IL SALENTO E L'UNIVERSITA'




Mario Marti



Autorità, Signori e Signore, Cari amici e colleghi,
Mi rendo conto che probabilmente siete già un po' stanchi, e forse anche un po' annoiati; e perciò vi assicuro che ho tagliato dalla mia prolusione tutto quanto potevo già tagliare. Tuttavia, almeno una mezzoretta dovete sopportarmi; nella speranza, mi illudo non vana, che l'iniziale sopportazione possa via via tramutarsi in curiosità, in interesse e - mi si passi l'esagerazione - perfino in entusiasmo. Dunque, a me è stato attribuito l'onore di tenere la prolusione per l'inaugurazione del XLI anno accademico, 1996-1997, nel quadro di una serie di manifestazioni, volte a celebrare i primi compiuti quarant'anni di vita dell'Istituzione. Ritengo che la designazione sia dovuta principalmente all'affettuosa benevolenza, della quale mi sento sempre fortemente gratificato qui nella mia Università; ma sia dovuta anche al fatto che - gira e rigira - mi trovo ad essere uno dei pochi docenti, se non il solo, ad aver vissuto per intero e dall'interno questi quattro decenni di storia, diciamo così, "patria" direttamente sulla mia pelle, senza soluzione di continuità, e con qualche gravame di grosso impegno. E quarant'anni sono davvero tanti.
Ricordo (dovete concedermi di abbandonarmi a qualche ricordo quando parlo dell'Università di Lecce) che si avvicinava il Natale del 1955, e io dimoravo allora a Roma, insegnavo "Lettere" al Liceo "Righi" ed ero fresco Libero Docente di Letteratura Italiana alla Sapienza, dov'ero anche Assistente Straordinario di Storia della Lingua Italiana col prof. Schiaffini. E il mio primo contatto con l'Università di Lecce fu proprio quello appena prenatalizio del 1955. Pier Fausto Palumbo mi chiamava per telefono a propormi l'assegnazione dell'incarico di Filologia Romanza all'Istituto Superiore di Magistero (in tale forma mosse i primi passi quest'Università nel 1955-1956). Rifiutai perché io ero Libero Docente in Letteratura Italiana, non in Filologia Romanza. E la cosa, per il momento, finì lì. Ma qualche mese dopo, al cader dell'estate del 1956, mi giunse a Roma un'altra telefonata, questa volta da parte del prof. Raffaele Spongano, mio amato maestro nel Liceo di Galatina, ma già docente universitario. Egli m'informò della prossima nascita della Facoltà di Lettere a Lecce; c'era già il Comitato Tecnico, del quale egli faceva parte; e io ero chiamato a coprire l'insegnamento della Letteratura Italiana. Accettai; e ai primi del successivo dicembre (1956), detti inizio, qui accanto, al mio primo corso di lezioni.
Che l'istituzione dell'Università a Lecce sia dovuta, in buona parte, all'adesione convinta delle popolazioni salentine, che, organizzate dall'Amministrazione Provinciale, si tassarono volontariamente, Comune per Comune, onde contribuire alle spese occorrenti, è fuor di dubbio; ed è merito straordinario che va loro riconosciuto in piena e assoluta purezza d'intenzioni, senza mortificanti ipotesi di basse vanità politiche o culturali. lo fui chiamato anche a partecipare alle riunioni del "Consorzio Universitario Salentino"; e mentre ne ammiravo la compartecipe passione, l'intelligenza delle discussioni, la generosità degli intendimenti, rimanevo invece perplesso di fronte alla tendenza di intervenire robustamente in questioni riguardanti le strutture didattiche e la stessa attività didattica in generale; senza rendersi conto, i componenti del "Consorzio", che siffatti argomenti travalicavano le loro specifiche competenze, non solo giuridiche, ma di solito anche tecniche, scientifiche; e senza rendersi conto delle singolari condizioni in cui era venuta a trovarsi la nuova Università, così lontana e periferica, priva di una solida e sicura base accademica, osteggiata malignamente, fino all'isolamento, dai vicini centri di potere accademico, e da quanti vedevano allora di malocchio, sia pure in buona fede e per inammissibile convinzione, il nascere di nuove Università in regioni periferiche. Vi assicuro che ci furono momenti di grande angoscia per tutti: a Lettere il primo anno s'erano iscritti una ventina di studenti, i quali al secondo anno si ridussero effettivamente a nove; e si parlò insistentemente di chiusura della Facoltà di Lettere e di ritorno al solo Istituto Superiore di Magistero, ove le adesioni non erano altrettanto scoraggianti.
Questi furono, dunque, per quanto mi risulta personalmente, gli aspetti fondamentali del rapporto tra Università e Salento nei primissimi anni della sua esistenza: un'adesione di carattere culturale, politico e strutturale senza remore e del tutto disinteressata e generosa da parte dei Comuni; ma sordità e chiusura sul piano nazionale e conseguente ostilità da parte della popolazione colta e scolare del capoluogo (gli studenti sistematicamente venivano sconsigliati dall'iscriversi a Lecce), forse anche perché molte ambizioncelle locali rimasero fortemente deluse e inevase. Poi venne il riconoscimento legale (1960), e subito fu folla di studenti e insorgere di problemi di capienza e di strutture.
E così, da un punto di vista eminentemente strutturale, il Salento, anzi meglio si direbbe Terra d'Otranto, spiccava finalmente il volo verso un tipo di cultura più autentica, più aperta e problematica, proprio grazie alla presenza dell'Università; presenza che si farà sentire sempre più vantaggiosamente negli anni successivi. Questo lo possiamo dire oggi, a posteriori, nella prospettiva sicura del passato storico; ma non è che allora il cosiddetto territorio fosse in grado di rendersene conto. Anzi il ritornello ossessivo negli anni Sessanta e seguenti, era quello che l'istituzione era assurdamente assente nei riguardi del territorio, dal quale rimaneva del tutto distaccata e del tutto indifferente ai problemi sociali, politici, economici e perfino culturali. Né l'affollamento susseguito alla dichiarazione di riconoscimento legale della Libera Università; e neanche la successiva ambitissima statizzazione delle due vecchie Facoltà (Lettere e Magistero) insieme con la nuova di Scienze Naturali con i corsi di Laurea in Matematica e Fisica (1967) mi par che mutassero, neanche in parte, il generale stato d'animo; anzi mi par proprio che lo esasperassero. Insomma non c'era amore reciproco tra Salento e Università Salentina; eppure si poteva essere ben contenti dei concreti risultati ottenuti lungo gli anni Sessanta, con incredibile tenacia e fede, da quel galantuomo di Rettore che fu Giuseppe Codacci Pisanelli. Erano passati solo dieci anni dalla prima inaugurazione così piena di speranze, ma anche di trepidazioni, di ansie e di timori sconvolgenti (Lecce come nuova Università fece da rompighiaccio in Italia), che ebbero a verificarsi ancor più rischiosi e mortificanti di quanto si potesse immaginare. Tant'è che le aspirazioni più giuste sono spesso anche le più incomprese e le più ostacolate, e perfino le più velenosamente boicottate.
Pure, qualche ragione di questo disamore c'era senz'altro, perché, per esempio, nonostante le grandi firme che venivano da lontano, e forse anche proprio per questo, l'ambiente culturale interno all'Università, e direi anche l'aspetto didattico, si sentivano, ed erano, quasi stretti ed angusti, mancavano di respiro e di aperture, limitati all'indispensabile del dovere strettamente giuridico. Fuori dell'Università, sullo stesso territorio, accadevano avvenimenti culturalmente più vivaci e attuali, con ben diversa forza di sollecitazione e di aggregazione nazionale: per esempio, l'"Accademia Salentina" di Comi a Lucugnano; la rivista letteraria "L'albero", che ne costituiva la voce, e per così dire, l'organo ufficiale (per non parlare di "Esperienza poetica", troppo breve e prolettica); i fogli periodici del "Critone" con l'inserto letterario; e inoltre i vari gruppuscoli d'avanguardia con occasionali e sia pure disorganiche ed episodiche iniziative. All'interno dell'Università, invece, alla pressoché inconsapevole limitatezza degli interessi culturali, a prescindere da quelli di carattere più strettamente professionale e di necessità didattica, veniva, nei maturi anni Sessanta, ad accompagnarsi anche l'oscurità del domani e la precarietà dell'occupazione futura, che s'era avuto torto di considerare quasi del tutto certa al tempo dell'esplosione scolare in provincia. In realtà, i famigerati corsi abilitanti, l'indiscriminata e quasi doverosa immissione nei ruoli di persone anche incompetenti, resa necessaria dall'impellente occorrenza di personale docente, e resa provvidenziale in merito ai bisogni e alle istanze sociali, avevano prosciugato presto il localmente disponibile; talché si cominciavano a profilare i primi segni della nuova emigrazione: non più di operai, di braccianti, di minatori, ma di professori di Scuole Medie d'ogni ordine e grado.
Così, e per tutte queste ragioni, la contestazione universitaria a Lecce, il cosiddetto Sessantotto, ebbe vita rigogliosa e tumultuosa, dinamica ed aggressiva, ciecamente violenta e talora comicamente goliardica. Non ho alcun ritegno ad affermare che la contestazione studentesca qui a Lecce fu, in sostanza, un abbraccio d'amore e insieme d'insofferenza; un abbraccio tanto stretto da farti venir l'ànsima e costringerti, malgrado tutto, a una istintiva e automatica difesa in vista degli stessi interessi generali da raggiungere. Insomma essa oggi a me si presenta, dopo tanti anni e a mente serena, più come un atto d'amore e d'impegno da parte di tutti, che come la riduzione ideologica di alternative di combattimento col fine ultimo di eliminarne e di distruggerne una.
Ora: tutti sappiamo bene le immense dimensioni storiche e geografiche del Sessantottismo, le sue spinte ideologiche e politiche dappertutto operanti, e anche le sue aberrazioni folli e le sue inammissibili violenze; ma qui, nell'Università di Lecce, così fragile ancora, gracile e minutina, così saldamente poggiata, per sua stessa natura, sui vicini rapporti umani, sulla conoscenza reciproca e sulla reciproca stima; qui insomma il Sessantotto significò soprattutto - a me pare - la comune convinzione (espressa ovviamente nelle forme più varie, della violenza, della persuasione, della contestazione, della trasgressione, della polemica, e via dicendo) che le cose non potevano più continuare a svolgersi come fin allora si erano svolte; che le strutture, assolutamente fatiscenti, andavano radicalmente modificate, non soltanto quelle giuridiche ed edilizie, ma anche quelle tecniche e professionali, quelle della didattica e della ricerca. Naturalmente, il coacervo delle posizioni era straordinariamente intricato e complesso; e vi trovava sovente maligno e velenoso inserimento il dileggio beffardo, lo scherno irrisorio, il sarcasmo parodistico e sferzante (i manifesti, le immagini dipinte, i tazebao, i proclami di tono rivoluzionario, ecc.) verso tutti coloro che si trovavano a dover difendere la ormai troppo sbracata maestà della legge, laddove tutti i puntelli giuridici erano miseramente crollati, e l'edificio degradava in rovina.
La violenta contestazione giovanile giovò pur concretamente alla crescita universitaria leccese almeno sotto due aspetti fondamentali. E prima di tutto fece scomparire il solco tra l'istituzione e il territorio, che in essa mai si era riconosciuto. Le migliaia di studenti più o meno contestatori avevano fatto da tramite vivo nei confronti delle migliaia delle loro famiglie, le quali saranno state, qual più qual meno, condotte tutte quante a riflettere seriamente sui propri atteggiamenti nei confronti dell'istituzione, ad arricchirli d'informazione, a discuterli, a modificarli. Insomma la contestazione ebbe il primo merito di portare i problemi dell'Università in seno alla società locale e all'interno delle famiglie, che magari non se ne erano mai occupate. In secondo luogo essa inserì l'Università di Lecce definitivamente nel circuito della polemica e della problematica universitaria nazionale; tanto più che una denuncia all'Autorità Giudiziaria da parte di due docenti leccesi, avverso un documento studentesco ritenuto eccessivamente e scandalosamente offensivo nei loro riguardi, aveva sortito una risonanza veramente incredibile (stampa nazionale, "Corriere", "Espresso", raccolta di firme a centinaia contro i denuncianti, ecc.) e aveva posto sul tavolo verde della giustizia nazionale un nuovo delicato caso, un nuovo delicato problema. Oggi, fortunatamente, molti protagonisti di quelle giornate sono a loro volta docenti di ruolo e cattedratici d'eccellenza; il che comprova la bontà e l'autenticità delle loro strutture interne e la legittimità delle loro richieste d'allora.
Piano piano la buriana diminuì d'intensità e poi si dispose a trascorrere del tutto, non senza occasionali riprese degne dei più nostalgici e spesso argutamente richiamati inizi. Ma insomma il fatale patto con le popolazioni salentine, attraverso l'inarrestabile flusso dell'onda studentesca, era stato saldamente e consapevolmente fissato. L'Università era aperta a tutti, e l'istituzione leccese era consapevole d'aver superato, insomma con buone risultanze finali, una delle crisi peggiori della propria esistenza. C'era ormai da allargarsi e da irrobustirsi; e furono tanti i nuovi segni della collaborazione collettiva e totale. Da una parte l'avvio, sia pure un po' tumultuoso e disordinato, del Corso di laurea in Scienze Biologiche, col completamento della Facoltà di Scienze Naturali, Fisiche e Matematiche (tanti, ora e poi, i meriti del Rettore e Preside Mongelli); l'acquisizione del Palazzo Parlangeli e la gestione del Palazzo Casto; insieme con la nuova sede sul Viale degli Studenti, tante volte rimutata e tante volte riadattata per le necessità via via ricorrenti, sia pure con gravi e giustificati mugugni del personale amministrativo; dall"altra la collaborazione delle Banche locali, pronte ora a sostenere, nei modi possibili, pubblicazioni e ricerche, congressi e conferenze; non aliene anche dall'istituire, su progetti chiari e oggettivi, delle specifiche "Fondazioni"' in sostanza parauniversitarie, com'è quella che una ventina d'anni fa io stesso proposi al Presidente del Credito Popolare Salentino, e che tuttora funziona a pieno regime nella realizzazione di una scientifica rifondazione della cultura cosiddetta "locale" nei confronti della "nazionale".
E accanto alle banche i grandi sodalizi sociali, i Lyons, i Rotary, con i quali s'infittirono via via i rapporti di reciproco servizio e di collaborazione; e infine anche il progressivo aumento dei fondi ministeriali; mentre nei cento e cento Comuni delle tre Province salentine cominciava palesemente ad operare la ricaduta dei benefici culturali e sociali dovuti già alla sola presenza di una Università funzionante sul territorio. E si tace ovviamente, per comprensibili ragioni, del Comune di Lecce e dell'Amministrazione Provinciale di Lecce, la quale aveva, addirittura nei primi anni Cinquanta, istituito e organizzato le "Celebrazioni salentine" e i "Premi Salento" con lo scopo conclamato di proporre la città di Lecce e la sua vivacità culturale all'attenzione dello Stato e della Nazione, come sede ideale di città universitaria. Ora anche la legislazione universitaria andava fatalmente modificandosi; e il nuovo organismo denominato "Dipartimento" veniva rivelandosi un utile strumento di rinnovamento e di aggregazione ordinata e finalizzata, più ancora che i Consigli di corso di laurea e affini. E ora si è giunti, dopo un cammino prudente e progressivo di almeno tre lustri, all'unica soluzione oggi possibile, che è quella dell'autonomia universitaria.
A questo punto sarebbe bello e piacevole narrare l'una dopo l'altra le tappe del consolidamento e dell'ampliamento dell'Università nostra. Sembra una storia addirittura venti o trentennale, dacché si è passati dalle tre tradizionali Facoltà originarie alle otto ora presenti e funzionanti, con proporzione quasi tripla; e si è passati, con analoga proporzione, dai poco più di 7.000 studenti dell'a.a. 1986-1987 ai più di 20.000 di quest'anno. E dunque, a guardarsi indietro, sembra davvero incredibile che siffatto sviluppo si sia verificato in meno di dieci anni. Sono questi i risultati dell'azione tenace, fattiva, intelligente a favore dell'Università di Lecce da parte di due rettori esemplari d'impegno e di passione: Donato Valli e Angelo Rizzo; e non è senza significato che essi siano provenienti da due di quei Comuni salentini, che all'inizio accettarono di tassarsi spontaneamente a favore dell'istituzione universitaria leccese; cioè da Tricase l'uno, e l'altro da Scorrano. Non solo; ma è significativo anche che essi o dimorino sistematicamente nella loro amatissima "piccola patria", oppure vi si rifugino occasionalmente, fiduciosi di trarne nuove energie per il prosieguo del loro lavoro, alla maniera del mitico Anteo; condizione biografica fortemente emblematica e significativa dei rapporti ormai strettamente esistenti fra istituzione e territorio; che è l'argomento principe scelto e assegnato per la mia prolusione.
E questo mi porta anche a considerare i numerosi punti di riferimento e di aggregazione identificabili nella presenza, nel capoluogo, anzi nei capoluoghi e nei Comuni almeno delle tre province, dei professori universitari di ruolo, di prima o di seconda fascia che essi siano, o anche dei ricercatori e assimilati; tutti quanti del posto, con i loro libri, con i loro problemi d'attività culturale e di ricerca, con le loro curiosità dottrinali, con il loro legittimo desiderio, anzi con la loro legittima e doverosa ambizione di imparare, insieme, e di insegnare. Punti stabili e vicini di riferimento e d'aggregazione per le ormai migliaia e migliaia di persone, che si sono laureate nelle Facoltà dell'Università di Lecce, e che della ricchezza culturale accumulata si servono onestamente a vantaggio della comunità, al cui servizio magari si sono dedicate, nei Municipi, nelle Biblioteche Comunali, nelle scuole d'ogni ordine e grado, nei circoli di cultura, nei sodalizi sociali, e nei palazzi di Governo.
Mi par tempo di concludere, oramai. Ma l'accenno alla rinnovata coscienza del bene culturale mi stringe a sottolineare l'eccellenza alla quale sono giunti gli studi d'argomento salentino condotti nelle nostre sedi scientificamente appropriate. Ebbene: quando io venivo a Lecce da Roma per il mio incarico di Letteratura Italiana nei primissimi anni Sessanta, fra l'altro - ispirandomi ad una problematica allora (e tuttora) in gran vigore e, diciamo così, di gran moda, nella critica letteraria italiana - iniziai un'esplorazione a tappeto della bibliografia letteraria salentina, per comporla nel quadro della nazionale, onde arricchir questa dei tasselli mancanti per inedito, o per oblio editoriale, in una visuale storica moderna e policentrica, dialettica e dinamica della storia letteraria. Ebbene: mi si rovesciò addosso il terremoto della contestazione e l'accusa di provincialismo retrivo e misoneista, sanfedista e codino; né mi fu possibile per allora condurre avanti la iniziativa di una rifondazione della cultura letteraria salentina alla luce della nazionale, che dovetti rimandare a tempi migliori. Ora, fortunatamente, non c'è Dipartimento che non ostenti, con un certo orgoglio, i frutti magnifici delle proprie ricerche anche nel campo specifico del settore salentino. Mi si lasci ricordare ancora la mia "Biblioteca di Scrittori Salentini" - anche se ne parlo con estremo imbarazzo -, la quale sta per giungere al suo ventesimo volume con la pubblicazione delle Opere di Ascanio Grandi e della Letteratura dialettale dell'Ottocento; essa, con i suoi amplissimi e integrali testi, ripubblicati dopo secoli d'oblio, e con le sue dotte introduzioni, va a costituire una sorta di storia della Letteratura regionale salentina, o, se più piace, una storia della Letteratura italiana nella regione Salento, nel quadro appunto dei rapporti fra nazione e regione, e nel giuoco dialettico degli interessi culturali. Del resto, che dire della monumentale Storia di Lecce in tre volumi, e della stessa Storia della nostra Università, opere entrambe uscite dal Dipartimento degli Studi storici? E le citazioni di questo genere potrebbero continuare con pingue generosità e con felicità piena per i tanti e per i grandi risultati raggiunti. Via! Oggi infine il Salento può essere davvero contento della sua Università, dopo anni di incomprensione, di ostilità e perfino di assurde lotte. Ma contenta più ancora dovrebbe essere - e rendersene conto - la cultura italiana, per il suo largamente accertato e in parte già da essa utilizzato arricchimento. Potrei addurre prove e documenti; ma qui non è proprio il caso.
Ecco: questa convinta consapevolezza fa sentire più acuta la mancanza, ancora oggi, di una adeguata biblioteca, nonostante i grandi meriti e i ben noti sacrifici di tutti coloro che alla nostra Biblioteca Centrale sono addetti.
Una biblioteca, chiedo, nella prospettiva dei secoli. Quale stretta al cuore m'è venuta l'altro giorno, quand'ho letto sul "Corriere della Sera" che a Milano è stata programmata una nuova grande biblioteca fuori porta, destinata ad integrare nientemeno e a superare l'Ambrosiana, la Braidense e la Trivulziana già esistenti; e che i candidati a nuovo Sindaco della città si sono subito appropriati del progetto e se ne sono fatti un punto d'onore! E' vero che si è nel pieno della campagna elettorale; ma è pur vero che la programmazione di una nuova grande biblioteca, oltre a quelle già esistenti, è sempre considerata un bene supremo non solo culturalmente, ma anche socialmente, in una città così ricca di fermenti come Milano... E allora: benedette almeno le nostre biblioteche archeologiche, che espongono all'aria e al sole le loro straordinarie ricchezze, frutto degli studi e degli scavi delle nostre Scuole di perfezionamento e dei nostri valorosi docenti.
E un'altra proposta, in verità assai meno impegnativa e di più facile e rapida realizzazione, vorrei oggi avanzare, come augurio del quarantennio: la ripresa sistematica della pubblicazione degli "Annuari". Finora essa è andata avanti a balzelloni, con volumoni contenenti materiale perfino di sei anni accademici insieme; e l'ultimo uscito, se le mie informazioni sono esatte - e allo stato potrebbero anche non esserlo - è quello che riguarda l'anno accademico 1986-1987, esattamente dieci anni fa. Si tratta proprio di questo decennio senz'altro esplosivo per la nostra Università, che va dunque fedelmente e pubblicamente documentato per il più remoto futuro. E forse non dovrebbe essere di difficile attuazione un "Bollettino" periodico utile per tutti, per gli studenti, per i docenti, per il personale amministrativo, per gli enti locali, e per le consorelle Università: informazioni sul già fatto e proposte per il da farsi; non ci sarebbe bisogno d'altro, se si evitassero sciocchi e superflui interventi d'altro genere.
Insomma, in conclusione, si può essere orgogliosi e soddisfatti non solo dell'esplosione di questi ultimi dieci anni, ma anche della precedente attività che ci riporta alle origini del 1956, che sembrano così lontane, ma che per la vita di un organismo come l'Università sono davvero soltanto un "batter di ciglia" rispetto al movimento del "cerchio che più tardi in cielo è torto"; un soffio, insomma, e anche meno d'un soffio. Orgogliosi anche e soddisfatti che, ben palesemente, la presenza e la vita dell'Università qui nella nostra regione sono diventate come una sorta di palpito segreto, ma stimolante; di motore dissimulato, ma operante per la crescita delle popolazioni sulla via della cultura e su quella della civica coscienza: che sono beni preziosi e inalienabili tanto più, quanto più sono consapevolmente radicati nel profondo dell'anima e nelle ambizioni del cuore. Ma verso dove? Verso quali mai finalità lontane e remote?
Mi pare un po' indebolito oggi il mito, che qualche anno fa fu diffuso in modo così persuasivo e affascinante, del "Salento porta d'Italia", uno slogan che par quasi ancora riccheggiare all'interno di questa stessa aula magna, dove fu lanciato come una promessa e come un impegno. "Porta d'Italia" verso i Bassi Balcani, la Grecia, il Mediterraneo orientale e il Medio Oriente, là dove il labaro della nostra Università rimane - se non erro - ancora oggi piantato, a testimoniare una nostra attiva presenza e operosità. In questi ultimi tempi, infatti, con il rafforzamento dei legami europei, con gli stretti rapporti messi in opera tra le nostre Facoltà e i centri della ricerca scientifica europea ed americana, con le provvidenze a favore degli scambi di studenti, di esperienze didattiche, e perfino di atti amministrativi, nell'ambito e nel quadro dell'Unità Europea, l'Università ha portato il suo Salento verso l'Europa, ne sta strutturando la sostanza, e ripulendo e facendo brillare la superficie in senso compiaciutamente europeo.
Tal significato, infatti, mi par che possa attribuirsi all'iniziativa ultima di istituire scuole d'alta specializzazione, modellate su analoghi organismi, già a lungo e solidamente sperimentati in Italia e fuori. Salento europeo: un affascinante ossimoro addirittura per il prossimo futuro. Ma tutto questo non dovrebbe né potrebbe escludere l'ipotesi di un Salento proiettato verso il Medio Oriente Mediterraneo con la funzione di "Porta d'Italia" al limite della difesa marina, come un molo invitante all'attracco e allo sbarco. Anzi dovrebbe rafforzarla e renderla maggiormente possibile e verosimile. Così, l'Europa alle spalle, come appoggio motivato e simbiosi di cultura e di civiltà; il bacino orientale del Mediterraneo e il Medio Oriente, come linea programmatica di sviluppo e di operazione primaria, in progressiva visuale cronologica. Una remota prospettiva storica - mi pare - per il nostro Salento, tutt'altro che inverosimile e per nulla trascurabile. Anzi, tutto sommato e tutto considerato, si può dire che i fondamentali presupposti esistano già, visibili nella stessa relazione or ora letta dal Rettore. E tutto questo, grazie al lavoro di tutti.


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