AI CONFINI DEL NEOREALISMO




Nicola Carducci



Quando, nel primo scorcio degli anni Sessanta, il neorealismo dell'immediato dopoguerra era al suo epilogo e nuove tendenze letterarie si affermavano con controversa fortuna, da "I novissimi" in poesia al "Gruppo '63" nella narrativa, Nino Palumbo (1921-1983) poteva contare già su una consistente attività di scrittore, impegnata al di fuori di etichette e consorterie dominanti. Il suo era, e sarebbe a lungo rimasto, per usare un termine classico, realismo intenzionalmente critico, che gli consentirà poi, nell'approfondimento delle sue ragioni, di andare oltre il realismo: ragioni conoscitive in prevalenza, che tuttavia non rifuggiranno da approcci di tipo sperimentale. Insomma l'arco della sua opera iscrive Palumbo "nel realismo oltre il realismo", secondo la formula cui si è giunti in un convegno a molte voci a lui dedicato: da Impiegato d'imposte (1957) a Il giornale (1958), da Pane verde (1961) a Le giornate lunghe (1962), dai folti mannelli di racconti, pubblicati poi col titolo Oggi è sabato e domani è domenica (1964) e Giocare di coda (1967), a Il serpente malioso (1977) e Domanda marginale (1982) (1).
Intanto il dibattito sulla narrativa si allargava e coinvolgeva riviste come "Nuovi argomenti", "Nuova corrente", "Il menabò", "Il Verri", quali più quali meno orientate a promuovere proposte radicali di rinnovamento, non senza settarie impuntature iconoclaste nei confronti delle esperienze più recenti.
In difesa di queste ultime, con ovvio impianto storicizzante, si muovevano le napoletane "Ragioni narrative" e le liguri "Prove di letteratura e arte", varate da Palumbo nel 1960 e che hanno resistito sino al 1981 (2). In un editoriale del quarto anno di vita della rivista, il suo fondatore ne ribadiva con forza il programma: dissedare, "badando esclusivamente alle ragioni più profonde, morali e storiche, della narrativa e della poesia. Un'apertura critica [ ... ] che permette di rimanere lontani da dogmatismi e schematismi". Uno sperimentalismo, insomma, diverso, sia da altri coevi, cifrati da ostentata spericolatezza, sia da quello, pur temperato, della bolognese "Officina", col quale ha peraltro in comune il ridimensionamento del "novecentismo".
Le simpatie palumbiane puntano ex abrupto alla grande narrativa dell'Ottocento francese e russo sino ai nostri Verga e Svevo: "Noi crediamo ancora al romanzo che tenga conto della realtà in cui viviamo, della società in cui viviamo, ed in esso deve confluire ogni conquista culturale (che fra l'altro) comporta un impegno inteso come diritto e dovere di partecipazione alla formazione di una coscienza dell'uomo nel proprio tempo" (3).
Preliminarmente giova ancora un altro documento teorico dello scrittore sul rapporto tra "memoria", come autobiografia e come memoria storica, e tra questa e sofferenza umana nel tempo. La realtà, allora, cioè la vita, va "narrata" non "descritta", con evidente suggestione lukacsiana; e narrare significa "essere nella giusta posizione" di un problema, piuttosto che "nella giusta soluzione di esso"; Palumbo, come può, guarda a Tolstoj, non a Zola (4). Né va trascurata, nell'approccio critico al nostro autore appulo-ligure, l'attenzione alla sua radice meridionale, che, dove più dove meno, giuoca un ruolo non marginale nelle sue finzioni e affabulazioni: "Lo scrittore del Sud, l'uomo di cultura del Sud - insiste a dire in più occasioni - ha una responsabilità maggiore, ha un compito più difficile e più profondo" (5). L'esperienza della realtà settentrionale acuisce in Palumbo la consapevolezza dell'alterità meridionale, elemento in più della sua ragione narrativa; nella società del benessere scopre a un tempo, verghianamente, "un'atmosfera di Banche e di Imprese industriali" e la insensibilità al diffuso guasto morale che ne scaturisce. Impiegato d'imposte ne è il documento letterario, come dell'alterità meridionale è documento Pane verde: due mondi sociali e antropologici che Palumbo sperimenta, per dir così, sulla sua pelle. Con una laurea della Bocconi in tasca - laurea sudatissima per gli indicibili sacrifici che ha comportato - il consulente commerciale Nino Palumbo si muove professionalmente in quell'atmosfera, e tra la sequela dei compromessi con la propria coscienza di uomo e la prospettiva di un avvenire economicamente incerto da letterato puro, Palumbo non esita a scegliere la passione "insensata" della scrittura; scelta che definisce una vocazione nativa e che, a lungo andare, non rimarrà indolore. Scrive a riguardo Gioanola: "Chi preferisce la dignitosa povertà dello scrittore, che sta fuori dei crocevia del successo, alla sicura agiatezza è uno che non sa trovare altro spazio di salvezza al di fuori della scrittura" (6). E' giusto dunque ripetere di Palumbo quel che Tozzi, tra i suoi scrittori prediletti, disse di sé: "Ma la mia anima che con me è molto buona mi aiutò; io dovevo ritrovare lungo i giorni del mio passato, che non avevo mai buttato via, molte cose" (7).
Contrariamente a chi ritiene d'intravedere nella Weltanschauung palumbiana dissimulate venature di ottimismo, va subito sottolineato che il fulcro della sua ispirazione, ne sia oggetto la realtà del Nord o quella del Sud, poggia sulla dirompenza degli effetti che la ferrea legge economica produce nell'esistenza e nella coscienza degli uomini, non di rado facendo strame dei sentimenti. Lo si rileva, per citare subito qualche testo, dal racconto "La pietra al posto del cuore" (8). Inerisce naturalmente nella ferrea legge economica della ideologia palumbiana il paradigma del destino, a un passo dalla nozione antica della "fatalità" della "necessità" che annulla ogni slancio di rivolta liberatrice. Altro racconto fortemente significativo è "La macina", in cui la metafora gogoliana, che lo scrittore appone a sua epigrafe, sintetizza i casi al limite dell'inverosimile del protagonista: "Il mondo è come un vortice: vi si agitano eternamente opinioni e giudizi, ma il tempo macina tutto" (9). L'umanità dei personaggi, che dalle zone più segrete dei sentimenti si riversa nelle situazioni, umanità elementare dai risvolti quasi preistorici, è diluita nella narrazione con aderenza simpatetica, che però sottende un preciso pronunciamento di denuncia, pur nella mescolanza, appunto gogoliana, di ironia dolorosa e di esilarante grottesco. Così, un pover uomo, nel ripiegarsi a riflettere sulla propria figura, sbertucciata dalla fatica di fabbricante di scarpe e sgraziatamente ingobbita, conclude: "Il bischetto, il punteruolo, la lesina, le forme, le tomaie, il mio regno così mi avevano conciato. Il tempo macinò anche me, perché il destino si compisse".
Ma la incauta opzione letteraria non tardò, negli esordi di scrittore, a gratificarlo; con la raccoltina di testi narrativi L'intoppo, che ottenne il premio "Libera stampa" di Lugano del 1955, con una motivazione firmata, fra gli altri, da Carlo Bo, Aldo Borlenghi, Giansiro Ferrata, Gianfranco Contini: "Scrittore preoccupato di scavare in profondità in una materia tutta umana e di una singolare intensità psicologica", i cui racconti sono "punteggiati di allusioni autobiografiche, ma di una autobiografia mitizzata, [per cui] l'uomo si può riconoscere non deformato tendenzialmente, ma accresciuto nella sua stessa esperienza". Le tracce insomma della giovanile acerbità stilistica si attenuano nella pienezza dei contenuti, polarizzati nel risalto che vi assumono i personaggi. Sicché il Tranifilo di Impiegato d'imposte come il Chessa de Il giornale e lo Zenato de Le giornate lunghe sdipanano in più ampie proiezioni narrative le linee germinali della psicologia di Ugo, protagonista de L'intoppo; e la metafora dell'intoppo, nel significato più pregnante, non è che lo "scacco", l'agguato che si cela nel fondo oscuro del nostro essere nel tempo e nel reticolo sociale (10).
E' concorde la critica nel riconoscere come preminente l'attenzione dello scrittore per la condizione degli strati sociali subalterni, condividendone il punto di vista, gl'impulsi repressi di ribellione e l'accasciarsi nella rassegnazione fatalistica, in una gradazione di striature stilistiche che conferiscono alla pagina vivacità mimetica. Il "vero" cui tende il narratore è il sommesso rimenio dei frammenti dell'Erlebnis di ognuno dei suoi personaggi, di una quotidianità tanto più emblematica quanto più frusta. Con qualche variante ideologica e linguistica, si può pensare per analogia a Carlo Cassola, per il quale, come per Palumbo, non è il dato eccezionale ma la casualità a significare l'interrogativo dell'esistenza. Tra le letture della prima formazione di Palumbo non mancano gli espressionisti tedeschi e gli esistenzialisti come Kierkegaard e Camus, di cui stralci ama corredare in esergo le sue opere o parti di esse.

Un "verismo minore ": dal Sud al Nord
La lezione del Verga è un fatto scontato per gli scrittori meridionali o meridionalizzati; più che sul terreno dello stile, troppo impervio e inimitabile, sull'altro, piuttosto scivoloso, della materia in sé, una specie di categoria dell'anima, dalla pertinace presenza larvale; sicché, per quanti si identificano con essa in un processo istintivamente osmotico, incombe il rischio di un inesorabile svilimento della propria, pur modesta, identità letteraria. Lo sforzo mal riuscito dell'artificio della regressione o dell'uso dell'erlebte Rede tradisce una subalternità piattamente scolastica e insieme compromette il carattere conoscitivo dell'arte veristica. Palumbo riesce a sfuggire al detto rischio, sia in virtù di una genuina mediazione pietistica, direi affettiva, tra la materia e il proprio io investigatore, sia per effetto di una prospettiva ideologica, che lo induce ad appropriarsi del "punto di vista" degli umili, dei diseredati, in un rapporto diretto, esperienziale.
La materia meridionale della raccolta Oggi è sabato e domani è domenica, che lo scrittore scava e circuisce, pensoso e dolente, riporta sulle pagine narrative gente della sua terra d'origine, a volte con immediatezza ingenuamente mitizzante e, comunque, sempre aliena da qualsivoglia intenzione parenetica. Ecco il bracciante, che inveisce contro il badile riottoso che lo fa penare, e vi decifra, a modo suo, i segni di un destino avverso; o il giovane, che il bisogno del lavoro sbatte fra le montagne e che impreca contro la sorte che lo ha divelto, innaturalmente, dal suo mare, dal suo habitat; o la giovane, sposa e madre, attaccata allo scoglio del suo "piccolo mondo", e che nel silenzio dei giorni sgrana il suo rosario di patimenti; o la mater dolorosa, rustica Niobe, che rimemora nell'oltretomba l'atavica catena di "odi", che, per ancestrale, belluino egoismo, fa strazio degli affetti familiari; o il miserabile gabelliere, cui a nulla è valsa la sua intensa devozione al simulacro di San Rocco, messo e rimesso a nuovo, per garantirsi il sicuro possesso di un loculo al cimitero del paese. Son tutte figure, o lucidi schizzi di esse, che risalgono da un universo sottoproletario, non quali fantasmi di un mondo defunto ma quali archetipi di una condizione etno-antropologica in cerca d'autore. Anime morte che ripercorrono il loro passato di vivi, per estrarne tragici o grotteschi bilanci; letterariamente, sul modello non improbabile dell'Antologia di Spoon River di E. Lee Masters (11).
La struttura narrativa d'impianto decisamente tradizionale di Impiegato d'imposte parve una incauta sfida ai novatori oltranzisti; eppure, a giudizio pressoché unanime di quei settori della critica che ricusavano le pregiudiziali antirealistiche, si trattava di uno dei più incisivi romanzi del dopoguerra. Anche per la ammiccante sintonia col rampantismo economico affaristico del decollo neoindustriale; in linea con i due racconti calviniani, anch'essi in media res, La speculazione edilizia, e La nuvola di smog, pur se l'indagine di Palumbo si muove anche in una "dimensione interiore (12). Il dramma del protagonista è letterariamente giocato su due versanti: il rapporto con il suo ambiente di lavoro e ne soccombe, vittima onesta, e il rapporto con il proprio nucleo familiare, che lo incupisce sino alla estenuazione, in un incolpevole rimorso. Sull'ennesimo travet della società opulenta e corrotta pesa, al tempo stesso, l'incubo della miseria che devasterebbe la sua famiglia, e il compromesso della capitolazione morale della propria coscienza. Un "essere o non essere", una situazione dilemmatica brutalmente calata nell'urto con un mondo vorace che inghiotte i più deboli, i più disarmati. Dimensione interiore e condizionamento sociale connotano il verismo minore di Palumbo, il cui personaggio prototipo di volta in volta si muove nel suo ambiente di lavoro, tra figure che ne rappresentano il sottofondo vischioso, e nel milieu domestico, tra presenze che emblematizzano il bisogno ansioso della purezza e dell'innocenza.
Come è noto, di poveri travet è ricca la nostra letteratura di fine Ottocento, quando in Italia è in atto, tardivamente e scompostamente, il disfrenarsi di ambizioni egemoniche di classe, che da un lato comporta la prima organizzazione capitalistica del lavoro e dall'altro il processo di proletarizzazione della piccola borghesia impiegatizia. Che è fenomeno che torna a verificarsi, su più vasta scala, con la restaurazione neocapitalistica del secondo dopoguerra. Il momento storico che fa da sfondo al romanzo di Palumbo è precisamente questo (13).
Nella Milano del "miracolo economico", Silio Tranifilo, da integerrimo subalterno in un ufficio d'imposte, si arrende al ricatto del bisogno, "persuasore orribile di mali"; ricatto abilmente manovrato dalle due figure antagoniste, il commendatore Terrini e l'avvocato Benedetti, umbrae perverse e pervertitrici del Potere. Gli estremi del dramma di Tranifilo, e in genere di una coscienza intatta, si ricapitolano nel "grosso capitalista, che gioca dietro le quinte e che dall'imbroglio dovrà trarre il massimo vantaggio; il professionista appaltatore dell'imbroglio, che rischia appena un poco ma si ritaglia una discreta fetta di profitto; l'impiegato a bassissimo stipendio che entra con tutta la riluttanza nel giro assumendone i massimi rischi con le briciole del guadagno" (14). Ma la ragione sociale non si dissocia mai dalla ragione etica nella ideologia di Palumbo, con la ferma utopistica persuasione che misura di giudizio dei comportamenti pubblici non può non essere la valenza morale. Che è la convinzione ingenua di chi subisce la storia, senza alternative, cioè dei ceti marginali, che nel nostro scrittore hanno trovato la loro voce.
La deontologia dell'avvocato Benedetti non esclude affatto la liceità della connivenza degli statuti professionali con le circostanze compromissorie. Tranifilo crollerà. Palumbo trascende l'episodio, per centrare il cuore del sistema dei rapporti umani prima ancora che sociali. Né v'è alcuna inclinazione al patetico nella rappresentazione del "nido" del pover uomo: la bufera non ha intaccato l'assolutezza degli affetti nella "sciagura" che ha travolto Tranifilo. Esiste, può esistere anche una forte capacità di resistenza a fronte degli ingranaggi posti in essere da una società costitutivamente iniqua. Paradossalmente, è la pietas inerme (il pensiero di Tranifilo è fisso a quella corsia d'ospedale del figlio Luigi, bisognoso di medicine) a segnare la rivalsa di Tranifilo presso se stesso e la propria coscienza; quella pietas che le istituzioni non hanno saputo riconoscere e difendere. La capitolazione di fronte alla "legge" resta per lo scrittore e per il lettore un pur tragico evento esterno; ma esiste anche una legge non scritta, incisa nell'interiorità più profonda: la legge non scritta dell'Antigone del mito antico: "Una pugnalata al cuore e il sorriso sulle labbra del suo corruttore, ma [Tranifilo] avrebbe detto di sé: tanto sporcarsi non era un delitto come far morire di fame i propri figli". Assai acuto e pertinente ci sembra il giudizio di un lettore russo, che così conclude la sua analisi: "Nel romanzo il reato viene commesso, come sembra, da Tranifilo. Ma proprio in questo consiste il tragico paradosso: il più grave delitto della società nei confronti dell'Uomo consiste nel fatto che l'uomo si vede obbligato a commettere un delitto. La società deruba Tranifilo obbligandolo a rubare, facendo di questo onesto ma umile uomo un concussionario.
La società rubò a Tranifilo quello che di più prezioso gli era rimasto: la sua dignità di UOMO" (15). Il direttore con sordida ipocrisia invita Tranifilo a firmare le dimissioni e, al suo eventuale rifiuto, minaccia che avrebbe dovuto passare "la pratica all'autorità giudiziaria". Nihil sub sole novi: il derubato della propria dignità di umile funzionario "onesto" sarebbe "finito dentro" e i "ladri sarebbero stati sempre fuori".

Insania come veggenza
In occasione della ristampa de Il giornale, nel 1975, Lanfranco Caretti si è richiamato al "verismo minore" di un Cagna, un Faldella, un Bersezio, nel quale Palumbo innesta "qualche tratto di più illustri umiliati e offesi: i gogoliani Akakij Akakievic del Cappotto e Popriescsin del Diario di un pazzo, oppure il Myskin dell'Idiota di Dostoevskij"; e nelle probabili dirette ascendenze, l'autorevole critico vede nel Chessa, protagonista del romanzo palumbiano, parentele, pur se lontane, con "certi personaggi del moderno teatro dell'assurdo: da Pirandello a Beckett" (16). Il che pare al Caretti "non solo un modo di procedere oltre l'ottimismo populista, ma anche un interessante esperimento per porre in termini critici e disillusi il distruttivo rapporto tra l'individuo e la società, tra le ragioni private e le spietate istituzioni neocapitaliste" (17). Era ormai avviata una nuova stagione letteraria, "acremente protestataria", per cui si dava vita a personaggi stravaganti, eccentrici: dai pasoliniani "ragazzi di vita" al "calzolaio di Vigevano" di Mastronardi, al Marcovaldo di Calvino e al Saluggia di Volponi. E provocatoriamente il romanzo di Palumbo si apre nel nome di Gogol: "Ma essere fratelli d'anima e non di sangue, è proprio soltanto dell'uomo". Vi si rappresenta, alternando mimesi e diegesi, un altro caso di conflitto tra l'individuo e la società, tra le ragioni di un io, che naturalmente aspira alla piena realizzazione di sé come essere libero, e le strutture burocratiche e comportamentali di una istituzione pubblica, sempre più incombente sui condizionamenti sociali, qual è la Banca.
Domenico Chessa, un archivista, non riesce a comunicare nel suo ambiente di lavoro, né ottiene i riconoscimenti che pure gli spetterebbero per la sua professionalità. E' un ambiente cifrato e ottuso, senza alito alcuno di una "cultura" che vivifichi spiritualmente le relazioni umane all'interno di esso.
La lettura del giornale schiude orizzonti sterminati di conoscenza e perciò diventa insostituibile strumento di "comunicazione" informativa e di "comunione" ideale tra esseri pensanti. E' a questa istanza embrionalmente etico-politica che l'archivista Chessa non sa rinunciare, in qualche modo con l'atteggiamento maniacale dei flaubertiani Bouvard e Pecuchet. L'abitudine della lettura dei quotidiani è iniziata all'età di venticinque anni e da allora èdiventata fonte di arricchimento culturale, a volte indigesto, e di progressiva sensibilizzazione sociale, con punte anarcoidi.
Ma l'insidia che si annida in ogni tipo di lavoro ripetitivo è il virus dell'alienazione; e ossessivamente ripetitivo è quell'accumulare e schedare carte e cartigli bancari, giorno dopo giorno, cui Chessa cerca di sfuggire intensificando l'abitudine della lettura dei giornali. In effetti si rivela non meno funesta e alienante anche questa, la lettura dei giornali, che, a lungo andare, perpetra nella psicologia già labile del pover uomo una fatale distorsione: l'archivio della sua banca conta per lui assai meno dell'archivio della "memoria storica", conservata dalle pile ammonticchiate dei fogli quotidiani, ad posteros. Il tragico grottesco gogoliano scatta a questo punto: Chessa viene licenziato in tronco per scarso rendimento, non senza suo stupore. Egli ormai si sente come investito di una missione; il suo ruolo va ben oltre la frivola quotidianità della routine impiegatizia. Ormai si scontrano due linguaggi e due Weltanschauungen:per l'archivista Chessa, un istituto di credito non è che "parte di un tutto", per il direttore della Banca è invece simbolo sovrano della totalità del reale, economico, politico e sociale; cioè di un Potere, come acutamente puntualizza Barberi Squarotti, "che opprime non perché sia particolarmente malvagio e crudele, ma per il fatto stesso di esistere e di operare al di fuori di ogni passione, di ogni preoccupazione umana, anzi addirittura al di fuori di ogni contatto con gli uomini, considerati non più che semplici oggetti utili finché danno un contributo al buon funzionamento della struttura, poi da buttare via, quando siano diventati inservibili e di peso" (18). Siamo a un passo dal Leviatano biblico-hobbesiano, e magari dal "rinoceronte" di Ionesco o dal magma eruttivo di Beckett. Resiste però, nella mente sconvolta di Chessa, un singolare trasporto verso "il prossimo", una umbratile volontà laicamente missionaria, che assume via via più netti contorni, di disponibilità al confronto sul terreno più alto dei valori dello spirito, della fratellanza, per restituire agli atti umani la funzione loro propria, di considerare il nostro simile "fine" e non "mezzo". Non è che "il cerino della ragione" a non essersi mai spento nella coscienza di Chessa, la cui "mania leggitoria", nella carica lacerante che le è sottesa, riflette l'esigenza di una tensione tragico-eroica, sotto la rude scorza del grottesco. La vicenda del romanzo palumbiano riporta alla fine degli anni Trenta, e di quel preciso scorcio storico-politico ci offre l'immagine rovesciata. Il conformismo e la supina acquiescenza di massa allignano nel vuoto delle idee e nell'assenza del giudizio critico su eventi e personaggi pubblici. E' questo il messaggio implicito nelle stravaganze pirandelliane di Chessa, il cui possesso della "memoria storica", garantitagli dalla lettura ininterrotta dei quotidiani, non soltanto lo risarcisce dalla emarginazione ma anzi rafforza in lui il sentimento della solidarietà con quanti vivono "ai margini della vita".
L'archivista licenziato affida ad essi, "fratelli d'anima e non di sangue", il verbo della fiducia. Il coatto "suicidio civile" dell'io ufficiale di Chessa val bene l'incontro con una "umanità altra". Barbone tra barboni - siamo nel 1940 - egli rimugina tra sé e sé: "Com'era strano quello che stava per succedere! I capi, i responsabili, s'erano andati preparando, e i giornali piano piano avevano creato l'atmosfera. Tutti la volevano la guerra, stando a quello che i giornali riportavano, tutti la invocavano. Come poteva essere! L'uomo non poteva volere la distruzione, la fine di un altro uomo!... Qualunque sarebbe stato l'esito, la guerra era la distruzione di masse, come l'odio dell'uomo era la distruzione del suo simile". La eccentricità dell'archivista licenziato e diventato barbone non è che la maschera dolorosa di un'utopia dura a morire.

Tra memoria ed elegia
I ricordi più incisivi della propria vita, e specialmente quelli della prima età, si sedimentano nello scrigno della memoria come reliquie, cui di tanto in tanto si ritorna col pensiero, quasi a ricavarne grani di saggezza, lezioni di esperienza, risorse di fiducia, messaggi di speranza, contro agguati o assalti che il tempo ulteriore riserva subdolamente. La frase tolstojana, messa a guardia del romanzo Pane verde, ne racchiude tutta intera la "verità": "L'uomo può essere convinto soltanto dalla vita e non dalle idee astratte, e soprattutto dalla sventura". Qui il nostro scrittore accinge a piene mani da quello scrigno, conferendo alle proprie vicissitudini esistenziali i caratteri della paradigmaticità di una condizione tipica degli strati socialmente più umili del Mezzogiorno tra le due guerre. Col necessario distacco che la fiction letteraria comporta e che, negli scorci narrativi più felici, preserva l'autore dalla degenerazione nel patetico o dall'indulgere a vezzi populistici, non sconosciuti alla memorialistica degli anni Cinquanta. Avrebbero indotto, a entrambi i rischi, talune figure umane intensamente simboliche, dal nonno Paolo all'Amitrano e alla moglie Assunta, con la covata dei suoi sette figli, tutte calate nell'epos di un dolore antico; archetipi suggestivi, che però Palumbo innesta organicamente nella temperie storica del tempo (la guerra d'Etiopia, la guerra di Spagna, le avvisaglie del secondo conflitto). "Ciò di cui si parla in Pane verde è terribilmente semplice e terribilmente vero", osserva a ragione il Manacorda (19); sicché, pur nella scontata diversità temperamentale e ideologica dei rispettivi autori, la Puglia di Palumbo si allinea sul versante della Calabria di Alvaro, della Sicilia di Vittorini, della Lucania di Carlo Levi; testi riconducibili alla stessa tensione culturale di un meridionalismo critico. Le traversie della famiglia di Elia Amitrano, un tappezziere che da Trani emigra nel capoluogo pugliese e poi, in preda alla disperazione, nella Milano tentacolare della fine del decennio, inseguendo il miraggio di un lavoro non precario, sono insieme oggetto del racconto e specola di giudizio, e ne derivano non freddi "documenti umani", zolianamente, ma piuttosto un lukacsiano "rispecchiamento", della situazione "tipica" dell'epoca, che, nel Mezzogiorno, vede una divaricazione incolmabile tra ricchi e poveri, i primi avvezzi a prevaricare e i secondi a soggiacere.
La duplice chiave di lettura, di "romanzo di formazione", per l'inquieto adolescente Marco, l'alter ego dell'autore, e, in qualche modo, di "romanzo storico", per gli affioranti fondali della retorica nazionalistica, rivela una ambiziosa complessità d'intreccio, psicologico e sociologico, che, nelle intenzioni di Palumbo, avrebbe dovuto svilupparsi in una trilogia (secondo quanto si apprende dalla nota di chiusura dell'edizione Parenti, del 1961).
L'elementare filosofia del tappezziere, "testa calda", lo premunisce contro il conformismo di massa dell'epoca e, a suo modo, l'Amitrano passa per un sovversivo, che è anche la ragione non ultima della mancanza di clienti facoltosi, ma al tempo stesso gli riserva, al momento giusto, sufficienti energie ideali per rivendicare l'altrui riconoscimento dei suoi diritti. Elia non contrasta né condivide la cieca fiducia della moglie nella "Misericordia di Dio", che è per la povera donna la "favola ricorrente" per tenere a bada la insofferenza e la pena della innocente nidiata; per lui, piuttosto, vale la logica e la morale del lavoro onesto: "La volontà di lavorare è ciò che conta!", ripete a sé e agli altri, come una sfida. Di rara efficacia sono le pagine che descrivono la "visita a don Farina" di Amitrano, che attende da oltre un anno la "giusta mercede". Dignità umana e sentimento di giustizia esplodono dalle parole del tappezziere, nel tempestoso colloquio col barone, nel suo fastoso palazzo. Sull'uscio, in procinto di tirare la maniglia del campanello, "lo presero una nausea e un'umiliazione mai provate, mentre nel silenzio più assoluto passavano i secondi. Un'umiliazione per quel se stesso lì in piedi dietro la porta, e una nausea, un senso di disgusto, per coloro che abitavano oltre quella porta massiccia, scura". A riguardo Sebastiano Martelli ha accostato questo episodio, che è centrale nell'economia del romanzo, alla decisione di Padre Cristoforo di recarsi a sfidare, nel covo delle sue ribalderie, don Rodrigo (20). A noi sembra, peraltro, che nel diseredato artigiano pugliese c'è qualcosa di più: una intraprendenza solitaria, alimentata da una lunga memoria di torti subiti, recenti e remoti. La società - brontola tra sé Amitrano - "nel nome di principi politici o di dogmi religiosi, crea il vuoto intorno a coloro che non vogliono sottostare ai principi che reggono tale società". Le idee "sovversive" che frullano nel capo del tappezziere, ancor più risentite in occasione di una parata del regime nel capoluogo pugliese, racchiudono una embrionale valutazione politica, culturalmente sguarnita ma ispirata al buon senso, sul distorto processo della storia nazionale. L'inguaribile arretratezza delle plaghe meridionali costringeva all'emigrazione e allo sradicamento; o che si puntasse sul presunto eldorado del Nord o che si finisse carne da cannone in terre d'oltre mare.
L'iter formativo di Marco, l'adolescente che potrà finalmente, nel capoluogo lombardo, riprendere avventurosamente i suoi studi, procede lungo i sentieri accidentati della famiglia paterna, non senza assimilare, nel chiuso del proprio animo umiliato e offeso, l'acre filosofia del padre, oltre che del nonno, rientrato dall'emigrazione oltre Oceano, carico di esperienza ma non di peculio (21).

La svolta degli Anni Sessanta
Il meno improbabile motivo della brusca interruzione della "trilogia" risiede nel graduale offuscamento dell'ottimismo postresistenziale, oltre che nell'accentuarsi della "modernità squilibrata" delle regioni meridionali, ancor più dolorosamente percepita sogguardandola dal Nord, cioè dall'ottica delle "magnifiche sorti e progressive" che già si celebravano nel mitico triangolo industriale. I clamorosi "fatti di Genova" dell'estate 1960 hanno lasciato tracce indelebili nell'immaginazione di Palumbo, che possono aver determinato risolutivi ripensamenti di poetica. La curva sociologica arretra sempre più decisamente, per l'urgenza di uno scavo introspettivo a vasto raggio, con Le giornate lunghe, Giocare di coda, Il serpente malioso, Domanda marginale, per limitarci alle "prove" più significative. Anche stilisticamente la "svolta" è ben evidente: vi si alternano e intersecano sequenze dialogiche, svicolamenti del discorso indiretto libero, insistenza del monologo interiore e soliloqui ossessivi. La schizofrenia è il tratto psicologico più frequente; è comune a quasi tutti i personaggi di questa stagione narrativa, la mancanza di una robusta presa sulla realtà, che pare voglia farsi gioco di essi (22).
Ecco Giovanni Zenato de Le giornate lunghe: un professore di economia in un Istituto tecnico di provincia, nel quale, col decorrere degli anni (ne ha già quarantacinque), si estinguono entusiasmi e ideali, ambizioni di carriera scientifica, e ne avrebbe le attitudini, e rapporti costruttivi con gli allievi. Ha preso parte attiva alla Resistenza, rischiando anche di finire in un campo di concentramento nazista; ma - l'ex partigiano si chiede - come mai è via via accaduto che ci si sia adoperati a rimuovere la memoria di quegli eventi? E Zenato non riesce a trovarne una spiegazione plausibile: "Perdere la posta della vita, attraverso gli ideali che t'hanno fatto agire, ma non saprei spiegare la causa della sconfitta". Il professore vive a Rapallo con la vecchia madre, un po' troppo coccolona e apprensiva, e nella normalità quotidiana Zenato trascorre il tempo in una uggiosa monotonia, pigramente scettico come l'Oblomov di GonËaròv. Si sente prematuramente invecchiato, come l'Emilio Brentani di Svevo, e soltanto illusoriamente lo riscuote il miraggio dello svago stagionale, che il suo paese ("pardon: città") non dovrebbe lesinargli. Ma la città di oggi - riflette Zenato - non è il "paese" di ieri, della sua infanzia fantasiosa, delle interminabili pedalate sui crinali delle colline "verdi e profumate". Ora a Rapallo impazza la mondanità sbracata, regna la "stupidità", domina il cemento armato, l'"internazionale forestiera". Come districarsi dal rotolio delle giornate incredibilmente lunghe? Forse rituffandosi tra le pagine dei ponderosi volumi della sua disciplina; magari, lusingato dalla speranza di arrivare a capo di norme teoriche certe e rassicuranti.
Ma intanto quel bailamme umano torna, suo malgrado, a sedurlo, e come in un caleidoscopio gli restituisce visioni di vita insulsa, sino a lasciarsene possedere. Più incredulo che curioso, Zenato si riscopre da sé della "stessa pappa", e a nulla serve il superstite gruzzolo di "idee chiare e distinte" per ultimativi pronunciamenti sul monstrum di quella modernità sussiegosa e fatua, e distanziarsene nettamente. Non bastano gli sporadici sussulti di autocoscienza per cicatrizzare la ferita aperta dalla delusione cocente: "Chi distruggerà la rete dei soprusi costruiti in nome dei vecchi concetti di giustizia e libertà? Ma sì, la vita è fatta di luoghi comuni e sono proprio questi che piacciono di più agli uomini, e in nome dei quali sono uccisi altri uomini". E' il bourrage de crânes a perpetuarsi, come una costante nella realtà umana. Ma l'analisi dell'intellettuale Zenato resta monca, illusoriamente autoconsolatoria: "Il tragico per l'uomo sta proprio in questo: essere costretto, soprattutto dalla propria coscienza, a spiegarsi la sconfitta di ciò che ha rappresentato l'ideale della propria vita"; ora, una vita "senza qualità". Nell'esemplare di Zenato e del suo cliché esistenziale si intravedono i segni premonitori di una parabola verso il nichilismo, sempre più palesi nella produzione letteraria successiva dello scrittore; un nichilismo quale scotto irrimediabile della universale mercificazione di sentimenti e valori, nell'era del capitalismo selvaggio.
I toni palumbiani dell'humor sottile vengono ad inacerbirsi ulteriormente nella raccolta Giocare di coda: quattro racconti lunghi, accomunati dal tema di fondo, la provvisorietà delle soluzioni umane nel labirinto delle convenzioni e dei condizionamenti esterni, cui si adeguano strutture formali, strumentalmente singhiozzanti, e vorticose scansioni mimetiche, mirate a suscitare effetti di subitaneo straniamento. Sino al limite del tragico, quasi ostentato, e del macabro granguignolesco; come in Liquidazione volontaria, in cui un suicida rievoca da defunto lo strazio delle proprie carni fra le rotaie di un treno in corsa e il successivo osceno mercanteggiamento che si fa dei lacerti del proprio cadavere: "Il mio corpo, tutto il mio corpo senza la testa si trova nella cella frigorifera di un obitorio. La testa è in una buca in un punto della scarpata, a destra [ ... ]. Di rimbalzo è andata a finire prima in una buca più grande, poi di là in quella più piccola. Dovranno perforare o almeno scavare. Ma le ricerche si sono spostate già più in basso. La faccia aderisce alla terra fangosa; ma se qualcuno la scoprisse, potrebbe vedere tutta la mia paura".
In Operazione a termine il macabro cede alla tartuferia di un nababbo che se la gode sul golfo del Tigullio, già in odore di collaborazionismo nazista in Belgio, sua patria, speculando forsennatamente in borsa e coinvolgendo l'ignaro suo giardiniere, che firma per lui. Il contrasto tra il nababbo e l'umile servitore si carica di un simbolismo che trascende la vicenda; la sicumera affaristica dell'uno s'infrange alla notizia del crollo dei titoli in banca, sino a provocargli un infarto fulminante; resiste, invece, con l'occhio scanzonato di chi è aduso all'improbus labor, la paziente saggezza dell'altro; del giardiniere che serba vivo in sé il senso della giustizia, e sbarca il lunario con elementare gelosa dignità. Nella contrapposizione lo scrittore manifesta ancora una volta le sue opzioni morali, l'implicito rifiuto del compromesso capitolardo, il primato, almeno teorico, del finalismo etico nei rapporti sociali (23).
In Una pietra oggi, una pietra domani, Palumbo s'impegna in una satira di costume, che colpisce l'ipocrisia piccolo-borghese, perennemente intesa al conseguimento del proprio "particulare"; una ipocrisia come codice di vita, esercitata, primordialmente, a tutela dell'avvenire dei figli, comunque e dovunque. Il morboso e calcolato intenerimento di un genitore, "mezza manica", intride il racconto, tra vischiose compiacenze e indulgenze, al fine di ottenere una facile promozione del proprio rampollo, sfaticato e del tutto disinteressato agli studi. Ma non importa, perché ciò che conta è il pezzullo, e il resto verrà poi, se ci si affida alla inveterata prassi delle "unzioni di ruota". Al mondo d'oggi non vale l'istruzione quanto lo sgomitare cinicamente praticato; in barba a quanti, come Dostoevskij (citato in esergo da Palumbo), sono convinti "che l'istruzione migliorerà moralmente il popolo e gli darà il sentimento di una propria dignità, che, a sua volta, distruggerà molti abusi e disordini, ne distruggerà addirittura la possibilità".
Sono le istanze interiori dell'individuo a premere in assoluto nella fantasia di Palumbo, perché, anche per lui, "l'uomo non si giudica da quello che dice, ma da quello che fa" (è una sentenza di Cartesio). Da sempre la parola può costituire il veicolo più naturale dell'inganno e della menzogna, il terreno del reciproco sospetto; e Palumbo imposta su questo dato di fatto la fabula del racconto, che ha dato il titolo alla raccolta ("Giocare di coda"). Il tema di fondo, il clima resistenziale, era già fin troppo rimenato e rimestato, perché Palumbo non vi si accostasse con la dovuta cautela; senza cioè incorrere sia nell'enfasi pregiudizialmente celebrativa sia nel logoro appiattimento farisaico delle parti in campo. Fenoglio è l'esemplare, se ne vogliamo individuare uno, per l'analogia della prospettiva critica, che induce Palumbo a ricondurre quel momento storico alla "prosaica" dimensione della elementarità dei bisogni materiali quotidiani. Dimensione "prosaica" non priva di una sua segreta e dimessa epicità picaresca, quale imponeva, nella sua fase finale, la rabbiosa protervia degli invasori. Un borsaro nero "gioca di coda" tra la occhiuta sorveglianza dei nazisti e l'impazienza affamata della gente, disseminata per le vallate, e dei partigiani, dislocati sulle montagne. Baccin (è il nome del borsaro), un oscuro improvvisato Robin Hood, cova nella clandestinità più rischiosa i suoi disegni per arraffare sacchi di farina in gran quantità, e al meno da questo lato, forse più meritorio, farsi beffa degli invasori e dei loro scherani. Si agita poi tutt'intorno un ribollimento di rancori e di sentimenti, d'impulsi incontrollati e di reazioni grottesche, che intanto definiscono l'altra faccia della "grande storia", quella che si consuma non meno drammaticamente ai suoi margini (24).

Epilogo
Il serpente malioso e Domanda marginale sono maturati insieme, cioè nel solco di uno stesso travaglio ideologico e culturale, segnato da una più esacerbata coscienza della crisi del mondo contemporaneo. Per far nostra la frase programmatica di Baudelaire, il nostro scrittore, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, si cala rischiosamente, e provocatoriamente, au fond de l'inconnu pour trouver du nouveau, in termini lirici o narrativi o drammatici, di volta in volta. E' il correlativo dell'"inferno" della realtà presente, della poltiglia che inesorabilmente si viene accumulando tra istituzioni, responsabilità pubbliche e tramonto delle ideologie forti. Son testi di lettura non agevole, nella storia di Palumbo, e seriamente controversa nella critica che ha seguito, sin dagli esordi, il cammino dello scrittore. C'è chi vi ravvisa una radicale inversione di tendenza, al limite dell'antirealismo e dell'evasione divertita nel puro gioco delle soluzioni stilistico-formali; e chi, nella frammentazione delle strutture diegetiche, coglie la crisi stessa dell'autore come narratore, per il venir meno del rapporto organicamente dialettico con la fenomenologia del reale; e infine, chi risale a un tardivo e posticcio cedimento alle sirene della neoavanguardia (25).
In una intervista del 1978, Palumbo parla di una "modificazione interiore" avvenuta in lui, in conseguenza delle devastanti trasformazioni cui assisteva giorno dopo giorno: "Mi sono reso conto che la corruzione, gli intrallazzi, le prevaricazioni, i soprusi, gli scandali, sono così radicati negli uomini e nelle istituzioni del nostro tempo, che non serve denunciarli attraverso la rappresentazione. E allora è meglio metterne in evidenza i lati comici, ridicoli, grotteschi. Gli anni cioè mi hanno portato a giocare con la loro "imbecillità" e, sia pure impastato di dolore per tale condizione e condizionamento, ho raggiunto una specie di accettazione spirituale [ ... ]. Il mio rancore di un tempo è cambiato in dileggio e in ironia" (26).
Di là dalle indubbie suggestioni esercitate sulla sua irrequietezza intellettuale anche dal rovesciato clima culturale, Palumbo non demorde dai suoi intenti conoscitivi, ora perseguiti sul piano inclinato delle petites differences della sub-coscienza. Pertanto, anche nel suo caso, si parva licet, tra realismo e psicologismo non esiste antinomia repulsiva, ma più complessa integrazione. Scrive Lukacs, nella famosa pagina in cui istituisce il raffronto Mann-Kafka: "I confini che separano tra loro le due tendenze non di rado si confondono, soprattutto perché un certo grado di realismo è inevitabile in ogni opera letteraria. L'antica verità, cioè che il realismo non è uno stile fra gli altri, ma piuttosto la base di ogni letteratura, e che stili sono possibili solo entro il suo ambito e in determinati rapporti con questo, compresi quelli che gli sono ostili, trova anche qui la sua conferma" (27).
La fiction palumbiana ora diventa più sferzante, direttamente proporzionale alla istituzionalizzata "irresponsabilità e imbecillità". E' la generazione del Roberto Damonte, con il suo modo di sentire e parlare senza riuscire mai ad operare costruttivamente. Una generazione velleitaria, gattopardesca, che avverte nel subconscio la propria impotenza e vi rimedia almanaccando soluzioni inconsistenti o avvoltolandosi nella palude del pragmatismo spicciolo e clientelare. E' la generazione cresciuta all'ombra di un grosso partito di governo, che non tarda poi, trasformisticamente, ad abbandonare, pur conservandone il marchio genetico. Bacchettona e filistea, alla retorica rivendicazione del primato dello "spirito", di contro alla crassitudine imperversante, adotta, nei comportamenti concreti, l'ossequio servile alle gerarchie del Potere, con dentro un senso rovinoso del peccato. Sulla psicologia franante di Roberto Damonte riesce ad avere più presa un "femminino abnorme", dagli effetti perversi, ossessivamente malioso, che lo trascina e rimorchia sino all'autodistruzione. Di famiglia povera qual è, agogna istintivamente il "salto di classe" e presta il suo aiuto ad una laureanda di origine aristocratica, non del tutto disinteressatamente: il "pieno" sentimentale avrebbe dovuto supplire al "vuoto" ideologico, e il fantasma dorato di Sabrina assolve, nel suo subconscio, il ruolo del Visiting angel, puntualmente smentito dalla realtà delle cose. Per esorcizzarne il persistente fascino, Roberto rimastica tra sé e sé sentenze dell'Ecclesiaste o versetti del Corano, mentre le quotidiane annotazioni su un Diario si rivelano a lui stesso un alibi ricorrente del bisogno istintivo dell'autoinganno, provvisorio sostituto del desiderio, ma esiziale. Lo sbocco estremo è un medioevale cupio dissolvi, ai confini della follia, tra l'anamnesi devastante delle pagine del Diario e il risveglio brusco dall'ennesimo incubo notturno, nel chiuso di uno stambugio, assiepato da viscide allucinazioni erotiche. Roberto, insegnante in una scuola media e non sprovveduto linguista, non ha mai voluto dar peso al monito biblico, a lui ben noto: "Vae soli!". Il pessimismo di Palumbo è radicale, colpisce l'intellettuale Damonte, fuggiasco da ogni sorta di responsabilità e ridotto a talpa imputridita nei meandri della propria intelligenza: "gli ballavano davanti agli occhi la bocca, i capelli, gli occhi di quella maledettissima. E quelle labbra, quel corpo!". In una solitudine senza scampo, Roberto Damonte finisce per identificarsi in uno scarafaggio, nell'esasperante tentativo di afferrare quel fantasma. Egli è specchio di una educazione politica e sentimentale sbagliata (28).
Con Domanda marginale (formula tecnica dei rapporti di mercato, qui applicabile alla "domanda di sesso") si è a un bivio: "Signori e signore, chi al giorno d'oggi abbia l'audacia di parlare della stupidità corre gravi rischi: lo si può interpretare infatti come arroganza, o addirittura come tentativo di disturbare lo sviluppo della nostra epoca": è un passo tratto dal Discorso sulla stupidità di Robert Musil, col quale Palumbo ci introduce nel suo romanzo e che si attaglia ad unguem anche a questo nostro tempo. Pur essendo non rifinito, il testo complessivo racchiude un messaggio ultimativo, desolatamente realistico; dilemmatico: o la coscienza comune si scrolla dalla mente e dal cuore la "stupidità", che dalle pareti del cervello trasuda negli atti quotidiani, o si va a picco. Son la "doppia vita" e la "doppia morale", erette a sistema generalizzato, tale da giustificare, anzi istituzionalizzare l'assenza della consapevolezza della colpa e del sentimento della vergogna; e ne consegue la frantumazione infinitesimale della realtà, interiore ed esteriore, materia scontata, impossibile da "narrare".
A Palumbo non resta che "descriverla" con la asettica funzionale minuziosità, propria della tecnica di Robbe-Grillet; scrittura ellittica, anfanante, petulantemente vischiosa e querula, che indugia o trascorre rapida sulle situazioni, per rispecchiarne la fatuità e il disgusto. Il protagonista è un "eccellente" brasseur d'affaires, che traffica con pari bravura tra gli ambulacri felpati della sua azienda e tra le arcate lercie delle "case di perdizione"; con un linguaggio e con una logica perfettamente analoga, in cui ineriscono, senza frizione alcuna, sia gli sgocciolii umorali di erotici amplessi inappagati sia le ostentate solennità burocratiche delle mansioni ispettive. I legami familiari sono naturalmente un fastidioso impaccio perché non riducibili alla "domanda marginale", come invece lo sono le Katie e le Ines, e quant'altre possa concupirne ad suum libitum. Questo ispettore nazionale è consanguineo del Padrone di Parise; più che mai soddisfatto della "cultura" che gli propina il populismo televisivo e che, di fatto, gli suggerisce utili "strategie di idee", anche al di fuori del proprio ambito specifico. Non sa però immaginare quale sorte conforme al suo status lo attende; o forse ne ha un presentimento, che si sforza di rimuovere, in grazia del "profitto" che non esita ad ipotizzare dal "mercato delle ragazze": la sorte del bruco che nella squallida stamberga abituale "s'aggira in quei pochi metri quadrati e comincia a pensare come deve adattarsi per accettare al più presto quella condizione di insetto". E non è azzardato supporre, in questa atroce fantasia di Palumbo, qualche suggestione del Gregor Samsa di Kafka. Apocalittica prefigurazione dell'homo oeconomicus avvinghiato all'homo videns di un domani non lontano?


CENNI BIOGRAFICI
Nasce a Trani (Bari) il 15 aprile 1921, secondogenito di otto figli di una famiglia di modesti artigiani. Per dedicarsi a lavori manuali, interrompe gli studi a undici anni. In cerca di miglior fortuna, la famiglia si trasferisce a Bari e poi, nel 1938, a Milano, dove Palumbo riprende a studiare, ma irregolarmente. Dopo il diploma di ragioniere, si laurea in Scienze economiche e finanziarie: quindi si iscrive a Giurisprudenza e a Lettere Classiche. Esercita per qualche anno, con successo, l'attività di consulente commerciale. Ma la sua strada è altra. Nel 1951 si trasferisce definitivamente a San Michele di Pagana (frazione di Rapallo), per applicarsi esclusivamente alla "pazza e insensata vocazione di scrittore". Ottiene numerosi riconoscimenti e premi letterari. Le sue opere sono tradotte in vari Paesi europei. Si spegne il 6 marzo 1983.


NOTE
1) Giornata nazionale di studi su Nino Palumbo, Rapallo, 19 marzo 1988. Gli Atti sono stati raccolti a cura di Francesco De Nicola e pubblicati nella rivista "Misure critiche", anno XX, fasc. n. 74-75, gennaio-giugno 1990. In appendice: "Prove di letteratura e arte" (1960-1981). Breve storia e indici.
2) Per questi e altri periodici, si rinvia a E. Mondello, Gli anni delle riviste. Le riviste letterarie dal 1945 agli anni Ottanta, Lecce, Milella, 1985, con vistose lacune: sono assenti "Ragioni narrative", su cui vedi ora Toni Iermano, nel vol. coll. Da Carducci ai contemporanei. Studi in onore di Antonio Piromalli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, pp. 493-51 l; le palumbiane "Prove di letteratura e arte" ed altre ancora.
3) Lo scrittore e la società, in "Gazzetta di Parma", 17 dicembre 1964.
4) Documenti, in G. Pullini, Il romanzo italiano del dopoguerra, Milano, Schwarz, 1961, pp. 431-432.
5) Cultura e Mezzogiorno, in "L'Unione sarda", 7 aprile 1972.
6) E. Gioanola, L'università di Nino Palumbo, nel vol. coll. Le stagioni di Nino Palumbo, a cura di Sebastiano Martelli, introduzione di Giuliano Manacorda, Foggia, Bastogi, pp. 20-30.
7) Sullo scrittore senese, è da leggere ora il luminoso saggio analitico di R. Luperini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, Bari, Laterza, 1995.
8) Nella silloge Oggi è sabato e domani è domenica, Roma, Canesi, 1964, pp. 99-124, su cui cfr. Michele Tondo, Gli esordi di Palumbo, nel cit. Le stagioni, pp. 12-19.
9) Nel cit. Oggi è sabato e domani è domenica, pp. 11-26.
10) La raccoltina è stata ripubblicata di recente a cura di S. Martelli, che la ha accompagnata con una puntuale introduzione: L'intoppo, Bari, Editrice Tipografica, 1993. L'estensore del presente profilo è stato tra i primi a interessarsene: Le ragioni morali del realismo di Palumbo, in "Letterature moderne", a. XII, n. 5-6, ottobre-dicembre 1962, pp. 627-636. Va però riconosciuto al Martelli il merito di aver dedicato allo scrittore appulo-ligure ricerche e analisi, a volte decisive, in varie sedi. Qui si citano almeno: una monografia, nella collana "Il castoro", Firenze, La Nuova Italia, 1979 e Sulla soglia della memoria, Salerno, Edisud, 1986, pp. 5-58; con certosina pazienza il Martelli ha anche ripescato e studiato filologicamente numerosi inediti, uno dei quali, A L 5 (Notte di Capodanno), reso noto in "Sudpuglia", anno X, n. 2, giugno 1984, pp. 47-98, cui segue Nota al testo, pp. 99-104.
11) Cfr. M. Tondo, art. cit., p. 17.
12) G. Corsinovi, Il tempo lungo della memoria. Spazio coscienziale e metarealismo narrativo nell'opera di Nino Palumbo, in "Le stagioni", cit., pp. 288-304; rileva, fra l'altro, che il genere del romanzo si pone per Palumbo "come il più complesso risultato di un universo narrativo dominato dagli elementi coscienziali e psicologici per i quali la crisi dell'uomo acquista validità fantastica e pregnanza artistica solo quando affonda nel tempo lungo".
13) Cfr. la ricognizione sociologica di G. Manacorda, Vent'anni di pazienza, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 51-74, e per una panoramica più vasta storico-tematica, A. Vallone, La condizione impiegatizia nel romanzo italiano contemporaneo. Antologia di testi letterari e critici, Napoli, Loffredo, 1974: si va da Vittorio Bersezio a Renzo Paris.
14) G. Manacorda, op. cit., p. 53.
15) Ruffo Chlodovskij, Il reato di Silio Tranifilo, Moskwa, 1959 e Il realismo di Nino Palumbo, ivi, 1963, citati da S. Martelli, nella monografia de "Il castoro", pp. 34 e 113.
16) L. Caretti, Vent'anni dopo, in N. P., Il giornale, Lugano, Edizioni Pantarei, 1975.
17) Ibidem. Non diversamente Michel David vede in Domenico Chessa "la figura del pazzo come rivelatore dell'alienazione degli integrati e come modello di una possibile contestazione", La psicanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1971, ed. accr.
18) G. Barberi Squarotti, L'esperienza del "Giornale" nella narrativa di Nino Palumbo, in "Misure critiche",fasc. cit., pp. 13-19.
19) G. Manacorda, op. cit., p. 68.
20) S. Martelli, monografia cit., p. 61.
21) Fra numerosi altri testi palumbiani merita una menzione particolare in proposito il racconto La mia università, nella cit. raccolta Oggi è sabato e domani è domenica, pp. 169-180. Ricordiamo qui, una volta per tutte, che la bibliografia critica sull'opera di Nino Palumbo è davvero strabocchevole, in relazione ai temi, alle strutture narrative, al linguaggio: v. Renzo Frattarolo, Ipotesi di lavoro per una bibliografia di Nino Palumbo, in Le stagioni, cit., pp. 348-363.
22) Pertinenti i rilievi di Silvana Folliero, Nino Palumbo e la realtà politico-letteraria degli anni '60, in Le stagioni, cit., pp. 127-132; alla Folliero si deve anche la prima monografia sul nostro scrittore, Invito alla lettura di Palumbo, Milano, Mursia, 1976.
23) E' da leggere il bel saggio di Anna Dolfi, Finalismo etico e società, in Le stagioni, cit., pp. 169-179: fra l'altro: "Il meridione è insomma un a priori biografico piuttosto che un a posteriori narrativo; un mondo dal quale Palumbo ha portato alcune coordinate essenziali (fissate in fatalismo, pessimismo, sfiducia nelle strutture statali e sociali, lacrimata rassegnazione), ma per costruire poi un grafico diverso, che ignora ogni dimensione corale, ogni atteggiamento politicamente contestativo, per limitarsi alla descrizione puntuale degli effetti dell'emarginazione, dell'ingiustizia, commentati più che dall'esterno (dal narratore) dall'interno, dall'ingenuo moralismo del personaggio, vittima e carnefice al tempo stesso del proprio isolamento e della propria sconfitta".
24) Interessanti le considerazioni di Heda Festini, Il sostrato filosofico di "Giocare di coda", in Le stagioni, cit., pp. 116-126, e di M. Abbate, Palumbo è prima di ogni altra cosa uno scrittore ironico, in "La Gazzetta del Mezzogiorno", 1 luglio 1967.
25) Le diverse interpretazioni affiorano in vari interventi; qui ci limitiamo a segnalarne soltanto alcuni, tra i più persuasivi: M. Tondo, Domanda marginale, in "L'Albero", n. 67, giugno 1982; E. Panareo, Domanda marginale, in "Contributi", I, n. 4, 1982; A. Granese, Struttura e personaggio nella narrativa dell'ultimo Palumbo, in Le stagioni, cit.; R. Pellecchia, Fenomenologia religiosa de "Il serpente malioso", ovvero il rapporto tra morale e religione in Palumbo, ivi; S. Martelli, Sulla soglia della memoria, cit., specialmente pp. 46-58; P. Sabbatino, Il punto di vista di Nino Palumbo, in "Misure critiche", fasc. cit.
26) G. Occhipinti, Due domande a Nino Palumbo, in "Cronorama", n. 14-15, agosto-ottobre 1978, pp. 57-58.
27) G. Lukàcs, Il significato attuale del realismo critico, trad. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1957, p. 54.
28) Con lo stesso metodo, col quale aveva esaminato Il giornale, lo studioso francese Michel David si addentra nell'analisi de Il serpente malioso, nell'articolato intervento "Osservazioni... ", in "Misure critiche", cit., pp. 21-48; interessante anche l'appendice delle Lettere di Nino Palumbo a Michel David, qui di seguito.


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