FRA LE "REMOTE TERRE" DI PIERO PELLEGRINO




Gino Pisaṇ



Il leccese Piero Pellegrino, nel suo libro poetico Remote terre, (Lecce, Manni, 1995), conferma una coerenza tematica e stilistica, pur variata per interna evoluzione, che dura fin dal 1964, anno in cui affidò alle stampe i frutti giovanili, ma non del tutto acerbi, della sua primordiale esperienza poetica, compiuta all'ombra del magistero bodiniano per timbri sospesi al confine fra ermetismo della parola e neorealismo dei temi, sicché, a fronte di una perizia compositiva assai sorprendente, per un giovane di soli vent'anni, si registrava, com'era naturale che fosse, un carattere manieristico, dipendente dal gusto e dallo spirito epocali (le prime liriche risalgono al 1962), l'uno e l'altro intrisi di umori tellurico-lunari, dove lo spazio mnestico e surreale della dimora salentina si copulava con archetipi mediterranei, risentiti più attraverso l'educazione letteraria che attraverso l'esperienza della vita.
Quella giovanile stagione si apriva, infatti, lungo il solco tracciato dal Bodini della Luna, quasi a significanza della perfetta adesione del neofita alla religione della terra domestica o della domus-donna, archetipo materno-edipico-lunare.
Questi caratteri della plaquette d'esordio (Litanie di S. Martino, 1964) possono essere facilmente esemplati da pochi scampoli di versi:

Arnesano è un paese
pigro, che percorri nel sapore del mosto. A sera
i contadini scendono la piazza
e non rincorre voci roche
d'una bettola l'uomo
di strada che conta i quintali
d'uva che raccoglierà domani

dove lo spazio minimo del paese ricorre a mo' di topos, se si pensi ad omologhe spazialità bodiniane. Oppure:

non fuma, non ha rossetto
a conta ma del Sud
ma innaffia cicorie e fiori
d'aiuola [ ... ],
tra la colonna e la palma
su cui ridono passeri.

Qui gli stereotipi quasimodiani e bodiniani si intersecano a sostegno della struttura complessiva del canto, ribaditi, poco oltre, da movenze esordiali come questa:

trascorre monotona in un paese
del Sud la sera nei bar
[ ... ] e le processioni d'uomini
e di cani; l'andirivieni a coppie
e le famiglie a festa la domenica.

Versi perfettamente à la page in quell'epoca di rivisitazioni meridionalistico-tardoermetiche, le quali provenivano da modelli ben noti al lettore, ossia da tutta una tradizione che, a partire dall'esemplarità prima maniera di un Quasimodo o un Gatto o un Sinisgalli, giunse più tardi al "secondo" Bodini e a Scotellaro, per attraversare, infine, buona parte della poesia pugliese. Ma, exactis temporibus, altre prospettive, altre vie s'aprirono alla poesia. E Piero Pellegrino seppe imboccarle, iniziando un processo di emancipazione che lo affrancava dalla maniera del gergo poetico e lo orientava verso riviere tutte sue, fatte di recuperi memoriali e popolate da numinosi fantasmi femminili, nei quali transitava quel suo primo amore domestico-materno, compiendosi, com'era giusto che fosse, l'oggetto del desiderio in figura di donna ideale e salvifica.
Di fatto, però, c'era già, nelle Litanie, il germe della successiva stagione poetica. Si legga, a riprova della costante tendenza di Pellegrino all'intimismo esistenziale fecondato dalla memoria evocante, Castro Marina:

Noi abitavamo sugli artigli
del mare e la notte
si accendeva di lampare
[...] Noi cantavamo sotto gli ulivi.
[...] Qui tirai la sciabica,
qui brancolai fra le radure, qui cacciai granchi
e meduse e insepolti
licheni a tinte
d'un candore da non dire.

oppure Così in questa pallida:

E non poter morire
in questa inestricabile scoperta
dell'esistere.

Erano, ancora, le prime prove realizzate "in un contesto di sincera sottomissione stilistica alla serietà della vita" (L. DE ROSA, Le parole povere, in "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 3/12/1967, p. 3), i primi tentativi tesi alla ricerca di un progetto poetico personale, autonomo dagli schemi precostituiti, affrancato dalla subalternità alla maniera dominante. E c'erano i segni, sia pure larvali, del futuro cammino: la presenza-assenza della donna apostrofata da un tu deittico opposto alla centralità dell'io, autoreferenzialità, scrive Donato Valli, "che ispira il sentimento di una assolutezza esistenziale [...] fuori dall'area del vitalismo filosofico [...] e la immette in quella atmosfera di dimidiata volontà che prelude a una condizione crepuscolare" (Introduzione a: Anemoni, Manni, 1992); l'indeterminatezza del tempo e dello spazio; le modulazioni elegiache di un tema ricorrente (l'eros), ma variato in rapporto all'occasione sentimentale che lo determina; la discrasia fra passato e presente, l'attrito fra sogno (memoria) e realtà (scrittura), la "psicologia" del paesaggio (vento, cielo, mare) semantico delle inesauste epperò compresse aspirazioni del cuore. Quest'ultimo elemento mi sembra il più suggestivo, sul piano degli accordi fra un dentro-fuori luogo, se rapportato a quella iniziale tendenza, poi superata, al descrittivismo esteriore.
Nei versi che esamineremo, il paesaggio è sempre quello salentino, ma fortemente interiorizzato e trasfigurato in uno spazio dell'anima unico e irripetibile, monadico, soggettivo. A fronte di codesta metamorfosi del dato reale, che esorcizza il facile bozzettismo e sua retorica idillico-sentimentale, è posta da Pellegrino "la forza simbolica della parola poetica" (Valli, ibidem) che assolutizza il contingente, l'empirico, l'usuale per proiettarlo in figura. Reagente, in questo processo, la memoria evocante. Meccanismo proustiano che tutto decontamina e sospende nella neutralità della poesia, dove il negativo (dolore, morte, solitudine, fuggevolezza dell'istante, angoscia esistenziale, privazione) si metabolizza, annullandosi, nel positivo (vis salvifica della Parola).
Questo percorso ha, però, una costante: il fantasma femminile di derivazione montaliana (es. La casa dei doganieri). La muliebrità della terra-madre si assolutizza, allora, nell'essenza neoplatonica di una donna-idea, con la quale il poeta instaura un colloquio ossimoricamente univoco, oserei dire neostilnovistico. La poesia nasce come dettato d'amore e il poeta ne materializza la voce nel tessuto morfematico, lessicale, semantico. Enunciativa, in tal senso, è la lirica che apre Per quell'antico privilegio (Bari, Adda, 1990), dove Pellegrino raccoglie i frutti, a lungo stagionati, del suo secondo tempo poetico (1964-1971):

Ora sei tu che mi parli
da una terra che non vive
se non nelle tue brevi parole [...]
E tu ridi
come se a nulla valga questo
silenzio che il tempo vorrebbe
disperdere in dura prova.

Incombente eppure reclusa in lontananze siderali e muta, la donna ci appare come ipostasi della giovinezza perduta. Il binomio felicità-dolore si riformula, nello spazio dell'esistenza, come sincronia di passato-presente, di sogno-realtà, di vita (assenza)-morte (presenza). Nella coincidenza di dette opposizioni concettuali, si dialettizzano voce e silenzio all'interno di un lasso breve, ossia nell'illuminazione del frammento. Esemplare, in questo senso, la lirica terza dell'Antico privilegio: "No, non dirmi il tuo dolore".
Dal confronto di questi versi con i precedenti di Litanie, è possibile osservare una nuova modulazione elegiaca: ai caratteri bodiniani, ai timbri di un neorealismo ermetico (la "terza via") sospeso fra nostalgia e denuncia, fra memoria ed impegno, si oppone, pur nella continuità dell'esperienza poetica, il nuovo canto di Pellegrino, che dalla giovanile stagione trapassa ad un tempo più adulto.
Anche lo spazio si dilata: non più il perimetro angusto di Arnesano, della piazza, del bar (topoi della lirica coeva), ma il mare, la scogliera, il cielo (si leggano, sempre nell'Antico privilegio, le liriche: Ambiguo silenzio; Ti chiesi allora; Ora non so, dove al mistero esistenziale fa eco il non-senso "delle cose che circondano il mare"; Altro ancora ho da dirti; Eccomi solo, in cui più scoperta è la funzione oracolare della donna: "Nel dolore dei tuoi anfratti / bianche mani, occhi / tesi nel silenzio che non muta. / E tu non sei che una cima / bianca che percuote / un identico cielo / tra cime che corrono quell'antica memoria").
Il tema dell'assenza è ormai indissolubilmente coeso a quello della memoria ("Una memoria è solo un passo / che scatena questa poesia", in Parlo a chi m'ascolta), organica alla metamorfosi del contingente, del concreto, nell'assoluto del simbolo, allestendosi, così, il terreno alla materia verbale e al momento salvifico della riflessione epilinguistica. Tutta in questa chiave risulta giocata la poesia di Anemoni (Manni, 1992) in cui si accentua un carattere già presente nell'Antico privilegio: la poetica dell'indeterminato, del remoto, dell'infinito, delle ricordanze.
Sul versante ideologico, la vita si prospetta come "una strada da compiere senza un attimo di tregua [ ... ]. Le immagini si adeguano all'idea, prefigurando nel poeta un destino di viandante [ ... ]. A interpretare questa particolare condizione, nulla di più adatto di un naturalismo simbolico che sta tra il passato e il presente (il vento), la concretezza e l'astrazione (il cielo), il quotidiano e l'eterno (la stagione), la luce e la notte (la sera), la memoria e il magma amorfo" (Valli).
Con Remote terre, Pellegrino ritorna all'elegia tout-court, ma irrobustita nei temi in grazia della riflessione esistenziale, del ripiegamento intimistico volto alla scoperta della propria identità di uomo ormai disilluso e incapace di trovare un senso alla vita che non sia quello di un inarrestabile, doloroso, fluire di forme nell'orto concluso della memoria. Questo tema era già comparso, in vero, nel poemetto o lunga elegia La voce chiara (Manni, 1993) che rappresenta una sorta di cerniera fra Anemoni e Remote terre:

la tua paura
è la traccia di un fantasma
che ti segue dovunque e ti cade
davanti come un sipario
raccolto dopo una commedia
che non ha più senso
se non quello di disperdere
una marea di ricordi.

Ora, in Remote terre, esso fa tutt'uno con il canto doloroso di una donna non più sollevata nelle astrali spazialità neoplatoniche, ma umanizzata nella concretezza di uno spazio reale, eppur sempre chimera, oracolo e nume. Come nella Voce chiara, in quest'ultima silloge poetica lo stile perde in musicalità e acquista in termini di pacatezza discorsiva, colloquiale, che evoca i toni smorzati ed "andanti" delle Occasioni montaliane, in particolare, di Dora Markus e della citata Casa dei doganieri. Pellegrino ne ripropone, ma con personale elaborazione stilistico-tematica, le suggestioni, nonché i motivi ideologici rivissuti dal di dentro, ossia assimilati, fin dal tempo di Litanie, alla propria originale esperienza d'esistere. Centrale, in questa luce, la sofferenza d'amore congiunta alla percezione di un quotidiano morire, mercé l'implacabile erosione dei giorni (L'amaro giuoco). Questo mi sembra il motivo dominante, esibito nella lirica esordiale, accanto al tema della giovinezza perduta, ma ritrovata nell'incantesimo della memoria:

rivive l'uomo che ti vide
adolescente sulla soglia
della primavera
che copula passato e futuro
guarderemo insieme la spuma del mare e mangeremo
i ricci sulla scogliera insonne.
Tu riderai, tu correrai
sull'asfalto per cercare un rifugio.

Nella costante ricerca del varco si consuma infeconda la vita, non restano che anfiteatri di stelle pensili nelle "notti d'agosto" sulle "remote terre / ansiose di rutilanti piogge", dove tutto "il domani" è "morto in una stagione / malsana abbandonata / anche dai rondoni fuggiaschi".
La noia, lo spleen, il senso ossessivo della morte vissuta ogni giorno ("Mi dicesti una sera dopo l'altra / che tutto in te moriva") sotto la specie di stagioni defunte, il prossimo "tramonto della vita", il dileguare dei sogni "tra le conchiglie bianche / e avvinte ai cespugli secchi", le esauste vigilie notturne (Qualche rumore), la vanità dei sogni scuciti da cantilene stagnanti, lo scenario salentino (non più bodiniano nella evocazione, ma psicologizzato nelle sue componenti oggettive di scabra, rocciosa, sofferente arsura, semantica della situazione interiore del poeta) connotano la prima sezione del libro (Così finì tutto).
La seconda (Una piccola strada) sostituisce, al paesaggio marittimo-rurale, quello urbano-barocco di una "città ignota, [Lecce], sorvolata da giostre di rondoni e di colombi cabranti / nell'azzurro fosforescente del cielo", dove "il tempo e l'abbandono" offuscano i segni della vita. E' la dimora vitale ritrovata come luogo dell'esilio:

E qui vivo
guardando un anfiteatro
ed una chiesa barocca
e [ ... ] sogno una giovinezza
perduta in un cammino
senza più respiro.

Prossime, più di altre, ai citati archetipi sono le liriche che costituiscono la sezione Le speranze del domani, dove il poeta apostrofa la sua donna, variando lo "strapiombo sulla scogliera" della Casa dei doganieri, "desolata dalla sera", nel seguente attacco: "Fu una breve sera / quando scegliesti la strada / della scogliera con i muri / a secco", ma poi svolgendo con autonomia il tema della lontananza fisica e spaziale da un luogo-sacrario di memorie morte alla speranza. Quasi tutte le liriche di questa tranche sortiscono dalle occasioni (es. Abat jour; Campitello Matese; La Marmolada) o dal vagheggiamento della donna-chimera che mal cela una "presenza" reale ("so di te tutto e nulla [ ... ]. / Sei la donna / del mistero", oppure "Io non so / chi sei nei miei ritorni"), mentre lo scenario veterosalentino ricompare (Ferragosto) nei segni iconici di una terra remota, ma contraffatta nella sua sostanza animica "dal moderni trattori d'una civiltà / che continua a mietere successi", per poi alternarsi con quello della "città [Lecce] / dalle molteplici vie del centro", in cui tutto è inerte, assonanti "il cane / che abbaia e le lamine contorte / di barattoli calciati" in un "assurdo morire delle cose".
Più marcati si fanno i toni crepuscolari attraverso i quali si esprime il "male di vivere", il languore esistenziale, il taedium vitae: ne sono semantici il "cornicione freddo", il "cerchio [ ... ] arido" del cielo, le "cantilene di massi ammonticchiati" e marcescenti fra "la gramigna", "archi e colonne" dell'anfiteatro cadenti ed erosi dalle piogge, "il cielo plumbeo", cui fanno pendant i segni remoti della vita o dell'altrove (i "colori grigioverdi / dei muri a secco e degli ulivi") possibili solo all'estremità di un "confine celeste / che si spezza in un lampo / misterioso", precipite da un "cielo imperscrutabile e muto" (Colombi). Il sentimento del tempo come malattia mortale ("le stagioni / morte in un passato" esente "dal perdono della morte"), candori sepolcrali ("la parete / bianca del Sedile"), essenze stagnanti ("il morto / odore di libeccio"), stanchezza di uomini e di cose ("barche arenate", "meriggio inoltrato", "tutto è in un'attesa mortale", "tacciono perfino le cicale", "malinconia", "tristezza", "ristagno frenetico e mortale", Ferragosto) sono le coordinate ideologiche che tracciano il campo semantico dell'assenza (es. Dialogo; Melodie, ecc.). Tutta la sezione titolata Ferragosto è intrisa di atmosfere neoromantiche che richiamano vagamente certe liriche di Bécquer. La presenza-assenza della donna sospesa fra abisso e cielo, la reciprocità del binomio vita-morte, l'ambiguità esistenziale fondata sulla scepsi sortita dal conflitto fra impulso alla vita e inerzia biologica, fra élan vital e gouffre, fra ennui e idéal, mi sembrano i tratti più significativi e più marcati, per modernità e risentimento intimistico, dell'intera raccolta. Qui la poesia di Pellegrino non ha più nulla del bodinismo prima maniera. Qui il canzoniere del nostro poeta si subordina d'istinto alle voci europee immettendo, però, in uno scenario sentimentale già noto (Montale, Maeterlinck, il citato Bécquer per la "donna-poesia" uno scenario reale, qual è quello offerto dalla terra salentina, luogo dell'anima e, perciò, remota da ogni realismo "utilitaristico", donde mi sembra possibile riferire anche a questi versi la formula di Rodriguez Correa, ossia "realismo ideal". Il fantasma muliebre è conativo o, se si vuole, è la spora genetica di tutto il percorso lirico di Pellegrino. A latere, il mistero della vita e della morte si simbolizza, fondendosi i due opposti nella spazialità infinita del mare. Per esempio, basti un frammento estirpato dalla penultima sezione (L'enigma):

Dalla fioriera i gerani
si gettano verso il mare
liscio come una lama
di coltello su cui le ultime
luci della scogliera s'incontrano
con la luna frammezzata da nubi che dileguano
infino alla muraglia
del porticciolo in cui dormono
le barche e i panfili immoti.

Su questa lunghezza d'onda: Residence S. Nicola, Speranza, L'enigma, L' "Argentiera", Sembianze. Sezione organica per temi, toni, figure legate alla solarità mediterranea di acque e terre.
Chiude il canzoniere un mannello di liriche raccolte sotto il titolo: Il tuo viso. Temi dominanti: Amore e Morte. Ma nulla di stereotipato. Tutto è risolto nel peristilio di una originale coerenza tematica e stilistica, sicché restano i caratteri primigeni di questa poesia: dai temi allo stile. Quest'ultimo sempre più discorsivo intimistico colloquiale.
Ma resta, soprattutto, il disagio di chi "il male di vivere" ha incontrato e affida alla muliebrità della poesia una funzione di riscatto, un progetto di speranza.


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