LA NARRATIVA DI GINO DE SANCTIS




Lavinia Montillo



E' alquanto difficile tracciare un profilo biografico e professionale di Gino de Sanctis; egli, infatti, appartiene a quella bene individuata pattuglia di giornalisti e scrittori che operarono dal primo al secondo dopoguerra fino ai decenni post-bellici della guerra fredda.
Gino de Sanctis nasce a Lecce il 20 novembre 1912 da Isabella Prati e Brizio de Sanctis; nel 1926 si trasferisce definitivamente a Roma insieme con la famiglia. Si laurea presso l'Università La Sapienza in giurisprudenza nel 1937 e, tre anni dopo, in scienze politiche.
Parte volontario come ufficiale di fanteria nella guerra d'Etiopia e, mentre è impegnato sul fronte, viene pubblicato nel 1936, dall'Unione Editoriale d'Italia, il suo primo libro, intitolato La nostra tribù ed altri racconti. Il suo secondo libro, La mia Affica - Storie di uomini e di bestie, fu pubblicato da Mondadori nel 1938 e contiene brani che de Sanctis inviava alla "Gazzetta del Mezzogiorno" dal continente africano. Il successo di queste due opere fece sì che si aprissero per lui le porte de "Il Messaggero", ma ben presto perse il posto al giornale a causa del suo nuovo impegno politico avverso al regime fascista.
Durante la seconda guerra mondiale combatté nelle spedizioni in Albania e in Grecia e, sul fronte italiano, al fianco della Quinta Armata Americana e dell'Ottava Britannica. Nel 1944 collaborò con i partigiani alla guerra di liberazione in Val Padana e, da questa sua esperienza, con lo pseudonimo di Partisan, scrisse un racconto intitolato Due litri di benzina, che in quel periodo circolò segretamente e il quale, in seguito, entrò a far parte de Il violino della Quinta Armata, edito da Feltrinelli nel 1961. Nel 1944 il Comando Alleato lo destina a dirigere "Il Giornale di Salerno", di grande rilevanza dal punto di vista storico in quanto risulta essere il primo giornale libero all'indomani della caduta del regime fascista. Dopo di che diresse a Milano "La Patria", giornale dell'Esercito, "Il Giornale del Mattino" a Roma, "Il Giornale di Napoli" e "Il Risorgimento". Tuttavia, l'esperienza giornalistica che l'autore salentino considera la più importante della sua carriera è la creazione della rivista mensile "Mercurio" insieme ad Alba de Cespedes; egli ne ricoprì il ruolo di redattore capo dal 1944 al 1947.
Terminato il lavoro di redattore capo a "Mercurio", de Sanctis si dedicò completamente alla professione giornalistica, nella veste di inviato speciale de "Il Messaggero". Grazie ai suoi innumerevoli viaggi, egli diventò testimone scrupoloso e sensibile di alcuni tra i più significativi avvenimenti storici dell'ultimo trentennio; dalle pagine del quotidiano romano dell'epoca, si può leggere dei suoi reportages dalla Germania, attraverso i quali fu possibile ricostruire la rete della resistenza tedesca, quelli dall'Australia, dalla Corea, dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla guerra di Suez. Contemporaneamente assecondò i suoi molteplici interessi scrivendo sceneggiature cinematografiche, dirigendo il quindicinale politico "Europa Libera", facendo parte del gruppo direzionale de "La Fiera Letteraria", quando il settimanale riprese le pubblicazioni nel 1971. Firmò degli articoli di terza pagina, con scadenza più o meno fissa, su "Il Corriere d'Informazione", "Il Resto del Carlino", "Il Gazzettino di Venezia" e sui settimanali "Oggi" e "L'Europeo".
Nonostante l'attività di inviato speciale e gli altri interessi lo assorbissero per buona parte del tempo, egli, non dimenticando l'amore per la narrativa, pubblicò altri quattro libri significativi per la sua carriera di scrittore: Viaggio di ritorno (Roma, Mediterranea, 1948), unico vero romanzo della produzione desanctisiana, con cui vinse il "Premio Salento" in quello stesso anno, Regina di cenere (Bologna, Cappelli, 1965), che raccoglie alcuni dei suoi migliori elzeviri, Migliaia di chilometri (Milano, Ceschina, 1958), che ci introduce alle opere della maturità di de Sanctis narratore, Il minimo d'ombra (Milano, Rizzoli, 1968), viaggio nella memoria in un'Africa magica e selvaggia, ed infine la sua ultima fatica letteraria, L'Augusta e i clienti (Milano, Pari, 1976). La sua attività narrativa cesserà tre anni dopo con la pubblicazione de La congiura di San Michele, raccolta di cronache apparse a puntate sul settimanale "Oggi" nell'agosto 1947.
Le sue doti di narratore e di giornalista gli sono valse premi di caratura nazionale come il "Premio Salento" nel 1948, il "Campiello" nel 1967, l' "Aspromonte" nel 1968, il "Selezione Strega" nel 1967, il "Marzotto", il "Cavarelli", ed infine il "De Gasperi" per il giornalismo nel 1966. Attualmente de Sanctis, dopo un'esistenza avventurosa e travagliata, vive nella sua casa romana assieme all'amata consorte Anna, a cui è legato da oltre quarant'anni.
Molto spesso è stato chiesto a de Sanctis se esista un rapporto tra il narratore e il giornalista e in che modo una delle due figure possa influenzare l'altra; egli risolve questa annosa querelle con un giudizio ad personam, affermando che le due professioni non sono affatto legate tra loro poiché l'essere giornalista non può suggestionare l'attività di narratore più di quanto possa farlo un'altra qualsiasi professione: è un altezzoso errore dei chierici della letteratura pura considerare il giornalismo un ostacolo per il narratore. Eppure non si può fare a meno di osservare che buona parte della produzione desanctisiana, tanto nel temi quanto nella lingua e nello stile, sia stata condizionata dalla sua attività di inviato speciale per "Il Messaggero".
De Sanctis ha sempre cercato di affrancare la sua scrittura da mode e contaminazioni di stile per centrare un unico obiettivo: dar voce a ciò che è vero, esiste e dura perennemente. Sin dalla sua prima opera ci appare impegnato a concretizzare una prosa priva di orpelli e di bizantinismi, essenziale, stringata, quasi necessaria, mai però arida, ma pronta ad assecondare le volute dell'animo. Come uomo e come narratore si è sempre allontanato da ogni tendenza e ogni movimento letterario perché convinto che l'uomo contemporaneo sia così permeato fino alle più intime fibre dalle suggestioni del suo tempo, da non potersi permettere il lusso di seguire mode e atteggiamenti, se mai deve ricercare in se stesso un'originalità di pensiero che si tramuti in linguaggio. Peregrinando in ogni parte del mondo, de Sanctis ha avuto modo di scandagliare e conoscere a fondo l'umanità tutta giungendo alla conclusione che, al di là delle distanze che separano popoli lontanissimi per usi, costumi e cultura, le persone si assomigliano più di quanto non si immagini, perché i sentimenti e le emozioni sono vissuti ovunque, e ovunque allo stesso modo.
Questo giornalista ha il merito di essere stato tra i primi testimoni fedeli e partecipi degli avvenimenti che macchiarono di sangue il nostro ultimo cinquantennio. Insisto sugli aggettivi fedele e partecipe perché non tutti i cronisti e gli intellettuali del tempo riuscirono a valutare quegli anni con l'imparzialità e la pietà che richiedevano. I racconti nati da esperienze di viaggio, che facevano parte da tempo della tradizione narrativa americana, inglese e francese, hanno faticato a trovare una loro collocazione nel panorama letterario italiano; così de Sanctis ha dovuto combattere non poco per ottenere che le sue opere fossero considerate nell'autonomia del genere a cui appartengono, senza sentirsi affibbiare il titolo di "scrittore improprio". Oltre ad essere uscito dagli schemi tradizionali della narrazione, egli, in realtà, contraddicendo palesemente le sue affermazioni, si lascia trascinare dalle esperienze della sua professione donandoci pagine di intensa emozione e contribuendo in maniera determinante alla sprovincializzazione della letteratura italiana.
Se è noto che assolvere ai compiti di scrittore e giornalista con coscienza ed onestà d'intenti e fare cultura, diventando un divulgatore della stessa, siano mete difficili da raggiungere, tutto ciò deve essere stato ancora più arduo per de Sanctis che ha operato in un periodo caratterizzato da forti contrasti ideologici, rimanendo costantemente un uomo non sospetto di obbedienze culturali e lontano da ogni ideologia di partito. Secondo de Sanctis, l'intellettuale è colui che dà una vera impronta alla sua epoca, facendosi portavoce di civiltà e di cultura poiché il lavoro del l'intellettuale si annulla solo quando diventa strumento della dittatura o del totalitarismo. Egli ha lavorato sorretto dalla convinzione che:

"il vero progresso non è cieco destino ma diuturna e faticosa conquista di un equilibrio, di una morale, di una volontà intelligente che di volta in volta ci salvi dalle aberrazioni di quella cultura che intende tradurre i sogni in schemi politici. L'uomo integrale è lo schema, ogni altro schema che lo proponga come oggetto e non come soggetto della storia, è una gabbia".

Le opere giovanili
L'attività narrativa di de Sanctis inizia nel 1936 con la pubblicazione de La nostra tribù ed altri racconti. L'opera, nata sotto la spinta emozionale della perdita prematura del fratello maggiore Giovanni, suscitò a posteriori nel suo autore dei sentimenti contrastanti. Infatti egli ha, con La nostra tribù in particolare, e più in generale con tutta la sua iniziale produzione, un rapporto piuttosto conflittuale. Il nostro considera il libro poco personale, troppo orecchiato sulle letture di Hemingway e di Kipling, in poche parole nient'altro che lo sfogo di un giovane che si apre alla vita.
L'opera è l'espressione più pura ed emblematica delle passioni che si agitavano nel cuori degli italiani al culmine del potere del regime fascista, in piena politica imperialista. Erano quelli gli anni del trionfo dell'italianismo e dell'autarchia culturale imposti dalla dittatura fascista, di un linguaggio e di un apparato scenografico che si rifacevano alla classicità romana, delle sterili polemiche fra Strapaese e Stracittà. La presentazione del libro riecheggia del tono enfatico ed altisonante della retorica di regime in totale contrasto con l'uomo e lo scrittore che de Sanctis sarebbe poi diventato.
La nostra tribù è costituito da sei racconti; il libro prende il titolo dal primo di essi il quale, tra tutti, risulta essere il più lungo e il più interessante. In questo racconto l'autore ricorda la sua infanzia leccese a Palazzo Prati, un edificio situato nel cuore della città antica.
Prendendo spunto dall'esperienza personale, descritta in modo scarno e semplice, senza indulgere in facili sentimentalismi, de Sanctis esalta i valori di Patria, di Famiglia, di Onore, di Audacia militare, in sintonia con l'ideologia fascista. L'ottimismo che si legge in queste pagine è, però, soltanto effimero; serpeggiano, dalle parole di de Sanctis, una malinconia e un'inquietudine che stonano vistosamente con gli entusiasmi del regime. C'è da sottolineare, ne La nostra tribù, la presenza di uno dei temi più ricorrenti nella futura prosa desanctisiana: un gran senso della natura descritta non con spirito idilliaco e letterario, ma concreta, fatta di elementi reali, la terra nella quale il giovane autore è nato e cresciuto, tutta densa di bellezza e di mitologia.
All'avventura italiana in Africa è dedicata La mia Africa - Storie di uomini e di bestie, libro edito da Mondadori nel 1939. Questa raccolta di racconti è suddivisa in due parti: nella prima si narrano storie di vita africana ed esperienze vissute dall'autore con il contingente militare italiano in Somalia; nella seconda, gli animali che vivono le savane e le foreste diventano i protagonisti principali di favole inventate da de Sanctis. L'intento con cui La mia Africa fu scritto si evince dalla lettura di alcuni brani della premessa:

"Chi c'è stato ha tanto da raccontare. Chi non c'è stato ha tanta voglia di ascoltare. Così è nato questo libro. Più che un libro è una serie di appunti di impressioni, una raccolta di favole che ho immaginato durante le lunghe ore di marcia sotto il cielo stellato o nella gloria del sole africano [...]" (1).

Ancora una volta, le premesse dei suoi libri si rivelano illuminanti per chiunque voglia capire lo spirito che li pervade. Se i recensori del tempo avessero prestato maggiore attenzione non solo alla premessa, ma a tutta l'opera, liberandosi dai retaggi politico-culturali dell'epoca, non avrebbero commesso l'errore di ascrivere La mia Africa tra le opere intenzionate a celebrare l'imperialismo fascista. Anzi, è proprio a partire da questo momento che comincia ad incrinarsi il rapporto tra de Sanctis ed il regime: infatti ne La mia Africa l'autore contribuirà, anche se inconsapevolmente, alla diffusione di un neorealismo ante litteram, sia su un piano linguistico, sia su un piano ideologico.
Il sentore che egli, come tanti italiani, fosse stato tradito in molte, troppe cose, è evidenziato da un malcelato rancore verso lo strapotere colonialista ed imperialista europeo. Il primo racconto, dal titolo Reticolati, è una lucida nonché sconsolata riflessione del Nostro sulla situazione politica del Vecchio Continente:

"[ ... ] nella vecchia decrepita Europa, viluppi inestricabili di reticolati avvolgono i cuori, i cervelli, le coscienze e [ ... ] gli egoismi si sono barricati dietro fittissimi reticolati fatti di misconoscenza, di ignoranza, di avidità, di follia, di tradimento [...]" (2).

De Sanctis invoca una Giustizia che riesca a spezzare quei reticolati:

"[ ... ] una Giustizia urge. O verrà dagli spiriti pacificati, dalle coscienze ravvedute o verrà, tremenda, la Giustizia delle baionette, delle mitragliatrici, delle 3 bombe e dei moschetti" (3)

Questa Giustizia, tanto acclamata, si sarebbe scatenata di lì a poco, con il suo carico di tragica violenza, scuotendo gli animi di tutti, a lungo intorpiditi da ideologie assurde e suicide.
Ma non solo simili pensieri affollavano la mente di de Sanctis; la Somalia, dal fascino indomito, lo aveva irretito, soggiogandolo con la bellezza della flora e la colorata moltitudine della fauna; da quell'istante sarà affetto da un "mal d'Africa" che lo accompagnerà per il resto della sua vita. Il suo amore per l'Africa non si esaurisce, però, nell'ammirazione estatica dei paesaggi; egli vuole penetrare questo misterioso continente fin nella più intima realtà, per sentirsi parte integrante di esso, scevro dal paternalismo e dalla superiorità tipici della mentalità occidentale, guardando a queste genti con grandissimo rispetto. Inoltre l'Africa è, ancora oggi, uno dei pochi continenti in cui la natura ha il sopravvento sugli uomini; solo qui, afferma de Sanctis, si riesce a creare un connubio profondo tra uomini ed animali, solo in Africa la natura confonde la sua esistenza con quella degli esseri umani, affinché si possa superare la profonda incomprensione che li divide, in un'armonia arcana e fuori dal tempo: era quindi ovvio che dedicasse tutta la seconda parte del libro al grandioso spettacolo naturale africano.
Dopo aver scritto due libri di racconti, de Sanctis si cimenta nel romanzo di più ampio respiro; nel 1948 pubblica a Roma, per la casa editrice Mediterranea, Viaggio di ritorno. Il romanzo, oltre che un discreto successo di pubblico, ebbe una vasta eco presso la critica: infatti, fu ammesso alla finale del Premio Strega e del Premio Viareggio e vinse, nel 1948, il Premio Salento per "l'autore che avesse scritto il primo romanzo". Anche questo libro, come i due precedenti, prende spunto dall'esperienza fascista ma, a differenza dei primi che erano ambientati durante il trionfo del regime, Viaggio di ritorno esprime la delusione per i sogni di gloria infranti e per l'ineluttabile caduta degli ideali fascisti.
Il romanzo narra la storia di un gruppo di coloni italiani i quali, visto naufragare il desiderio di rifarsi una vita in Africa, ritornano a malincuore in patria. Il loro viaggio, però, sarà tutt'altro che sereno; la traversata si presenta irta di ostacoli, quasi a voler complicare la già difficile situazione di questo gruppo di sventurati. Fra essi, sul cargo Caterina Yoris, spicca il medico Giacomo Dalla Piccola. Tra quest'uomo schivo, raffinato, un po' malinconico, e il capitano del cargo, un vecchio lupo di mare di origine greca, duro e riservato, nasce un'intesa immediata che li porta a confidarsi l'un l'altro. Purtroppo il destino stava preparando per il dottor Dalla Piccola un'amara sorpresa: come un fantasma tornato dal passato, sul Caterina Yoris gli appare Lia, la moglie perduta e mai dimenticata. L'incontro tra i due è descritto da de Sanctis in modo struggente:

""Lia", disse a mezza voce e gli parve di aver gridato. La donna si voltò di scatto, sgomenta. Si guardò attorno. Fece un passo verso di lui, con le braccia tese, e le tremavano le mani. "Tu, Giacomo, tu... ". Giacomo dimenticò ogni proposito: disperatamente se la strinse al petto, e cercava di baciarla, ma ella gli si teneva avvinghiata, la testa premuta contro la spalla, in un fremito convulso" (4).

Nonostante il tempo trascorso, i suoi sentimenti non erano affatto cambiati, anzi erano più vivi che mai. Ma Dalla Piccola doveva arrendersi alla realtà: Lia non gli apparteneva, la donna che aveva sempre amato era legata a Walter Lucenti, rude, violento, sicuro di sé, una personalità agli antipodi rispetto a quella di Giacomo. Il viaggio che per il medico già non si apriva sotto i migliori auspici, cominciò, dopo l'incontro con Lia, a sembrargli insostenibile; l'unica persona capace di comprendere il suo travaglio interiore era il capitano Curdis. La tensione tra Giacomo e Walter cresce di giorno in giorno fino ad esplodere nel momento in cui Giacomo vedrà Lia selvaggiamente picchiata dal suo antagonista. Egli interverrà in suo aiuto, ma ne avrà la peggio; Walter lo minaccia addirittura di morte davanti a tutti, ma ciò che lo turba maggiormente è che i passeggeri della nave conoscano la sua storia e ne parlino sogghignando. Inoltre, lo scontro con Walter gli ha provato, una volta per tutte, che Lia ormai prova nei suoi confronti solo sentimenti di pietà.
La traversata prosegue tra disagi, privazioni, tentati ammutinamenti e una terribile tempesta nel pieno del Mar Egeo. E proprio quando il Caterina Yoris sta per raggiungere la meta tanto agognata, Giacomo, in preda alla disperazione, consapevole della nullità della sua esistenza, decide di farla finita. Il suo testamento spirituale, tramite una lettera, viene indirizzato al comandante Curdis, il quale, sgomento per l'estremo gesto compiuto dall'amico, decide quasi d'istinto di vendicare la sua inutile scomparsa accusando Walter Lucenti dell'omicidio di Dalla Piccola, ben sapendo che è Lucenti la causa indiretta di quel dramma.
Nella narrazione lucida, rapidissima, senza ristagni e viva, pervasa di un forte sapore di salso marino, non è descritta soltanto la nostalgia dell'Africa abbandonata e la prostrazione degli italiani delusi nei loro sogni di colonizzazione, ma appare un uomo, il protagonista, impegnato soprattutto a discolparsi di fronte a un'umanità ottusa e chiusa nei suoi egoismi, del delitto di essere nato italiano, vittima, se pur consapevole, di un regime fallimentare. La tragedia dei personaggi del romanzo è la tragedia di tutti; non più le conseguenze di una guerra, ma il peso di una colpa che i popoli portarono ignari. Ed è verso una luce di comprensione e di amore che tende e si conclude il dramma di Giacomo, della moglie infedele ma umana, della giovinezza, disillusa e tradita nei suoi sogni. Un sentimento di profonda pietà aleggia nel romanzo, una pietas cristiana che sa di riscatto e di conquista della pace specialmente per la triste vicenda di Giacomo.
Presentando Il violino della Quinta Armata, mi sembra giusto riportare le parole di una recensione di Giuseppe Neri scritta per "Europa Libera" nel 1961:

Quanto di quello spirito che tenne uniti gli animi nei giorni della Resistenza, quanta di quella volontà di rinnovamento che alimentava le speranze di gran parte degli italiani al tempo della Liberazione e che costituiva il naturale e necessario incentivo alla lotta, è rimasto negli animi a distanza di non molti anni da quegli avvenimenti?
Quanto di quel patrimonio spirituale acquisito mediante il sacrificio di molti e lo sforzo e la abnegazione di tutti e che fu una delle conquiste più importanti e grandiose di quegli anni pieni di angosciosa e fiduciosa speranza, di dolore e di alacre fervore, è reperibile nell'Italia '61? Basta dare soltanto delle fugaci occhiate alla realtà che ci circonda, alla società in cui viviamo, per accorgerci che per molti - per troppi - quel periodo, durante il quale il popolo italiano seppe riscattarsi dall'ignominiosa vergogna fascista, ha perduto il suo fascino (5).

Se, per Giuseppe Neri, Il violino della Quinta Armata poté passare inosservato nel 1961, anno di pubblicazione dell'opera, oggi, a cinquant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, con il crollo delle ideologie comuniste e con la rivisitazione sotto certi aspetti per nulla edificante, di una pagina di storia italiana ancora tutta da scrivere, la lettura di questo libro nella genuinità degli intenti ripropone alcuni temi che, pur se trattati già da altri scrittori, conservano intatti la loro efficacia.
Il violino della Quinta Armata, grazie alla sua crudezza narrativa, ha la capacità di scuotere le coscienze di chi, al di là di ogni sterile polemica e contrapposizione politica, ha dimenticato o non ha conosciuto quegli anni apocalittici e tenebrosi, "quando l'Europa tentava di uccidere l'Europa" (6).

Il libro, che si compone di sei racconti, alcuni dei quali comparvero per la prima volta sulle colonne di "Europa Libera", la rivista curata dallo stesso de Sanctis, conserva una sua involontaria intrinseca unità per l'identica atmosfera, per l'identico clima, per l'identica tensione che in esso si riscontra. Ed è grazie a tutti questi motivi che Il violino della Quinta Armata può essere annoverato, a pieno diritto, un libro appartenente alla letteratura neorealista e, soprattutto, a quel delicato momento definito da Maria Corti di "passaggio dalla preistoria alla storia del neorealismo" nel quale alcuni scrittori, fossero o no dei potenziali neorealisti, si incontrarono con i modelli della scrittura clandestina e memorialistica. De Sanctis fu tra coloro che avvertirono l'impulso di mettere su carta le esperienze eccezionali di quell'esaltante periodo tramite strutture compositive tipiche dei fogli clandestini: resoconti compromessi col racconto, racconti brevi di eventi veri, pagine di diario (7). La Corti considera il racconto di de Sanctis Tre piani di scale uno dei testi più rappresentativi della narrativa neorealistica:

Tre piani di scale, autore Partisan, [ ... ] inizia con un topos della memorialistica resistenziale: "Il fatto è vero. Zeta potrebbe raccontarlo lui, ma non vuole. Bisogna allora che lo narri io" (8).

Il primo racconto, intitolato Il volto del nemico, è sicuramente il più importante e originale del libro, narra la lotta cruenta per la sopravvivenza di un gruppo di dieci persone, tra italiani e tedeschi, che si ritrovano ostaggi del mare su un piccolo curley in seguito all'affondamento di una nave militare. Il volto del nemico, per i colpi di scena che riserva e per le pagine di vibrante drammaticità che contiene, si legge con il fiato sospeso, in un crescendo continuo di emozioni e crudeltà le quali precipitano, senza commenti da parte dell'autore, nella tragica soluzione finale. In Due litri di benzina, de Sanctis è il testimone delle imprese spavalde e impietose di un gruppo di tedeschi in una zona della Russia i quali, costretti a battere in ritirata, per una insensata vendetta, cospargono di benzina una giovane russa e la ardono viva, mentre ne I fiori gialli della primavera e Tre piani di scale, ci narra, con accenti di composta e antiretorica umanità, alcuni episodi di lotta partigiana dove chiunque era disposto a perdere la vita e a collaborare nell'ombra pur di poter riscattare l'Italia da quell'infame condizione.
Il violino della Quinta Armata, che racchiude pagine di grande commozione, si chiude su un tono di fiduciosa speranza, come sempre accade nei libri di de Sanctis. Quelle note che escono magicamente in un oscuro ricovero napoletano, durante i bombardamenti, dal violino di Mr. Spalding, il grande concertista americano che decise di partecipare all'ultimo conflitto mondiale

"mosso da un amore per l'Europa pari all'esecrazione per l'hitlerismo [ ... ], sono una preghiera alla bellezza perché scendesse sul mondo, un canto di struggente amore su un'umanità deforme d'odio e di miseria" (9):

in definitiva rappresentano il simbolo della civiltà che vince sulla barbarie della guerra, l'amore che trionfa sull'odio.

(1 -continua)

Stazione di posta (1993)

Anima mia,
mi scuso di somigliarti a un'ombra;
ma l'essere ha bisogno di qualcuno
che sia fuori di lui, anche uno specchio.
So bene che tu sei quel passerotto
che s'agita nel nido della mente;
le tue piume sono sparse nel sangue
rosso e azzurro, e via pel labirinto
dei nervi e nella larga spugna della pelle.
Lo so che sei solo stazione di posta
selle, capezze, briglie, ed osteria,
forse la giovane ostessa chioma rossa
che ti prepara la minestra calda
e ti sprimaccia gioiosa il pagliericcio
qualche volta s'arrende fra le biade
o nel frusciante rumore del granturco,
e prima di mostrarti brune carni
la lucerna la spegne, ché le stelle
facciano luce fioca nel presepe.
O, stazione di posta, ti conosco;
t'avviavo corsieri di domande,
e qualche volta (erano tempi, quelli!)
m'avviavi destrieri veloci.
Altre volte smarrivano la strada
i tuoi cavalli, persi alle paludi
agli stagni, ai sentieri, agli acquitrini…
O, quante volte li ho aspettati invano:
sola risposta il nulla ed il silenzio.
O, stazione di posta, ti conosco,
conosco i tuoi stanzoni abbandonati
i tuoi bauli malchiusi, i tanti libri
che amavo, e adesso quasi sempre leggo
la parola che li chiude, la fine.
E l'altro camerone, alla bellezza
del mondo dedicato; ormai la muffa
verde alle cornici ingiallite consuma
le immagini preziose che non hanno
destrieri che galoppino alla fonte.
Il postiglione, a mantello spiegato
nel vento, alza la frusta, invano:
non c'è più la risposta, automedonte:
solo la frusta del niente m'aspetta.

Note

1) G. DE SANCTIS, La mia Africa, Milano, Mondadori, 1939, p. 15. Preciso che, a tutt'oggi, si sta lavorando ad una catalogazione completa della bibliografia critica di Gino de Sanctis, costituita essenzialmente da recensioni apparse su riviste e quotidiani, alcune delle quali portano la prestigiosa firma di Pancrazi, Titta Rosa, Personè.
2) Ivi, p. 26.
3) Ivi, p. 28.
4) G. DE SANCTIS, Viaggio di ritorno, Roma, Mediterranea, 1948, p. 48.
5) G. NERI, Il Violino della Quinta Armata, in "Europa Libera ", 10 febbraio 1961, p. 3.
6) G. DE SANCTIS, Il violino della Quinta Armata, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 154.
7) Cfr. M. CORTI, Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, p. 47.
8) Ivi, p. 48.
9) G. DE SANCTIS, Il violino della Quinta Armata, op. cit., pp. 153, 158.


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