approfittarono della situazione per darsi alla macchia e commettere anche i crimini più efferati. Ma una volta per tutte va detto che di vera e propria guerra civile si trattò, e che per l'ex Regno fu questione di riconquista vera e propria. Ciò comportò una lotta senza quartiere, feroce, sanguinaria, e impari. Migliaia di contadini, sospettati di brigantaggio, furono sommariamente passati per le armi, altre migliaia finirono in galera, con ergastoli comminati a piene mani. La "pacificazione" vide un Sud stremato. Quel che non aveva fatto il generale Cialdini dopo la caduta di Gaeta e Messina, lo fecero i "piemontesi" radendo al suolo Civitella e decimando la popolazione meridionale nella guerriglia che seguì all'annessione.
La storia dei "briganti" è in gran parte nota, anche se non del tutto esplorata, e meno che mai indagata nei suoi obiettivi aspetti e risvolti politico-sociali. Meno nota, quella delle brigantesse del Sud, coraggiose donne fedeli ai loro uomini, al fianco dei quali condussero una lotta dura, da irriducibili nemiche dell'Unità, pronte al sacrificio della vita pur di servire la bandiera gigliata del loro re contro i "barbari" venuti dal Nord. Un capitolo, questo, che ora è stato scritto da Tarquinio Maiorino (Storie e leggende di briganti e brigantesse. Sanguinari nemici dell'Unità d'Italia, edito da Piemme), che ricostruisce le vicende della rivolta vissuta al femminile nelle regioni meridionali.
Narra Maiorino che il magistrato Giovanni Durante, procuratore capo della Corte dei Crimini di Puglia, venne svegliato bruscamente dal sonno pomeridiano il 14 giugno 1867, nella tenuta "Le Secche" presso Lucera. Considerato uno dei più accaniti nemici del brigantaggio meridionale, il giudice venne trascinato in giardino dal brigante Gaetano Meomartino e impiccato ancora in camicia da notte. Penzolava dal ramo, quando dalla finestra della sua abitazione arrivarono dei colpi di fucile. In difesa del padre, sparava alla disperata una giovane ragazza, la duchessina Anna, uno dei più bei nomi dell'aristocrazia meridionale. Meomartino ordinò che non si rispondesse al fuoco, entrò da una porta secondaria e ne uscì portandosi dietro la ragazza.
Meomartino era figura leggendaria: insieme con due fratelli, Geremia e Giovanni, aveva costituito la banda più temibile e numerosa che scorrazzava tra la Puglia centro-settentrionale, l'Irpinia e la Basilicata, tenendo in scacco il grosso delle truppe piemontesi che combattevano il brigantaggio. Il rapimento della contessina suscitò scalpore, ma un'eco ancora più vasta si ebbe quando si appurò che Anna era diventata la fedele amante dell'uomo che le aveva ucciso il padre, divenendo brigantessa, indossando abiti maschili, abitando in grotte e caverne, anfratti e casolari, e seguendo Meomartino fino alla morte.
Caso non unico di donne sedotte dal fascino del brigantaggio, innamorate dello sterminatore della propria famiglia. Il bandito Bizzarro, vissuto ai primi dell'800 tra Calabria e Basilicata, prima di diventare un fuorbandito era a servizio presso una ricca famiglia, dove sedusse la diciannovenne Margherita. Per punirlo, i due fratelli della ragazza lo accoltellarono e, credendolo morto, lo abbandonarono in un mucchio di letame. Redivivo, Bizzarro riapparve otto anni dopo sul sagrato della chiesa di Varano, a mezzogiorno, appena finita la messa. Massacrò i due fratelli e il padre e portò via la ragazza. E costei, senza esitazione, indossò i panni di brigantessa, mostrando un eccezionale coraggio, seguendo il suo compagno nelle azioni di rapine e di agguati, e terminando i suoi giorni in carcere.
Dopo la sua morte, Bizzarro fu vedovo inconsolabile. Finché intrecciò un legame con Nicolina Lucciardi, che lo seguì come un'ombra, partecipando ad assassinii e a scontri a fuoco. I due ebbero un figlio che un giorno, piangendo a squarciagola, rischiò di mettere sulle tracce dei genitori l'esercito inseguitore. Allora Bizzarro lo prese per un piede e lo scaraventò contro una roccia, uccidendolo. La Lucciardi non batté ciglio.
Poi aspettò che il compagno dormisse profondamente, e lo fece secco sparandogli alla tempia. Gli staccò la testa, la avvolse in un panno e la consegnò al comandante della piazza militare di Catanzaro, riscuotendo la ricca taglia che pendeva sul suo amante.
Belle e determinate. Filomena Pennacchio, Giuseppa Vitale e Giovanna Tito facevano parte della banda Crocco; Maria Lucia Nella era compagna di Giuseppe Nicola Somma, detto Ninco Nanco; Arcangela Cotugno era moglie di Rocco Chiricigno, detto Coppolone; Marianna Petulli era compagna di Paolo Serravalle. Aristocratica Anna Durante, di bellezza incomparabile Michela De Cesare, compagna del brigante Francesco Guerra, crudele Maria Oliverio, che aveva sposato l'ex volontario garibaldino Pietro Monaco, di Cosenza, divenuto latitante dopo aver ucciso un proprietario terriero di Scarrapedace. Maria dai Capelli Corvini accoltellò persino sua sorella, attirandola in casa con un espediente e pugnalandola perché sospettava che avesse avuto una fugace relazione col suo uomo. Fu accusata di atti di sadismo: torturava i militari catturati, poi ne mutilava i cadaveri. Quando fu arrestata, fu ripudiata dagli stessi parenti, secondo i quali aveva violato ogni codice d'onore. Non finì sulla forca. Venne condannata all'ergastolo.
Con orrore e sospetto dagli stessi compagni d'avventura fu vista Maria Capitanio, donna di Antonio Luongo della banda Scarapecchia, sgominata nel 1867. Quando gli Scarapecchia furono circondati dai governativi, gli uomini vennero trucidati sul posto. C'erano, tra loro, tre donne che vestivano abiti maschili. Solo dopo la loro resa i bersaglieri si accorsero del loro sesso.
Quasi sempre, le brigantesse si facevano arrestare quando erano incinte, per godere della clemenza delle corti. Non tutte, comunque, dimenticavano di coltivare la loro femminilità. Maria Suriani di Atessa inviava al brigante-fidanzato Domenico Valerio, meglio conosciuto con l'emblematico soprannome di "Capitan Cannone", messaggi d'amore ricamati sui fazzoletti. E un'altra romantica brigantessa lavorava a punto e croce per mesi l'immagine del suo innamorato con lo schioppo accanto, sullo sfondo di bucolici paesaggi agresti: quelli che li avevano visti nascere e crescere nel Regno dei Borbone, e che erano stati sconvolti dagli incendi, dalle fucilazioni e dalle rappresaglie degli uomini a cavallo del Regno dei Savoia.


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