Quando,
nel primo scorcio degli anni Sessanta, il neorealismo dell'immediato
dopoguerra era al suo epilogo e nuove tendenze letterarie si affermavano
con controversa fortuna, da "I novissimi" in poesia al "Gruppo
'63" nella narrativa, Nino Palumbo (1921-1983) poteva contare già
su una consistente attività di scrittore, impegnata al di fuori
di etichette e consorterie dominanti. Il suo era, e sarebbe a lungo
rimasto, per usare un termine classico, realismo intenzionalmente critico,
che gli consentirà poi, nell'approfondimento delle sue ragioni,
di andare oltre il realismo: ragioni conoscitive in prevalenza, che
tuttavia non rifuggiranno da approcci di tipo sperimentale. Insomma
l'arco della sua opera iscrive Palumbo "nel realismo oltre il realismo",
secondo la formula cui si è giunti in un convegno a molte voci
a lui dedicato: da Impiegato d'imposte (1957) a Il giornale (1958),
da Pane verde (1961) a Le giornate lunghe (1962), dai folti mannelli
di racconti, pubblicati poi col titolo Oggi è sabato e domani
è domenica (1964) e Giocare di coda (1967), a Il serpente malioso
(1977) e Domanda marginale (1982) (1).
Intanto il dibattito sulla narrativa si allargava e coinvolgeva riviste
come "Nuovi argomenti", "Nuova corrente", "Il
menabò", "Il Verri", quali più quali meno
orientate a promuovere proposte radicali di rinnovamento, non senza
settarie impuntature iconoclaste nei confronti delle esperienze più
recenti.
In difesa di queste ultime, con ovvio impianto storicizzante, si muovevano
le napoletane "Ragioni narrative" e le liguri "Prove
di letteratura e arte", varate da Palumbo nel 1960 e che hanno
resistito sino al 1981 (2). In un editoriale del quarto anno di vita
della rivista, il suo fondatore ne ribadiva con forza il programma:
dissedare, "badando esclusivamente alle ragioni più profonde,
morali e storiche, della narrativa e della poesia. Un'apertura critica
[ ... ] che permette di rimanere lontani da dogmatismi e schematismi".
Uno sperimentalismo, insomma, diverso, sia da altri coevi, cifrati da
ostentata spericolatezza, sia da quello, pur temperato, della bolognese
"Officina", col quale ha peraltro in comune il ridimensionamento
del "novecentismo".
Le simpatie palumbiane puntano ex abrupto alla grande narrativa dell'Ottocento
francese e russo sino ai nostri Verga e Svevo: "Noi crediamo ancora
al romanzo che tenga conto della realtà in cui viviamo, della
società in cui viviamo, ed in esso deve confluire ogni conquista
culturale (che fra l'altro) comporta un impegno inteso come diritto
e dovere di partecipazione alla formazione di una coscienza dell'uomo
nel proprio tempo" (3).
Preliminarmente giova ancora un altro documento teorico dello scrittore
sul rapporto tra "memoria", come autobiografia e come memoria
storica, e tra questa e sofferenza umana nel tempo. La realtà,
allora, cioè la vita, va "narrata" non "descritta",
con evidente suggestione lukacsiana; e narrare significa "essere
nella giusta posizione" di un problema, piuttosto che "nella
giusta soluzione di esso"; Palumbo, come può, guarda a Tolstoj,
non a Zola (4). Né va trascurata, nell'approccio critico al nostro
autore appulo-ligure, l'attenzione alla sua radice meridionale, che,
dove più dove meno, giuoca un ruolo non marginale nelle sue finzioni
e affabulazioni: "Lo scrittore del Sud, l'uomo di cultura del Sud
- insiste a dire in più occasioni - ha una responsabilità
maggiore, ha un compito più difficile e più profondo"
(5). L'esperienza della realtà settentrionale acuisce in Palumbo
la consapevolezza dell'alterità meridionale, elemento in più
della sua ragione narrativa; nella società del benessere scopre
a un tempo, verghianamente, "un'atmosfera di Banche e di Imprese
industriali" e la insensibilità al diffuso guasto morale
che ne scaturisce. Impiegato d'imposte ne è il documento letterario,
come dell'alterità meridionale è documento Pane verde:
due mondi sociali e antropologici che Palumbo sperimenta, per dir così,
sulla sua pelle. Con una laurea della Bocconi in tasca - laurea sudatissima
per gli indicibili sacrifici che ha comportato - il consulente commerciale
Nino Palumbo si muove professionalmente in quell'atmosfera, e tra la
sequela dei compromessi con la propria coscienza di uomo e la prospettiva
di un avvenire economicamente incerto da letterato puro, Palumbo non
esita a scegliere la passione "insensata" della scrittura;
scelta che definisce una vocazione nativa e che, a lungo andare, non
rimarrà indolore. Scrive a riguardo Gioanola: "Chi preferisce
la dignitosa povertà dello scrittore, che sta fuori dei crocevia
del successo, alla sicura agiatezza è uno che non sa trovare
altro spazio di salvezza al di fuori della scrittura" (6). E' giusto
dunque ripetere di Palumbo quel che Tozzi, tra i suoi scrittori prediletti,
disse di sé: "Ma la mia anima che con me è molto
buona mi aiutò; io dovevo ritrovare lungo i giorni del mio passato,
che non avevo mai buttato via, molte cose" (7).
Contrariamente a chi ritiene d'intravedere nella Weltanschauung palumbiana
dissimulate venature di ottimismo, va subito sottolineato che il fulcro
della sua ispirazione, ne sia oggetto la realtà del Nord o quella
del Sud, poggia sulla dirompenza degli effetti che la ferrea legge economica
produce nell'esistenza e nella coscienza degli uomini, non di rado facendo
strame dei sentimenti. Lo si rileva, per citare subito qualche testo,
dal racconto "La pietra al posto del cuore" (8). Inerisce
naturalmente nella ferrea legge economica della ideologia palumbiana
il paradigma del destino, a un passo dalla nozione antica della "fatalità"
della "necessità" che annulla ogni slancio di rivolta
liberatrice. Altro racconto fortemente significativo è "La
macina", in cui la metafora gogoliana, che lo scrittore appone
a sua epigrafe, sintetizza i casi al limite dell'inverosimile del protagonista:
"Il mondo è come un vortice: vi si agitano eternamente opinioni
e giudizi, ma il tempo macina tutto" (9). L'umanità dei
personaggi, che dalle zone più segrete dei sentimenti si riversa
nelle situazioni, umanità elementare dai risvolti quasi preistorici,
è diluita nella narrazione con aderenza simpatetica, che però
sottende un preciso pronunciamento di denuncia, pur nella mescolanza,
appunto gogoliana, di ironia dolorosa e di esilarante grottesco. Così,
un pover uomo, nel ripiegarsi a riflettere sulla propria figura, sbertucciata
dalla fatica di fabbricante di scarpe e sgraziatamente ingobbita, conclude:
"Il bischetto, il punteruolo, la lesina, le forme, le tomaie, il
mio regno così mi avevano conciato. Il tempo macinò anche
me, perché il destino si compisse".
Ma la incauta opzione letteraria non tardò, negli esordi di scrittore,
a gratificarlo; con la raccoltina di testi narrativi L'intoppo, che
ottenne il premio "Libera stampa" di Lugano del 1955, con
una motivazione firmata, fra gli altri, da Carlo Bo, Aldo Borlenghi,
Giansiro Ferrata, Gianfranco Contini: "Scrittore preoccupato di
scavare in profondità in una materia tutta umana e di una singolare
intensità psicologica", i cui racconti sono "punteggiati
di allusioni autobiografiche, ma di una autobiografia mitizzata, [per
cui] l'uomo si può riconoscere non deformato tendenzialmente,
ma accresciuto nella sua stessa esperienza". Le tracce insomma
della giovanile acerbità stilistica si attenuano nella pienezza
dei contenuti, polarizzati nel risalto che vi assumono i personaggi.
Sicché il Tranifilo di Impiegato d'imposte come il Chessa de
Il giornale e lo Zenato de Le giornate lunghe sdipanano in più
ampie proiezioni narrative le linee germinali della psicologia di Ugo,
protagonista de L'intoppo; e la metafora dell'intoppo, nel significato
più pregnante, non è che lo "scacco", l'agguato
che si cela nel fondo oscuro del nostro essere nel tempo e nel reticolo
sociale (10).
E' concorde la critica nel riconoscere come preminente l'attenzione
dello scrittore per la condizione degli strati sociali subalterni, condividendone
il punto di vista, gl'impulsi repressi di ribellione e l'accasciarsi
nella rassegnazione fatalistica, in una gradazione di striature stilistiche
che conferiscono alla pagina vivacità mimetica. Il "vero"
cui tende il narratore è il sommesso rimenio dei frammenti dell'Erlebnis
di ognuno dei suoi personaggi, di una quotidianità tanto più
emblematica quanto più frusta. Con qualche variante ideologica
e linguistica, si può pensare per analogia a Carlo Cassola, per
il quale, come per Palumbo, non è il dato eccezionale ma la casualità
a significare l'interrogativo dell'esistenza. Tra le letture della prima
formazione di Palumbo non mancano gli espressionisti tedeschi e gli
esistenzialisti come Kierkegaard e Camus, di cui stralci ama corredare
in esergo le sue opere o parti di esse.
Un "verismo
minore ": dal Sud al Nord
La lezione del Verga è un fatto scontato per gli scrittori
meridionali o meridionalizzati; più che sul terreno dello stile,
troppo impervio e inimitabile, sull'altro, piuttosto scivoloso, della
materia in sé, una specie di categoria dell'anima, dalla pertinace
presenza larvale; sicché, per quanti si identificano con essa
in un processo istintivamente osmotico, incombe il rischio di un inesorabile
svilimento della propria, pur modesta, identità letteraria.
Lo sforzo mal riuscito dell'artificio della regressione o dell'uso
dell'erlebte Rede tradisce una subalternità piattamente scolastica
e insieme compromette il carattere conoscitivo dell'arte veristica.
Palumbo riesce a sfuggire al detto rischio, sia in virtù di
una genuina mediazione pietistica, direi affettiva, tra la materia
e il proprio io investigatore, sia per effetto di una prospettiva
ideologica, che lo induce ad appropriarsi del "punto di vista"
degli umili, dei diseredati, in un rapporto diretto, esperienziale.
La materia meridionale della raccolta Oggi è sabato e domani
è domenica, che lo scrittore scava e circuisce, pensoso e dolente,
riporta sulle pagine narrative gente della sua terra d'origine, a
volte con immediatezza ingenuamente mitizzante e, comunque, sempre
aliena da qualsivoglia intenzione parenetica. Ecco il bracciante,
che inveisce contro il badile riottoso che lo fa penare, e vi decifra,
a modo suo, i segni di un destino avverso; o il giovane, che il bisogno
del lavoro sbatte fra le montagne e che impreca contro la sorte che
lo ha divelto, innaturalmente, dal suo mare, dal suo habitat; o la
giovane, sposa e madre, attaccata allo scoglio del suo "piccolo
mondo", e che nel silenzio dei giorni sgrana il suo rosario di
patimenti; o la mater dolorosa, rustica Niobe, che rimemora nell'oltretomba
l'atavica catena di "odi", che, per ancestrale, belluino
egoismo, fa strazio degli affetti familiari; o il miserabile gabelliere,
cui a nulla è valsa la sua intensa devozione al simulacro di
San Rocco, messo e rimesso a nuovo, per garantirsi il sicuro possesso
di un loculo al cimitero del paese. Son tutte figure, o lucidi schizzi
di esse, che risalgono da un universo sottoproletario, non quali fantasmi
di un mondo defunto ma quali archetipi di una condizione etno-antropologica
in cerca d'autore. Anime morte che ripercorrono il loro passato di
vivi, per estrarne tragici o grotteschi bilanci; letterariamente,
sul modello non improbabile dell'Antologia di Spoon River di E. Lee
Masters (11).
La struttura narrativa d'impianto decisamente tradizionale di Impiegato
d'imposte parve una incauta sfida ai novatori oltranzisti; eppure,
a giudizio pressoché unanime di quei settori della critica
che ricusavano le pregiudiziali antirealistiche, si trattava di uno
dei più incisivi romanzi del dopoguerra. Anche per la ammiccante
sintonia col rampantismo economico affaristico del decollo neoindustriale;
in linea con i due racconti calviniani, anch'essi in media res, La
speculazione edilizia, e La nuvola di smog, pur se l'indagine di Palumbo
si muove anche in una "dimensione interiore (12). Il dramma del
protagonista è letterariamente giocato su due versanti: il
rapporto con il suo ambiente di lavoro e ne soccombe, vittima onesta,
e il rapporto con il proprio nucleo familiare, che lo incupisce sino
alla estenuazione, in un incolpevole rimorso. Sull'ennesimo travet
della società opulenta e corrotta pesa, al tempo stesso, l'incubo
della miseria che devasterebbe la sua famiglia, e il compromesso della
capitolazione morale della propria coscienza. Un "essere o non
essere", una situazione dilemmatica brutalmente calata nell'urto
con un mondo vorace che inghiotte i più deboli, i più
disarmati. Dimensione interiore e condizionamento sociale connotano
il verismo minore di Palumbo, il cui personaggio prototipo di volta
in volta si muove nel suo ambiente di lavoro, tra figure che ne rappresentano
il sottofondo vischioso, e nel milieu domestico, tra presenze che
emblematizzano il bisogno ansioso della purezza e dell'innocenza.
Come è noto, di poveri travet è ricca la nostra letteratura
di fine Ottocento, quando in Italia è in atto, tardivamente
e scompostamente, il disfrenarsi di ambizioni egemoniche di classe,
che da un lato comporta la prima organizzazione capitalistica del
lavoro e dall'altro il processo di proletarizzazione della piccola
borghesia impiegatizia. Che è fenomeno che torna a verificarsi,
su più vasta scala, con la restaurazione neocapitalistica del
secondo dopoguerra. Il momento storico che fa da sfondo al romanzo
di Palumbo è precisamente questo (13).
Nella Milano del "miracolo economico", Silio Tranifilo,
da integerrimo subalterno in un ufficio d'imposte, si arrende al ricatto
del bisogno, "persuasore orribile di mali"; ricatto abilmente
manovrato dalle due figure antagoniste, il commendatore Terrini e
l'avvocato Benedetti, umbrae perverse e pervertitrici del Potere.
Gli estremi del dramma di Tranifilo, e in genere di una coscienza
intatta, si ricapitolano nel "grosso capitalista, che gioca dietro
le quinte e che dall'imbroglio dovrà trarre il massimo vantaggio;
il professionista appaltatore dell'imbroglio, che rischia appena un
poco ma si ritaglia una discreta fetta di profitto; l'impiegato a
bassissimo stipendio che entra con tutta la riluttanza nel giro assumendone
i massimi rischi con le briciole del guadagno" (14). Ma la ragione
sociale non si dissocia mai dalla ragione etica nella ideologia di
Palumbo, con la ferma utopistica persuasione che misura di giudizio
dei comportamenti pubblici non può non essere la valenza morale.
Che è la convinzione ingenua di chi subisce la storia, senza
alternative, cioè dei ceti marginali, che nel nostro scrittore
hanno trovato la loro voce.
La deontologia dell'avvocato Benedetti non esclude affatto la liceità
della connivenza degli statuti professionali con le circostanze compromissorie.
Tranifilo crollerà. Palumbo trascende l'episodio, per centrare
il cuore del sistema dei rapporti umani prima ancora che sociali.
Né v'è alcuna inclinazione al patetico nella rappresentazione
del "nido" del pover uomo: la bufera non ha intaccato l'assolutezza
degli affetti nella "sciagura" che ha travolto Tranifilo.
Esiste, può esistere anche una forte capacità di resistenza
a fronte degli ingranaggi posti in essere da una società costitutivamente
iniqua. Paradossalmente, è la pietas inerme (il pensiero di
Tranifilo è fisso a quella corsia d'ospedale del figlio Luigi,
bisognoso di medicine) a segnare la rivalsa di Tranifilo presso se
stesso e la propria coscienza; quella pietas che le istituzioni non
hanno saputo riconoscere e difendere. La capitolazione di fronte alla
"legge" resta per lo scrittore e per il lettore un pur tragico
evento esterno; ma esiste anche una legge non scritta, incisa nell'interiorità
più profonda: la legge non scritta dell'Antigone del mito antico:
"Una pugnalata al cuore e il sorriso sulle labbra del suo corruttore,
ma [Tranifilo] avrebbe detto di sé: tanto sporcarsi non era
un delitto come far morire di fame i propri figli". Assai acuto
e pertinente ci sembra il giudizio di un lettore russo, che così
conclude la sua analisi: "Nel romanzo il reato viene commesso,
come sembra, da Tranifilo. Ma proprio in questo consiste il tragico
paradosso: il più grave delitto della società nei confronti
dell'Uomo consiste nel fatto che l'uomo si vede obbligato a commettere
un delitto. La società deruba Tranifilo obbligandolo a rubare,
facendo di questo onesto ma umile uomo un concussionario.
La società rubò a Tranifilo quello che di più
prezioso gli era rimasto: la sua dignità di UOMO" (15).
Il direttore con sordida ipocrisia invita Tranifilo a firmare le dimissioni
e, al suo eventuale rifiuto, minaccia che avrebbe dovuto passare "la
pratica all'autorità giudiziaria". Nihil sub sole novi:
il derubato della propria dignità di umile funzionario "onesto"
sarebbe "finito dentro" e i "ladri sarebbero stati
sempre fuori".
Insania come
veggenza
In occasione della ristampa de Il giornale, nel 1975, Lanfranco Caretti
si è richiamato al "verismo minore" di un Cagna,
un Faldella, un Bersezio, nel quale Palumbo innesta "qualche
tratto di più illustri umiliati e offesi: i gogoliani Akakij
Akakievic del Cappotto e Popriescsin del Diario di un pazzo, oppure
il Myskin dell'Idiota di Dostoevskij"; e nelle probabili dirette
ascendenze, l'autorevole critico vede nel Chessa, protagonista del
romanzo palumbiano, parentele, pur se lontane, con "certi personaggi
del moderno teatro dell'assurdo: da Pirandello a Beckett" (16).
Il che pare al Caretti "non solo un modo di procedere oltre l'ottimismo
populista, ma anche un interessante esperimento per porre in termini
critici e disillusi il distruttivo rapporto tra l'individuo e la società,
tra le ragioni private e le spietate istituzioni neocapitaliste"
(17). Era ormai avviata una nuova stagione letteraria, "acremente
protestataria", per cui si dava vita a personaggi stravaganti,
eccentrici: dai pasoliniani "ragazzi di vita" al "calzolaio
di Vigevano" di Mastronardi, al Marcovaldo di Calvino e al Saluggia
di Volponi. E provocatoriamente il romanzo di Palumbo si apre nel
nome di Gogol: "Ma essere fratelli d'anima e non di sangue, è
proprio soltanto dell'uomo". Vi si rappresenta, alternando mimesi
e diegesi, un altro caso di conflitto tra l'individuo e la società,
tra le ragioni di un io, che naturalmente aspira alla piena realizzazione
di sé come essere libero, e le strutture burocratiche e comportamentali
di una istituzione pubblica, sempre più incombente sui condizionamenti
sociali, qual è la Banca.
Domenico Chessa, un archivista, non riesce a comunicare nel suo ambiente
di lavoro, né ottiene i riconoscimenti che pure gli spetterebbero
per la sua professionalità. E' un ambiente cifrato e ottuso,
senza alito alcuno di una "cultura" che vivifichi spiritualmente
le relazioni umane all'interno di esso.
La lettura del giornale schiude orizzonti sterminati di conoscenza
e perciò diventa insostituibile strumento di "comunicazione"
informativa e di "comunione" ideale tra esseri pensanti.
E' a questa istanza embrionalmente etico-politica che l'archivista
Chessa non sa rinunciare, in qualche modo con l'atteggiamento maniacale
dei flaubertiani Bouvard e Pecuchet. L'abitudine della lettura dei
quotidiani è iniziata all'età di venticinque anni e
da allora èdiventata fonte di arricchimento culturale, a volte
indigesto, e di progressiva sensibilizzazione sociale, con punte anarcoidi.
Ma l'insidia che si annida in ogni tipo di lavoro ripetitivo è
il virus dell'alienazione; e ossessivamente ripetitivo è quell'accumulare
e schedare carte e cartigli bancari, giorno dopo giorno, cui Chessa
cerca di sfuggire intensificando l'abitudine della lettura dei giornali.
In effetti si rivela non meno funesta e alienante anche questa, la
lettura dei giornali, che, a lungo andare, perpetra nella psicologia
già labile del pover uomo una fatale distorsione: l'archivio
della sua banca conta per lui assai meno dell'archivio della "memoria
storica", conservata dalle pile ammonticchiate dei fogli quotidiani,
ad posteros. Il tragico grottesco gogoliano scatta a questo punto:
Chessa viene licenziato in tronco per scarso rendimento, non senza
suo stupore. Egli ormai si sente come investito di una missione; il
suo ruolo va ben oltre la frivola quotidianità della routine
impiegatizia. Ormai si scontrano due linguaggi e due Weltanschauungen:per
l'archivista Chessa, un istituto di credito non è che "parte
di un tutto", per il direttore della Banca è invece simbolo
sovrano della totalità del reale, economico, politico e sociale;
cioè di un Potere, come acutamente puntualizza Barberi Squarotti,
"che opprime non perché sia particolarmente malvagio e
crudele, ma per il fatto stesso di esistere e di operare al di fuori
di ogni passione, di ogni preoccupazione umana, anzi addirittura al
di fuori di ogni contatto con gli uomini, considerati non più
che semplici oggetti utili finché danno un contributo al buon
funzionamento della struttura, poi da buttare via, quando siano diventati
inservibili e di peso" (18). Siamo a un passo dal Leviatano biblico-hobbesiano,
e magari dal "rinoceronte" di Ionesco o dal magma eruttivo
di Beckett. Resiste però, nella mente sconvolta di Chessa,
un singolare trasporto verso "il prossimo", una umbratile
volontà laicamente missionaria, che assume via via più
netti contorni, di disponibilità al confronto sul terreno più
alto dei valori dello spirito, della fratellanza, per restituire agli
atti umani la funzione loro propria, di considerare il nostro simile
"fine" e non "mezzo". Non è che "il
cerino della ragione" a non essersi mai spento nella coscienza
di Chessa, la cui "mania leggitoria", nella carica lacerante
che le è sottesa, riflette l'esigenza di una tensione tragico-eroica,
sotto la rude scorza del grottesco. La vicenda del romanzo palumbiano
riporta alla fine degli anni Trenta, e di quel preciso scorcio storico-politico
ci offre l'immagine rovesciata. Il conformismo e la supina acquiescenza
di massa allignano nel vuoto delle idee e nell'assenza del giudizio
critico su eventi e personaggi pubblici. E' questo il messaggio implicito
nelle stravaganze pirandelliane di Chessa, il cui possesso della "memoria
storica", garantitagli dalla lettura ininterrotta dei quotidiani,
non soltanto lo risarcisce dalla emarginazione ma anzi rafforza in
lui il sentimento della solidarietà con quanti vivono "ai
margini della vita".
L'archivista licenziato affida ad essi, "fratelli d'anima e non
di sangue", il verbo della fiducia. Il coatto "suicidio
civile" dell'io ufficiale di Chessa val bene l'incontro con una
"umanità altra". Barbone tra barboni - siamo nel
1940 - egli rimugina tra sé e sé: "Com'era strano
quello che stava per succedere! I capi, i responsabili, s'erano andati
preparando, e i giornali piano piano avevano creato l'atmosfera. Tutti
la volevano la guerra, stando a quello che i giornali riportavano,
tutti la invocavano. Come poteva essere! L'uomo non poteva volere
la distruzione, la fine di un altro uomo!... Qualunque sarebbe stato
l'esito, la guerra era la distruzione di masse, come l'odio dell'uomo
era la distruzione del suo simile". La eccentricità dell'archivista
licenziato e diventato barbone non è che la maschera dolorosa
di un'utopia dura a morire.
Tra memoria
ed elegia
I ricordi più incisivi della propria vita, e specialmente quelli
della prima età, si sedimentano nello scrigno della memoria
come reliquie, cui di tanto in tanto si ritorna col pensiero, quasi
a ricavarne grani di saggezza, lezioni di esperienza, risorse di fiducia,
messaggi di speranza, contro agguati o assalti che il tempo ulteriore
riserva subdolamente. La frase tolstojana, messa a guardia del romanzo
Pane verde, ne racchiude tutta intera la "verità":
"L'uomo può essere convinto soltanto dalla vita e non
dalle idee astratte, e soprattutto dalla sventura". Qui il nostro
scrittore accinge a piene mani da quello scrigno, conferendo alle
proprie vicissitudini esistenziali i caratteri della paradigmaticità
di una condizione tipica degli strati socialmente più umili
del Mezzogiorno tra le due guerre. Col necessario distacco che la
fiction letteraria comporta e che, negli scorci narrativi più
felici, preserva l'autore dalla degenerazione nel patetico o dall'indulgere
a vezzi populistici, non sconosciuti alla memorialistica degli anni
Cinquanta. Avrebbero indotto, a entrambi i rischi, talune figure umane
intensamente simboliche, dal nonno Paolo all'Amitrano e alla moglie
Assunta, con la covata dei suoi sette figli, tutte calate nell'epos
di un dolore antico; archetipi suggestivi, che però Palumbo
innesta organicamente nella temperie storica del tempo (la guerra
d'Etiopia, la guerra di Spagna, le avvisaglie del secondo conflitto).
"Ciò di cui si parla in Pane verde è terribilmente
semplice e terribilmente vero", osserva a ragione il Manacorda
(19); sicché, pur nella scontata diversità temperamentale
e ideologica dei rispettivi autori, la Puglia di Palumbo si allinea
sul versante della Calabria di Alvaro, della Sicilia di Vittorini,
della Lucania di Carlo Levi; testi riconducibili alla stessa tensione
culturale di un meridionalismo critico. Le traversie della famiglia
di Elia Amitrano, un tappezziere che da Trani emigra nel capoluogo
pugliese e poi, in preda alla disperazione, nella Milano tentacolare
della fine del decennio, inseguendo il miraggio di un lavoro non precario,
sono insieme oggetto del racconto e specola di giudizio, e ne derivano
non freddi "documenti umani", zolianamente, ma piuttosto
un lukacsiano "rispecchiamento", della situazione "tipica"
dell'epoca, che, nel Mezzogiorno, vede una divaricazione incolmabile
tra ricchi e poveri, i primi avvezzi a prevaricare e i secondi a soggiacere.
La duplice chiave di lettura, di "romanzo di formazione",
per l'inquieto adolescente Marco, l'alter ego dell'autore, e, in qualche
modo, di "romanzo storico", per gli affioranti fondali della
retorica nazionalistica, rivela una ambiziosa complessità d'intreccio,
psicologico e sociologico, che, nelle intenzioni di Palumbo, avrebbe
dovuto svilupparsi in una trilogia (secondo quanto si apprende dalla
nota di chiusura dell'edizione Parenti, del 1961).
L'elementare filosofia del tappezziere, "testa calda", lo
premunisce contro il conformismo di massa dell'epoca e, a suo modo,
l'Amitrano passa per un sovversivo, che è anche la ragione
non ultima della mancanza di clienti facoltosi, ma al tempo stesso
gli riserva, al momento giusto, sufficienti energie ideali per rivendicare
l'altrui riconoscimento dei suoi diritti. Elia non contrasta né
condivide la cieca fiducia della moglie nella "Misericordia di
Dio", che è per la povera donna la "favola ricorrente"
per tenere a bada la insofferenza e la pena della innocente nidiata;
per lui, piuttosto, vale la logica e la morale del lavoro onesto:
"La volontà di lavorare è ciò che conta!",
ripete a sé e agli altri, come una sfida. Di rara efficacia
sono le pagine che descrivono la "visita a don Farina" di
Amitrano, che attende da oltre un anno la "giusta mercede".
Dignità umana e sentimento di giustizia esplodono dalle parole
del tappezziere, nel tempestoso colloquio col barone, nel suo fastoso
palazzo. Sull'uscio, in procinto di tirare la maniglia del campanello,
"lo presero una nausea e un'umiliazione mai provate, mentre nel
silenzio più assoluto passavano i secondi. Un'umiliazione per
quel se stesso lì in piedi dietro la porta, e una nausea, un
senso di disgusto, per coloro che abitavano oltre quella porta massiccia,
scura". A riguardo Sebastiano Martelli ha accostato questo episodio,
che è centrale nell'economia del romanzo, alla decisione di
Padre Cristoforo di recarsi a sfidare, nel covo delle sue ribalderie,
don Rodrigo (20). A noi sembra, peraltro, che nel diseredato artigiano
pugliese c'è qualcosa di più: una intraprendenza solitaria,
alimentata da una lunga memoria di torti subiti, recenti e remoti.
La società - brontola tra sé Amitrano - "nel nome
di principi politici o di dogmi religiosi, crea il vuoto intorno a
coloro che non vogliono sottostare ai principi che reggono tale società".
Le idee "sovversive" che frullano nel capo del tappezziere,
ancor più risentite in occasione di una parata del regime nel
capoluogo pugliese, racchiudono una embrionale valutazione politica,
culturalmente sguarnita ma ispirata al buon senso, sul distorto processo
della storia nazionale. L'inguaribile arretratezza delle plaghe meridionali
costringeva all'emigrazione e allo sradicamento; o che si puntasse
sul presunto eldorado del Nord o che si finisse carne da cannone in
terre d'oltre mare.
L'iter formativo di Marco, l'adolescente che potrà finalmente,
nel capoluogo lombardo, riprendere avventurosamente i suoi studi,
procede lungo i sentieri accidentati della famiglia paterna, non senza
assimilare, nel chiuso del proprio animo umiliato e offeso, l'acre
filosofia del padre, oltre che del nonno, rientrato dall'emigrazione
oltre Oceano, carico di esperienza ma non di peculio (21).
La svolta degli
Anni Sessanta
Il meno improbabile motivo della brusca interruzione della "trilogia"
risiede nel graduale offuscamento dell'ottimismo postresistenziale,
oltre che nell'accentuarsi della "modernità squilibrata"
delle regioni meridionali, ancor più dolorosamente percepita
sogguardandola dal Nord, cioè dall'ottica delle "magnifiche
sorti e progressive" che già si celebravano nel mitico
triangolo industriale. I clamorosi "fatti di Genova" dell'estate
1960 hanno lasciato tracce indelebili nell'immaginazione di Palumbo,
che possono aver determinato risolutivi ripensamenti di poetica. La
curva sociologica arretra sempre più decisamente, per l'urgenza
di uno scavo introspettivo a vasto raggio, con Le giornate lunghe,
Giocare di coda, Il serpente malioso, Domanda marginale, per limitarci
alle "prove" più significative. Anche stilisticamente
la "svolta" è ben evidente: vi si alternano e intersecano
sequenze dialogiche, svicolamenti del discorso indiretto libero, insistenza
del monologo interiore e soliloqui ossessivi. La schizofrenia è
il tratto psicologico più frequente; è comune a quasi
tutti i personaggi di questa stagione narrativa, la mancanza di una
robusta presa sulla realtà, che pare voglia farsi gioco di
essi (22).
Ecco Giovanni Zenato de Le giornate lunghe: un professore di economia
in un Istituto tecnico di provincia, nel quale, col decorrere degli
anni (ne ha già quarantacinque), si estinguono entusiasmi e
ideali, ambizioni di carriera scientifica, e ne avrebbe le attitudini,
e rapporti costruttivi con gli allievi. Ha preso parte attiva alla
Resistenza, rischiando anche di finire in un campo di concentramento
nazista; ma - l'ex partigiano si chiede - come mai è via via
accaduto che ci si sia adoperati a rimuovere la memoria di quegli
eventi? E Zenato non riesce a trovarne una spiegazione plausibile:
"Perdere la posta della vita, attraverso gli ideali che t'hanno
fatto agire, ma non saprei spiegare la causa della sconfitta".
Il professore vive a Rapallo con la vecchia madre, un po' troppo coccolona
e apprensiva, e nella normalità quotidiana Zenato trascorre
il tempo in una uggiosa monotonia, pigramente scettico come l'Oblomov
di GonËaròv. Si sente prematuramente invecchiato, come
l'Emilio Brentani di Svevo, e soltanto illusoriamente lo riscuote
il miraggio dello svago stagionale, che il suo paese ("pardon:
città") non dovrebbe lesinargli. Ma la città di
oggi - riflette Zenato - non è il "paese" di ieri,
della sua infanzia fantasiosa, delle interminabili pedalate sui crinali
delle colline "verdi e profumate". Ora a Rapallo impazza
la mondanità sbracata, regna la "stupidità",
domina il cemento armato, l'"internazionale forestiera".
Come districarsi dal rotolio delle giornate incredibilmente lunghe?
Forse rituffandosi tra le pagine dei ponderosi volumi della sua disciplina;
magari, lusingato dalla speranza di arrivare a capo di norme teoriche
certe e rassicuranti.
Ma intanto quel bailamme umano torna, suo malgrado, a sedurlo, e come
in un caleidoscopio gli restituisce visioni di vita insulsa, sino
a lasciarsene possedere. Più incredulo che curioso, Zenato
si riscopre da sé della "stessa pappa", e a nulla
serve il superstite gruzzolo di "idee chiare e distinte"
per ultimativi pronunciamenti sul monstrum di quella modernità
sussiegosa e fatua, e distanziarsene nettamente. Non bastano gli sporadici
sussulti di autocoscienza per cicatrizzare la ferita aperta dalla
delusione cocente: "Chi distruggerà la rete dei soprusi
costruiti in nome dei vecchi concetti di giustizia e libertà?
Ma sì, la vita è fatta di luoghi comuni e sono proprio
questi che piacciono di più agli uomini, e in nome dei quali
sono uccisi altri uomini". E' il bourrage de crânes a perpetuarsi,
come una costante nella realtà umana. Ma l'analisi dell'intellettuale
Zenato resta monca, illusoriamente autoconsolatoria: "Il tragico
per l'uomo sta proprio in questo: essere costretto, soprattutto dalla
propria coscienza, a spiegarsi la sconfitta di ciò che ha rappresentato
l'ideale della propria vita"; ora, una vita "senza qualità".
Nell'esemplare di Zenato e del suo cliché esistenziale si intravedono
i segni premonitori di una parabola verso il nichilismo, sempre più
palesi nella produzione letteraria successiva dello scrittore; un
nichilismo quale scotto irrimediabile della universale mercificazione
di sentimenti e valori, nell'era del capitalismo selvaggio.
I toni palumbiani dell'humor sottile vengono ad inacerbirsi ulteriormente
nella raccolta Giocare di coda: quattro racconti lunghi, accomunati
dal tema di fondo, la provvisorietà delle soluzioni umane nel
labirinto delle convenzioni e dei condizionamenti esterni, cui si
adeguano strutture formali, strumentalmente singhiozzanti, e vorticose
scansioni mimetiche, mirate a suscitare effetti di subitaneo straniamento.
Sino al limite del tragico, quasi ostentato, e del macabro granguignolesco;
come in Liquidazione volontaria, in cui un suicida rievoca da defunto
lo strazio delle proprie carni fra le rotaie di un treno in corsa
e il successivo osceno mercanteggiamento che si fa dei lacerti del
proprio cadavere: "Il mio corpo, tutto il mio corpo senza la
testa si trova nella cella frigorifera di un obitorio. La testa è
in una buca in un punto della scarpata, a destra [ ... ]. Di rimbalzo
è andata a finire prima in una buca più grande, poi
di là in quella più piccola. Dovranno perforare o almeno
scavare. Ma le ricerche si sono spostate già più in
basso. La faccia aderisce alla terra fangosa; ma se qualcuno la scoprisse,
potrebbe vedere tutta la mia paura".
In Operazione a termine il macabro cede alla tartuferia di un nababbo
che se la gode sul golfo del Tigullio, già in odore di collaborazionismo
nazista in Belgio, sua patria, speculando forsennatamente in borsa
e coinvolgendo l'ignaro suo giardiniere, che firma per lui. Il contrasto
tra il nababbo e l'umile servitore si carica di un simbolismo che
trascende la vicenda; la sicumera affaristica dell'uno s'infrange
alla notizia del crollo dei titoli in banca, sino a provocargli un
infarto fulminante; resiste, invece, con l'occhio scanzonato di chi
è aduso all'improbus labor, la paziente saggezza dell'altro;
del giardiniere che serba vivo in sé il senso della giustizia,
e sbarca il lunario con elementare gelosa dignità. Nella contrapposizione
lo scrittore manifesta ancora una volta le sue opzioni morali, l'implicito
rifiuto del compromesso capitolardo, il primato, almeno teorico, del
finalismo etico nei rapporti sociali (23).
In Una pietra oggi, una pietra domani, Palumbo s'impegna in una satira
di costume, che colpisce l'ipocrisia piccolo-borghese, perennemente
intesa al conseguimento del proprio "particulare"; una ipocrisia
come codice di vita, esercitata, primordialmente, a tutela dell'avvenire
dei figli, comunque e dovunque. Il morboso e calcolato intenerimento
di un genitore, "mezza manica", intride il racconto, tra
vischiose compiacenze e indulgenze, al fine di ottenere una facile
promozione del proprio rampollo, sfaticato e del tutto disinteressato
agli studi. Ma non importa, perché ciò che conta è
il pezzullo, e il resto verrà poi, se ci si affida alla inveterata
prassi delle "unzioni di ruota". Al mondo d'oggi non vale
l'istruzione quanto lo sgomitare cinicamente praticato; in barba a
quanti, come Dostoevskij (citato in esergo da Palumbo), sono convinti
"che l'istruzione migliorerà moralmente il popolo e gli
darà il sentimento di una propria dignità, che, a sua
volta, distruggerà molti abusi e disordini, ne distruggerà
addirittura la possibilità".
Sono le istanze interiori dell'individuo a premere in assoluto nella
fantasia di Palumbo, perché, anche per lui, "l'uomo non
si giudica da quello che dice, ma da quello che fa" (è
una sentenza di Cartesio). Da sempre la parola può costituire
il veicolo più naturale dell'inganno e della menzogna, il terreno
del reciproco sospetto; e Palumbo imposta su questo dato di fatto
la fabula del racconto, che ha dato il titolo alla raccolta ("Giocare
di coda"). Il tema di fondo, il clima resistenziale, era già
fin troppo rimenato e rimestato, perché Palumbo non vi si accostasse
con la dovuta cautela; senza cioè incorrere sia nell'enfasi
pregiudizialmente celebrativa sia nel logoro appiattimento farisaico
delle parti in campo. Fenoglio è l'esemplare, se ne vogliamo
individuare uno, per l'analogia della prospettiva critica, che induce
Palumbo a ricondurre quel momento storico alla "prosaica"
dimensione della elementarità dei bisogni materiali quotidiani.
Dimensione "prosaica" non priva di una sua segreta e dimessa
epicità picaresca, quale imponeva, nella sua fase finale, la
rabbiosa protervia degli invasori. Un borsaro nero "gioca di
coda" tra la occhiuta sorveglianza dei nazisti e l'impazienza
affamata della gente, disseminata per le vallate, e dei partigiani,
dislocati sulle montagne. Baccin (è il nome del borsaro), un
oscuro improvvisato Robin Hood, cova nella clandestinità più
rischiosa i suoi disegni per arraffare sacchi di farina in gran quantità,
e al meno da questo lato, forse più meritorio, farsi beffa
degli invasori e dei loro scherani. Si agita poi tutt'intorno un ribollimento
di rancori e di sentimenti, d'impulsi incontrollati e di reazioni
grottesche, che intanto definiscono l'altra faccia della "grande
storia", quella che si consuma non meno drammaticamente ai suoi
margini (24).
Epilogo
Il serpente malioso e Domanda marginale sono maturati insieme, cioè
nel solco di uno stesso travaglio ideologico e culturale, segnato
da una più esacerbata coscienza della crisi del mondo contemporaneo.
Per far nostra la frase programmatica di Baudelaire, il nostro scrittore,
a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, si cala rischiosamente,
e provocatoriamente, au fond de l'inconnu pour trouver du nouveau,
in termini lirici o narrativi o drammatici, di volta in volta. E'
il correlativo dell'"inferno" della realtà presente,
della poltiglia che inesorabilmente si viene accumulando tra istituzioni,
responsabilità pubbliche e tramonto delle ideologie forti.
Son testi di lettura non agevole, nella storia di Palumbo, e seriamente
controversa nella critica che ha seguito, sin dagli esordi, il cammino
dello scrittore. C'è chi vi ravvisa una radicale inversione
di tendenza, al limite dell'antirealismo e dell'evasione divertita
nel puro gioco delle soluzioni stilistico-formali; e chi, nella frammentazione
delle strutture diegetiche, coglie la crisi stessa dell'autore come
narratore, per il venir meno del rapporto organicamente dialettico
con la fenomenologia del reale; e infine, chi risale a un tardivo
e posticcio cedimento alle sirene della neoavanguardia (25).
In una intervista del 1978, Palumbo parla di una "modificazione
interiore" avvenuta in lui, in conseguenza delle devastanti trasformazioni
cui assisteva giorno dopo giorno: "Mi sono reso conto che la
corruzione, gli intrallazzi, le prevaricazioni, i soprusi, gli scandali,
sono così radicati negli uomini e nelle istituzioni del nostro
tempo, che non serve denunciarli attraverso la rappresentazione. E
allora è meglio metterne in evidenza i lati comici, ridicoli,
grotteschi. Gli anni cioè mi hanno portato a giocare con la
loro "imbecillità" e, sia pure impastato di dolore
per tale condizione e condizionamento, ho raggiunto una specie di
accettazione spirituale [ ... ]. Il mio rancore di un tempo è
cambiato in dileggio e in ironia" (26).
Di là dalle indubbie suggestioni esercitate sulla sua irrequietezza
intellettuale anche dal rovesciato clima culturale, Palumbo non demorde
dai suoi intenti conoscitivi, ora perseguiti sul piano inclinato delle
petites differences della sub-coscienza. Pertanto, anche nel suo caso,
si parva licet, tra realismo e psicologismo non esiste antinomia repulsiva,
ma più complessa integrazione. Scrive Lukacs, nella famosa
pagina in cui istituisce il raffronto Mann-Kafka: "I confini
che separano tra loro le due tendenze non di rado si confondono, soprattutto
perché un certo grado di realismo è inevitabile in ogni
opera letteraria. L'antica verità, cioè che il realismo
non è uno stile fra gli altri, ma piuttosto la base di ogni
letteratura, e che stili sono possibili solo entro il suo ambito e
in determinati rapporti con questo, compresi quelli che gli sono ostili,
trova anche qui la sua conferma" (27).
La fiction palumbiana ora diventa più sferzante, direttamente
proporzionale alla istituzionalizzata "irresponsabilità
e imbecillità". E' la generazione del Roberto Damonte,
con il suo modo di sentire e parlare senza riuscire mai ad operare
costruttivamente. Una generazione velleitaria, gattopardesca, che
avverte nel subconscio la propria impotenza e vi rimedia almanaccando
soluzioni inconsistenti o avvoltolandosi nella palude del pragmatismo
spicciolo e clientelare. E' la generazione cresciuta all'ombra di
un grosso partito di governo, che non tarda poi, trasformisticamente,
ad abbandonare, pur conservandone il marchio genetico. Bacchettona
e filistea, alla retorica rivendicazione del primato dello "spirito",
di contro alla crassitudine imperversante, adotta, nei comportamenti
concreti, l'ossequio servile alle gerarchie del Potere, con dentro
un senso rovinoso del peccato. Sulla psicologia franante di Roberto
Damonte riesce ad avere più presa un "femminino abnorme",
dagli effetti perversi, ossessivamente malioso, che lo trascina e
rimorchia sino all'autodistruzione. Di famiglia povera qual è,
agogna istintivamente il "salto di classe" e presta il suo
aiuto ad una laureanda di origine aristocratica, non del tutto disinteressatamente:
il "pieno" sentimentale avrebbe dovuto supplire al "vuoto"
ideologico, e il fantasma dorato di Sabrina assolve, nel suo subconscio,
il ruolo del Visiting angel, puntualmente smentito dalla realtà
delle cose. Per esorcizzarne il persistente fascino, Roberto rimastica
tra sé e sé sentenze dell'Ecclesiaste o versetti del
Corano, mentre le quotidiane annotazioni su un Diario si rivelano
a lui stesso un alibi ricorrente del bisogno istintivo dell'autoinganno,
provvisorio sostituto del desiderio, ma esiziale. Lo sbocco estremo
è un medioevale cupio dissolvi, ai confini della follia, tra
l'anamnesi devastante delle pagine del Diario e il risveglio brusco
dall'ennesimo incubo notturno, nel chiuso di uno stambugio, assiepato
da viscide allucinazioni erotiche. Roberto, insegnante in una scuola
media e non sprovveduto linguista, non ha mai voluto dar peso al monito
biblico, a lui ben noto: "Vae soli!". Il pessimismo di Palumbo
è radicale, colpisce l'intellettuale Damonte, fuggiasco da
ogni sorta di responsabilità e ridotto a talpa imputridita
nei meandri della propria intelligenza: "gli ballavano davanti
agli occhi la bocca, i capelli, gli occhi di quella maledettissima.
E quelle labbra, quel corpo!". In una solitudine senza scampo,
Roberto Damonte finisce per identificarsi in uno scarafaggio, nell'esasperante
tentativo di afferrare quel fantasma. Egli è specchio di una
educazione politica e sentimentale sbagliata (28).
Con Domanda marginale (formula tecnica dei rapporti di mercato, qui
applicabile alla "domanda di sesso") si è a un bivio:
"Signori e signore, chi al giorno d'oggi abbia l'audacia di parlare
della stupidità corre gravi rischi: lo si può interpretare
infatti come arroganza, o addirittura come tentativo di disturbare
lo sviluppo della nostra epoca": è un passo tratto dal
Discorso sulla stupidità di Robert Musil, col quale Palumbo
ci introduce nel suo romanzo e che si attaglia ad unguem anche a questo
nostro tempo. Pur essendo non rifinito, il testo complessivo racchiude
un messaggio ultimativo, desolatamente realistico; dilemmatico: o
la coscienza comune si scrolla dalla mente e dal cuore la "stupidità",
che dalle pareti del cervello trasuda negli atti quotidiani, o si
va a picco. Son la "doppia vita" e la "doppia morale",
erette a sistema generalizzato, tale da giustificare, anzi istituzionalizzare
l'assenza della consapevolezza della colpa e del sentimento della
vergogna; e ne consegue la frantumazione infinitesimale della realtà,
interiore ed esteriore, materia scontata, impossibile da "narrare".
A Palumbo non resta che "descriverla" con la asettica funzionale
minuziosità, propria della tecnica di Robbe-Grillet; scrittura
ellittica, anfanante, petulantemente vischiosa e querula, che indugia
o trascorre rapida sulle situazioni, per rispecchiarne la fatuità
e il disgusto. Il protagonista è un "eccellente"
brasseur d'affaires, che traffica con pari bravura tra gli ambulacri
felpati della sua azienda e tra le arcate lercie delle "case
di perdizione"; con un linguaggio e con una logica perfettamente
analoga, in cui ineriscono, senza frizione alcuna, sia gli sgocciolii
umorali di erotici amplessi inappagati sia le ostentate solennità
burocratiche delle mansioni ispettive. I legami familiari sono naturalmente
un fastidioso impaccio perché non riducibili alla "domanda
marginale", come invece lo sono le Katie e le Ines, e quant'altre
possa concupirne ad suum libitum. Questo ispettore nazionale è
consanguineo del Padrone di Parise; più che mai soddisfatto
della "cultura" che gli propina il populismo televisivo
e che, di fatto, gli suggerisce utili "strategie di idee",
anche al di fuori del proprio ambito specifico. Non sa però
immaginare quale sorte conforme al suo status lo attende; o forse
ne ha un presentimento, che si sforza di rimuovere, in grazia del
"profitto" che non esita ad ipotizzare dal "mercato
delle ragazze": la sorte del bruco che nella squallida stamberga
abituale "s'aggira in quei pochi metri quadrati e comincia a
pensare come deve adattarsi per accettare al più presto quella
condizione di insetto". E non è azzardato supporre, in
questa atroce fantasia di Palumbo, qualche suggestione del Gregor
Samsa di Kafka. Apocalittica prefigurazione dell'homo oeconomicus
avvinghiato all'homo videns di un domani non lontano?
CENNI BIOGRAFICI
Nasce a Trani (Bari) il 15 aprile 1921, secondogenito di otto figli
di una famiglia di modesti artigiani. Per dedicarsi a lavori manuali,
interrompe gli studi a undici anni. In cerca di miglior fortuna, la
famiglia si trasferisce a Bari e poi, nel 1938, a Milano, dove Palumbo
riprende a studiare, ma irregolarmente. Dopo il diploma di ragioniere,
si laurea in Scienze economiche e finanziarie: quindi si iscrive a
Giurisprudenza e a Lettere Classiche. Esercita per qualche anno, con
successo, l'attività di consulente commerciale. Ma la sua strada
è altra. Nel 1951 si trasferisce definitivamente a San Michele
di Pagana (frazione di Rapallo), per applicarsi esclusivamente alla
"pazza e insensata vocazione di scrittore". Ottiene numerosi
riconoscimenti e premi letterari. Le sue opere sono tradotte in vari
Paesi europei. Si spegne il 6 marzo 1983.
NOTE
1) Giornata nazionale di studi su Nino Palumbo, Rapallo, 19 marzo
1988. Gli Atti sono stati raccolti a cura di Francesco De Nicola e
pubblicati nella rivista "Misure critiche", anno XX, fasc.
n. 74-75, gennaio-giugno 1990. In appendice: "Prove di letteratura
e arte" (1960-1981). Breve storia e indici.
2) Per questi e altri periodici, si rinvia a E. Mondello, Gli anni
delle riviste. Le riviste letterarie dal 1945 agli anni Ottanta, Lecce,
Milella, 1985, con vistose lacune: sono assenti "Ragioni narrative",
su cui vedi ora Toni Iermano, nel vol. coll. Da Carducci ai contemporanei.
Studi in onore di Antonio Piromalli, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1994, pp. 493-51 l; le palumbiane "Prove di letteratura
e arte" ed altre ancora.
3) Lo scrittore e la società, in "Gazzetta di Parma",
17 dicembre 1964.
4) Documenti, in G. Pullini, Il romanzo italiano del dopoguerra, Milano,
Schwarz, 1961, pp. 431-432.
5) Cultura e Mezzogiorno, in "L'Unione sarda", 7 aprile
1972.
6) E. Gioanola, L'università di Nino Palumbo, nel vol. coll.
Le stagioni di Nino Palumbo, a cura di Sebastiano Martelli, introduzione
di Giuliano Manacorda, Foggia, Bastogi, pp. 20-30.
7) Sullo scrittore senese, è da leggere ora il luminoso saggio
analitico di R. Luperini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le
opere, Bari, Laterza, 1995.
8) Nella silloge Oggi è sabato e domani è domenica,
Roma, Canesi, 1964, pp. 99-124, su cui cfr. Michele Tondo, Gli esordi
di Palumbo, nel cit. Le stagioni, pp. 12-19.
9) Nel cit. Oggi è sabato e domani è domenica, pp. 11-26.
10) La raccoltina è stata ripubblicata di recente a cura di
S. Martelli, che la ha accompagnata con una puntuale introduzione:
L'intoppo, Bari, Editrice Tipografica, 1993. L'estensore del presente
profilo è stato tra i primi a interessarsene: Le ragioni morali
del realismo di Palumbo, in "Letterature moderne", a. XII,
n. 5-6, ottobre-dicembre 1962, pp. 627-636. Va però riconosciuto
al Martelli il merito di aver dedicato allo scrittore appulo-ligure
ricerche e analisi, a volte decisive, in varie sedi. Qui si citano
almeno: una monografia, nella collana "Il castoro", Firenze,
La Nuova Italia, 1979 e Sulla soglia della memoria, Salerno, Edisud,
1986, pp. 5-58; con certosina pazienza il Martelli ha anche ripescato
e studiato filologicamente numerosi inediti, uno dei quali, A L 5
(Notte di Capodanno), reso noto in "Sudpuglia", anno X,
n. 2, giugno 1984, pp. 47-98, cui segue Nota al testo, pp. 99-104.
11) Cfr. M. Tondo, art. cit., p. 17.
12) G. Corsinovi, Il tempo lungo della memoria. Spazio coscienziale
e metarealismo narrativo nell'opera di Nino Palumbo, in "Le stagioni",
cit., pp. 288-304; rileva, fra l'altro, che il genere del romanzo
si pone per Palumbo "come il più complesso risultato di
un universo narrativo dominato dagli elementi coscienziali e psicologici
per i quali la crisi dell'uomo acquista validità fantastica
e pregnanza artistica solo quando affonda nel tempo lungo".
13) Cfr. la ricognizione sociologica di G. Manacorda, Vent'anni di
pazienza, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 51-74, e per una panoramica
più vasta storico-tematica, A. Vallone, La condizione impiegatizia
nel romanzo italiano contemporaneo. Antologia di testi letterari e
critici, Napoli, Loffredo, 1974: si va da Vittorio Bersezio a Renzo
Paris.
14) G. Manacorda, op. cit., p. 53.
15) Ruffo Chlodovskij, Il reato di Silio Tranifilo, Moskwa, 1959 e
Il realismo di Nino Palumbo, ivi, 1963, citati da S. Martelli, nella
monografia de "Il castoro", pp. 34 e 113.
16) L. Caretti, Vent'anni dopo, in N. P., Il giornale, Lugano, Edizioni
Pantarei, 1975.
17) Ibidem. Non diversamente Michel David vede in Domenico Chessa
"la figura del pazzo come rivelatore dell'alienazione degli integrati
e come modello di una possibile contestazione", La psicanalisi
nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1971, ed. accr.
18) G. Barberi Squarotti, L'esperienza del "Giornale" nella
narrativa di Nino Palumbo, in "Misure critiche",fasc. cit.,
pp. 13-19.
19) G. Manacorda, op. cit., p. 68.
20) S. Martelli, monografia cit., p. 61.
21) Fra numerosi altri testi palumbiani merita una menzione particolare
in proposito il racconto La mia università, nella cit. raccolta
Oggi è sabato e domani è domenica, pp. 169-180. Ricordiamo
qui, una volta per tutte, che la bibliografia critica sull'opera di
Nino Palumbo è davvero strabocchevole, in relazione ai temi,
alle strutture narrative, al linguaggio: v. Renzo Frattarolo, Ipotesi
di lavoro per una bibliografia di Nino Palumbo, in Le stagioni, cit.,
pp. 348-363.
22) Pertinenti i rilievi di Silvana Folliero, Nino Palumbo e la realtà
politico-letteraria degli anni '60, in Le stagioni, cit., pp. 127-132;
alla Folliero si deve anche la prima monografia sul nostro scrittore,
Invito alla lettura di Palumbo, Milano, Mursia, 1976.
23) E' da leggere il bel saggio di Anna Dolfi, Finalismo etico e società,
in Le stagioni, cit., pp. 169-179: fra l'altro: "Il meridione
è insomma un a priori biografico piuttosto che un a posteriori
narrativo; un mondo dal quale Palumbo ha portato alcune coordinate
essenziali (fissate in fatalismo, pessimismo, sfiducia nelle strutture
statali e sociali, lacrimata rassegnazione), ma per costruire poi
un grafico diverso, che ignora ogni dimensione corale, ogni atteggiamento
politicamente contestativo, per limitarsi alla descrizione puntuale
degli effetti dell'emarginazione, dell'ingiustizia, commentati più
che dall'esterno (dal narratore) dall'interno, dall'ingenuo moralismo
del personaggio, vittima e carnefice al tempo stesso del proprio isolamento
e della propria sconfitta".
24) Interessanti le considerazioni di Heda Festini, Il sostrato filosofico
di "Giocare di coda", in Le stagioni, cit., pp. 116-126,
e di M. Abbate, Palumbo è prima di ogni altra cosa uno scrittore
ironico, in "La Gazzetta del Mezzogiorno", 1 luglio 1967.
25) Le diverse interpretazioni affiorano in vari interventi; qui ci
limitiamo a segnalarne soltanto alcuni, tra i più persuasivi:
M. Tondo, Domanda marginale, in "L'Albero", n. 67, giugno
1982; E. Panareo, Domanda marginale, in "Contributi", I,
n. 4, 1982; A. Granese, Struttura e personaggio nella narrativa dell'ultimo
Palumbo, in Le stagioni, cit.; R. Pellecchia, Fenomenologia religiosa
de "Il serpente malioso", ovvero il rapporto tra morale
e religione in Palumbo, ivi; S. Martelli, Sulla soglia della memoria,
cit., specialmente pp. 46-58; P. Sabbatino, Il punto di vista di Nino
Palumbo, in "Misure critiche", fasc. cit.
26) G. Occhipinti, Due domande a Nino Palumbo, in "Cronorama",
n. 14-15, agosto-ottobre 1978, pp. 57-58.
27) G. Lukàcs, Il significato attuale del realismo critico,
trad. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1957, p. 54.
28) Con lo stesso metodo, col quale aveva esaminato Il giornale, lo
studioso francese Michel David si addentra nell'analisi de Il serpente
malioso, nell'articolato intervento "Osservazioni... ",
in "Misure critiche", cit., pp. 21-48; interessante anche
l'appendice delle Lettere di Nino Palumbo a Michel David, qui di seguito.
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