L'ARTE NELLA TERRA CHE SALDO' LA PENISOLA




Tonino Caputo, Edoardo Landi, Carlo Orlandini
Coll.: Igino Trapassi, Primo Artese, Vanni Ravanà



Appena fuori Terracina, la via Appia - quella classica - devia ai piedi dei Monti Ausoni e raggiunge Fondi, importante centro romano sorto su un centro precedente, di cui restano mura ciclopiche. Patrimonio della Chiesa nel IX secolo, ceduta al Ducato di Gaeta, tornò alla Chiesa nel XIII secolo. Feudo dei Caetani e di altri, fu decimata dalla malaria e dal brigantaggio. Dell'età romana restano le mura, mentre sui resti di un tempio si costruì nell'XI secolo il Duomo. Il castello, con torri e mura merlate, fu realizzato nel 1319. Al XV-XVI secolo risale la gotica chiesa di S. Maria Assunta. Qui cominciano gli agrumeti che caratterizzano l'intero Sud e le Isole: tra il lago e le ultime pendici dei Monti Aurunci.
Proseguendo verso sud, superata la romana ltri, si giunge a Formia: città italica, poi luogo di villeggiatura del patriziato romano. Distrutta dai Saraceni nel IX secolo, fu sostituita da due villaggi, Castellone e Mola, poi riuniti nel 1862. Dell'età romana sopravvivono il teatro (oggi sormontato da un edificio privato) e la cosiddetta Tomba di Cicerone. Del castello dei Caetani resta la torre di S. Erasmo. Per volontà del principe di Caposele fu costruita (sulla "Villa di Cicerone") e poi acquistata da Ferdinando II di Borbone la Villa Rubino.
La vicina Gaeta potrebbe essere definita la città degli assedi, visto che già nell'VIII secolo i pirati tentarono di conquistarne il castello nel quale si erano rifugiati civili e religiosi; fu poi una vicenda ininterrotta, dagli Svevi agli Angiò, dagli Aragonesi ai Visconti. Nel 1440 Alfonso d'Aragona fece diventare "reggia" il castello, stabilì nella città una zecca, vi insediò la vice-capitale del Regno di Napoli, con don Alfonso De Cardenas. Vennero poi Carlo VIII, Federico d'Aragona, Consalvo di Cordoba, Andrea Doria, gli Austriaci, gli Spagnoli. Nel 1799, durante la brevissima Repubblica Partenopea, si arrese ai Francesi, ma tornò subito ai Borboni. Nel 1806 e nel 1815, dapprima combatté i Francesi e poi capitolò alle truppe napoletane-austriache. Ogni re aggiunse fortificazioni al castello. Quando i Mille finirono la loro campagna, Gaeta subì l'ultimo assedio, del 1860-61, che sancì la fine dei Borboni e la saldatura della penisola. Il castello, emblema della città, si compone di due costruzioni, la superiore o aragonese e l'inferiore o angioina.
Dirigendo a sud-est, c'è Minturno, di origine preromana (resti delle mura poligonali), poi romana, decaduta in età imperiale per la malaria. Distrutta dai Longobardi, nel 590 entrò a far parte, ricostruita, dei domini del Papa. Possesso prima dei Duchi di Gaeta e poi di altri, fu devastata dai Saraceni e dagli Ungari. Ultimi danneggiamenti, durante la seconda guerra mondiale. A cinque chilometri dall'odierna città, le rovine del centro antico: la cinta muraria preromana e romana, il teatro augusteo e il Foro. Una via caratteristica, il Supportico, percorre il borgo medioevale. Dell'XI secolo è la Cattedrale di S. Pietro, del XVII il Castello baronale che sorge al centro della città fortificata.
Oltre il Garigliano è Sessa Aurunca, capitale degli Aurunci ai piedi del vulcano spento di Roccamonfina, che conserva resti romani (teatro e criptoportico) e medioevali (castello con torre quadrata). Il Duomo romanico, del XII secolo, utilizza materiale di spoglio romano. Lungo una strada minore che si stacca dall'Appia è il Ponte romano degli Aurunci, uno dei più eleganti del periodo. Oltre ancora, Capua, piccolo gioiello, non fosse altro che per il Museo Campano, e per il Volturno che l'attraversa rendendola l'unica città campana bagnata da un fiume. Sorge sul luogo dell'antica Casilinum, porto fluviale della Capua etrusca. Amedeo Maiuri definì il suo museo "luogo ideale per il raccoglimento e per la meditazione": qui gli Italici sono più vicini a noi, loro epigoni, attraverso l'appartenenza alla dea Cerere, propiziatrice di fecondità. La maggiore testimonianza di cultura italica è data dalla sala delle "Matute", numerose statuette in tufo scoperte in aperta campagna, databili dal VI al I secolo a.C. Raffigurano l'idea di fecondità in Magna Grecia (ma assai prima dell'arrivo dei coloni greci) e nella Campania Felix: circa cento figure di madri sedute su una sorta di trono e, tra le braccia, uno, due, e fino a dodici neonati.
E se vogliamo scoprire un altro luogo eccezionale, percorriamo 25 chilometri fino a Cimitile, presso Nola, dov'è un complesso di basiliche paleocristiane, testimoni del passaggio tra la civiltà imperiale romana e il Medio Evo.
Santa Maria Capua Vetere, sul luogo della Capua etrusca, fu sannita e romana. Del I secolo è il grande anfiteatro, del II - III l'aula sotterranea del Mitreo. Il Duomo, già S. Maria Maggiore, conserva all'interno le colonne dell'originaria costruzione del V secolo. Di qui, la direttrice per Benevento, e poi per Brindisi. Ma, alle spalle della Capua etrusca, arroccata sullo schienale del Monte Tifata di cui ha parlato in questa rivista Gerolamo Garonna, sorge la basilica o proto-abbazia di S. Angelo in Formis, del 1073, ideata dall'abate di Cassino, Desiderio. L'impronta è arabeggiante, anche perché le maestranze venivano da Amalfi, dov'era già in atto questo tipo di arte (e di scambi col Vicino Oriente). Luogo sacro alla leggenda campana e alla storia religiosa pagana e cristiana, fu centro importante di Etruschi, Sanniti e Romani, vide passare Annibale, Silla, Augusto, Vespasiano, Pietro e Paolo, Prisco, i Longobardi, i Normanni, i Benedettini, i Borboni, i Garibaldini, i Piemontesi. Ebbe una quantità di nomi.
Fu, di volta in volta, Mons Tifata, Mons Dianae Tifatinae, Vicus Dianae e Pagus Dianae (dall'agglomerato di edifici sacri su cui sorge oggi l'abbazia, ma anche di edifici privati, terme e ville sorto intorno al tempio e ai piedi del monte); Ad formam Dianae (dai confini posti da Augusto per tutelare le proprietà della divinità, e poi ricomposti da. Vespasiano); In Formis (dagli acquedotti che dalle alture del Tifata portavano l'acqua all'antica e poi alla nuova Capua); Ad Arcum Dianae (dall'arco realizzato dai capuani in onore di Settimio Severo nel 196 d.C.); S. Angelo de Monte, S. Angelo ad formas, infine S. Angelo in formis: derivati, questi ultimi, dalla presenza della chiesa dedicata all'Arcangelo Michele.
L'interno della basilica ha quattordici colonne con capitelli corinzi, disposte su due file di sette per parte su cui poggiano otto arcate a tutto sesto, che dividono e insieme mettono in comunicazione tre navate culminanti in tre absidi. La navata centrale è più lunga, più alta e più ampia. Per terra, una zona a mosaico a tasselli irregolari. Davanti alle absidi, vasti tratti di cosmatesco, sistemato qui alla fine del secolo scorso, proveniente dalla chiesa di S. Benedetto, in Capua. La basilica sarebbe caduta nell'anonimato, se nove secoli fa non fosse stata arricchita su tutte le pareti interne di un ciclo di affreschi dal quali irradia lo splendore dell'arte bizantino-campano-cassinese. Gli affreschi si sviluppavano secondo un preciso programma, coerente, sintetico, cristologico, e coprivano tutte le pareti: su quelle laterali con episodi del Vecchio Testamento, disposti su due registri sovrapposti, suddivisi in riquadri distinti da alberi flessuosi; e quelle centrali con episodi del Nuovo Testamento (miracoli, parabole, passione e resurrezione di Gesù) disposti su tre registri sovrapposti e suddivisi in riquadri distinti da colonnine di varia forma. Una didascalia in esametri ne illustra in sintesi i significati. Si discute sui maestri.
Ma esterni o campani che siano stati, il cielo di Sant'Angelo in Formis può presentarsi come il punto di partenza della pittura romanica nel Mezzogiorno, pur conservando due caratteristiche del bizantinismo tradizionale: la non compenetrazione dei soggetti nella stessa scena e la non profondità della prospettiva.
Il confine tra il Lazio e la Campania ha sempre fluttuato, durante la storia, fino ad epoca recentissima. I due territori costituiscono infatti un'unità entro la quale è difficile segnare limiti precisi: il che venne riconosciuto nella sistemazione augustea, che le inserì nella prima regione. Non è agevole, dunque, indicare l'area del "Latium adiectum", che varia notevolmente a seconda degli autori e delle epoche. Ovviamente, si definisce oggi "Latium vetus" soltanto la regione che si estende fino ai Colli Albani, ma gli autori antichi danno indicazioni del tutto diverse: Plinio, ad esempio, prolunga il Lazio antico fino al Circeo, cioè fin dove era giunta la più antica colonizzazione latina, il cui limite ci è confermato dal primo trattato romano-cartaginese del 509 a.C. Quanto al "Latium adiectum", esso si estenderebbe da Terracina al Liri, l'odierno Garigliano; ma per altri autori, addirittura fino a Sinuessa o al Volturno. Ciò riflette probabilmente la situazione preromana, quando un'area etnica ben delimitata, quella degli Aurunci, includeva territori situati sui due lati del Liri, e quindi teoricamente nel Lazio e nella Campania. A partire dalla fine del III secolo d.C., il governatore della Prima Regione cominciò a chiamarsi "Consularis Campaniae", e quindi poco alla volta tutto il Lazio venne incluso sotto l'etichetta di "Campania".
In età storicamente accertabile, le città costiere comprese tra Terracina e Minturno appartengono a due zone etnicamente distinte: quella settentrionale, con Fondi e Formia, occupata dal Volsci; e quella meridionale abitata dagli Aurunci. Plinio inserisce tra le due popolazioni gli Osci, ma questa notizia non ècontrollabile, e del resto Strabone pensa che questi occupassero la regione in una fase più antica. Non è escluso che gli stessi Aurunci abitassero in origine l'intera area a sud di Terracina.
Altre tradizioni insistono sulla presenza di colonie greche nell'area: presso Terracina sarebbe stata la città di Amyclae, fondata da Spartani, abbandonata dopo una misteriosa invasione di serpenti, mentre Sinuessa avrebbe occupato il sito di un'altra polis greca, Sinope. Le notizie su Amyclae debbono avere un qualche fondamento di verità, se il Golfo di Gaeta conservò sempre, in età antica, il nome di "Sinus Amyclanus". Si potrebbe pensare a un qualche emporio o fondaco pre-coloniale, situato tra Terracina e Sperlonga.
Non sappiamo praticamente nulla della protostoria di questa regione.
Un'indicazione importante sulla cultura degli Aurunci prima della conquista romana, a partire dall'VIII secolo a.C., ci è fornita dal materiale più antico scoperto nel Santuario di Marica, presso Minturno: la ceramica e le figurine fittili votive si apparentano al materiale delle stipe di Cassino.
L'estremo Lazio meridionale entra nel raggio dell'espansione romana dopo la fine della guerra Latina. Nel 334 a.C. è data a Fondi e a Formia la cittadinanza senza diritto di voto, piuttosto un'annessione unilaterale allo Stato romano che un privilegio. La ragione del provvedimento è spiegata da Livio: si trattava di rendere sicuro il transito verso la Campania, tra l'altro alle legioni romane, che di lì a poco sarebbero state impegnate contro i Sanniti. Contestualmente, dovettero essere sottomessi anche gli Aurunci, come dimostra la fondazione della colonia di Cales, al limite del loro territorio. La sollevazione dei Volsci, guidati da Vitruvius Vaccus, nel 330, mostra che costoro non si erano ingannati sul dubbio onore concesso. La loro sconfitta sarà subito seguita dalla deduzione della colonia di Terracina (329 a.C.). Gli Aurunci, ribellatisi nel 314, saranno spietatamente sterminati, e i loro centri di Minturnae, Vescia e Aurunca rasi al suolo. Le colonie di Suessa, Minturnae e Sinuessa, fondate nel loro territorio nel 313 e nel 296, colmeranno il vuoto che si era formato. La via Appia, costruita subito dopo, correrà in territorio tutto romano. La creazione di, una nuova tribù, la "Teretina", (forse dal nome del Trerus, il Liri), nel 299, conferma l'importanza del popolamento romano nell'arca. Nel 188 Fondi e Formia otterranno la cittadinanza di pieno diritto.
E' una zona che conosce un notevole sviluppo economico nel corso del II secolo a.C., dovuto fra l'altro alla notevole produzione vinaria, organizzata in aziende schiavili di medie dimensioni, il prodotto delle quali era facilmente esportabile per la vicinanza del mare. Ciò spiega il grande sviluppo di porti come Terracina e Minturno, dai quali partivano navi di grande tonnellaggio, dirette soprattutto verso il Mediterraneo nord-occidentale. Nasce all'epoca la fama di vini come il "Cecubo" e il "Fundano", che fanno concorrenza al "Falerno" della Campania settentrionale. Lo sviluppo dei traffici e delle corporazioni mercantili e artigianali è dimostrato, fra l'altro, dalle numerose iscrizioni di "magistri" (dirigenti, appunto, di corporazioni) scoperte a Minturno e databili in età repubblicana. La presenza nella zona di numerose ville, appartenenti all'aristocrazia romana e a quella locale, attesta sia l'arricchimento delle classi dirigenti locali sia le occasioni di fruttuosi rapporti che queste intrecciano col potere politico dell'Urbs, nel reciproco interesse. Un altro aspetto di questa rilevanza economica è dato dall'intensa attività edilizia pubblica che si nota nei centri principali nel corso della seconda metà del II secolo a.C. Un'ampia emigrazione dalle zone dell'interno verso la costa dovette allora verificarsi, come sembrano confermare i dati dell'onomastica.


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