UN FILM PER LA FRONTIERA




Giuseppe Gubitosi
Docente dì Storia della Comunicazione di massa - Univ. di Perugia



Sorta come questione nazionale dopo la nascita dello Stato unitario, nel corso del tempo la "questione meridionale" ha finito per diventare un'ideologia. I connotati della separatezza, della diversità, dell'alterità sono apparsi in piena evidenza solo in alcuni momenti, come - subito dopo l'Unità - negli anni del brigantaggio, come al tempo del "mal d'Africa", delle imprese africane di Crispi, che furono anche gli anni in cui Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao elaborarono la categoria della "napoletanità", come negli anni del separatismo siciliano tra la fine dell'ultima guerra mondiale e il dopoguerra. Ma sono stati sempre presenti nella ideologia meridionalista.
Anche il cinema ne ha risentito, come è evidente nei film napoletani di Elvira Notari degli inizi del Novecento, nei numerosi re-makes di Cavalleria rusticana (dal 1916 in poi), nei film di Angelo Museo, nel film meridionalisti dei decenni tra il 1960 e il 1980. Tuttavia il cinema, per sua natura, mal tollera le separazioni e i film che riescono meglio sono quelli in cui si cercano collegamenti, punti d'incontro, elementi comuni a diverse componenti della realtà. Anche per questa ragione il cinema americano, che rispetta rigorosamente l'esigenza del pubblico di riconoscersi nelle vicende e nei personaggi dei film, da molto tempo trionfa su tutti i mercati cinematografici.
Nella storia del cinema italiano, invece, c'è stata una sola stagione, brevissima, nella quale il cinema si è assunta la responsabilità di promuovere l'unione degli italiani: la stagione del neorealismo, che non è andata oltre il 1948. Carlo Lizzani, in un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini nel 1945, scriveva che tra le molte ragioni per cui era opportuno che l'Italia avesse un suo cinema c'era anche il fatto che l'Italia era "ancora sconosciuta a se stessa" e la necessità che trovasse "un linguaggio comune e immediato che unisca le regioni". Pochi anni dopo, nel 1949, Pietro Germi dichiarava che il cinema poteva far molto perché l'Italia, "un Paese pieno di differenze formali e tematiche", un Paese affascinante proprio perché costituiva "un incredibile mosaico", si trasformasse finalmente "in un amalgama nazionale omogeneo".
Ed è interessante il fatto che il cinema si sia assunto questo ruolo in uno dei momenti di più duro scontro ideologico attraversato dal nostro Paese, gli anni delle dure battaglie elettorali culminate nel 18 aprile 1948. Ciò si spiega, oltre che con la natura stessa del cinema, anche con le caratteristiche proprie del neorealismo, che per Rossellini era essenzialmente una "posizione morale" che imponeva di "conoscere gli uomini così come sono" senza "idee preconcette". Perciò, secondo Rossellini, occorreva che il cinema contribuisse a "mettere insieme gli elementi che componevano le cose". Quindi doveva contribuire a unire più che a dividere, contrariamente a ciò che per loro natura fanno le ideologie.
Perché il neorealismo sia stato questo, raggiungendo i livelli più elevati nella storia del cinema, l'ha spiegato il grande critico cattolico André Bazin, il quale ha ritrovato nel cinema di De Sica e di Zavattini i connotati essenziali di quello che egli pensava come "cinema della durata", della "continuità del tempo", un cinema, cioè, capace di ristabilire l'unità delle cose interrotta dai conflitti tra gli uomini. Infatti, parlando dell'Italia e del suo cinema, nel 1948 Bazin ha scritto: "In un certo senso l'Italia non ha che tre anni". Sottolineando il carattere aurorale della fase storica che l'Italia viveva alla fine della guerra, vi ritrovava una congiuntura felice per la nascita di film che, senza precludersi il diritto a prendere posizione nei confronti della realtà contemporanea, sapevano anche evitare di "trattare questa realtà come un mezzo".
Le ragioni di ciò sono molte. Dal bisogno degli italiani di utilizzare una situazione in cui si partiva da zero per costruire una identità nazionale rimasta sempre troppo debole fino alla "morte della patria" per usare l'espressione con cui Galli della Loggia caratterizza il periodo che si aprì con l'8 settembre, dalla guerra civile e dal conseguente bisogno che molti italiani sentivano di sanare le ferite fino alla netta e profonda spaccatura dell'Italia in due dovuta al conflitto tra potenti eserciti stranieri di cui fu teatro il territorio italiano. In ogni caso i film sul Mezzogiorno dell'immediato dopoguerra propongono una immagine dei meridionali che non solo anelano, ma cercano come possono di uscire dall'isolamento.
Un film di straordinario interesse, sotto questo profilo è Paisà (1947) di Rossellini, che percorre tutta l'Italia insieme agli Alleati e scopre che ovunque gli italiani tentano di stabilire un collegamento con gli anglo-americani. Il primo episodio del film è ambientato in Sicilia, una regione così isolata che i suoi abitanti inizialmente non distinguono la lingua inglese dal tedesco e credono che gli americani giunti in paese siano militari della Wermacht. Da quel momento inizia il tenace sforzo di una giovane siciliana e di un soldato americano di superare l'iniziale diffidenza per trovare una forma di comunicazione. Anche l'episodio ambientato a Napoli è incentrato sullo sforzo di comprendere e farsi intendere che mettono in atto uno scugnizzo e un militare di colore. Ed è come se Rossellini ci dicesse che quei soldati nella loro avanzata verso Nord unifichino finalmente l'Italia in tutte le sue parti, e in special modo il Sud al Nord.
Quello della unificazione degli italiani e del superamento delle differenze culturali e sociali è anche il tema del Cammino della speranza (1950) di Pietro Germi, un film nel quale un gruppo di zolfatari siciliani, deciso a raggiungere a tutti i costi la Francia, attraversa tutta l'Italia ora in treno ora su un autocarro, passando per Napoli, Roma, le campagne emiliane, le Alpi. Davanti allo sguardo, talvolta perso e talvolta incuriosito, di quei miseri siciliani si distende quel meraviglioso mosaico che secondo Germi era l'Italia. Ma quel viaggio non solo integra quegli uomini nel loro Paese, facendoli sentire più italiani, ma consente anche agli altri italiani di scoprire, attraverso loro, il Mezzogiorno, la sua povertà, la sua sofferenza.
Germi aveva fatto un anno prima, nel 1949, In nome della legge, un film sulla mafia siciliana, nel quale un capo-mafia si incontra, riesce a trovare più di un punto di convergenza con il pretore che rappresenta la legge, lo Stato italiano. Un film molto discusso e certamente discutibile ma che appare ispirato da un'esigenza fondamentale: trovare il modo di far cadere le barriere che separano la Sicilia dall'Italia. Qualche anno dopo da questa ispirazione nascerà un film che condusse Germi fino ai primi anni dello Stato unitario, Il brigante di Tacca del lupo, ambientato in Basilicata, nel quale i contadini del Sud si liberano dal brigantaggio e dal legittimismo borbonico, sostanzialmente anti-italiano o almeno anti-piemontese, in virtù della severa e ferma, ma altrettanto benevola, personalità paterna d'un capitano che ha l'incarico di disinfestare quel territorio dalla piaga del brigantaggio. E il film si conclude con una danza che accomuna soldati settentrionali e contadini meridionali.
E' interessante notare che se il film di Rossellini fu realizzato con un contributo americano, Germi viene considerato il più americano tra i nostri registi, per via dei moduli e del linguaggio cinematografico che adottò. Particolari che lasciano pensare che l'ispirazione unitaria che si trova in questi film sul Mezzogiorno sia in qualche modo da collegare all'arrivo degli americani in Italia.
Ma questa ricerca d'un punto di contatto tra Nord e Sud si trova anche in Visconti, che pure si tenne ben lontano dal cinema americano. A tal punto che Ossessione, pur essendo la trasposizione cinematografica d'un romanzo dello scrittore James Cain, è invece una minuta esplorazione del cuore dell'Italia, tra la Valle Padana e Ancona, così come quel cuore era nel 1942. Il film che Visconti dedicò al Mezzogiorno nel dopoguerra è La terra trema, considerato uno dei classici del neorealismo italiano. E' anch'esso, come molti film del regista milanese, tratto da un romanzo, I Malavoglia, questa volta di uno scrittore siciliano, Giovanni Verga. Ciò che di Verga attrasse Visconti fu appunto la sua idea del progresso come "fiumana" che trascina e travolge i "vinti". Voleva infatti anche lui realizzare un ciclo di film analogo al cielo di romanzi sui "vinti" che Verga aveva progettato. E cominciò dal personaggio di 'Ntoni, un giovane che ha scoperto, grazie al servizio militare, ovvero alla sua condizione di cittadino italiano, le differenze tra la Sicilia e il "continente" e si mette in testa di superarle. Solo che mentre a Verga questo tentativo appare radicalmente privo d'ogni possibilità di successo, Visconti pur tenendo gli occhi bene aperti e rendendosi conto della gravità delle difficoltà che deve superare 'Ntoni non considera velleitari i tentativi di riscatto messi in atto dal giovane pescatore di Aci Trezza. Ci vorrà tempo, sembra dire Visconti, ma verrà un giorno in cui gli italiani saranno più vicini gli uni agli altri. Si tratta solo di trovare la strada più giusta.
Molti film del dopoguerra, più o meno collocabili nel filone neorealista, affrontano i problemi da un punto di vista più strettamente meridionale. 11 lupo della Sila (1949), ad esempio, di Duilio Coletti, inizia con una lunga didascalia nella quale si propone un'immagine della Sila del tutto esclusa dalla modernizzazione, una terra dominata dalle passioni e dall'ambiente naturale, e perciò solitaria e silenziosa. Ma anche in questo film la realtà meridionale è in qualche modo intaccata e incrinata, nonostante sia estremamente resistente. Insieme al treno che collega la segheria di proprietà di Rocco Barra, il protagonista del film, con il resto del mondo, nel film compare anche un giovane, il figlio di Rocco Barra, che studia in una grande città e che - anche per questo - con il suo comportamento mette in discussione, forse senza esserne pienamente consapevole, le rigide gerarchie della famiglia patriarcale. Ciò conduce la vicenda a un esito tragico, perché Rocco, il patriarca, non accetta che si mettano in discussione le sue decisioni. Ma, appunto, è a questa ostinazione che si fa risalire l'esito tragico, non al comportamento del giovane Salvatore.
Anche Malacarne, ovvero Turi della tonnara (1947) di Pino Mercanti mette lo spettatore di fronte ad una realtà meridionale tendente con molta forza a rimanere legata alle tradizioni. Si tratta del conflitto tra due generazioni, una rappresentata da un giovane che rompe i vincoli morali che reggono la comunità e seduce una ragazza, l'altra rappresentata da un adulto zio della ragazza sedotta, che si batte per il ripristino dell'ordine morale che è stato infranto. Si tratta d'un film che la critica non ha molto apprezzato, ma anche in questo film si affaccia l'idea che non si possono rifiutare del tutto i cambiamenti, ovvero gli stimoli che in tal senso provengono da fuori e a Sicilia. Senza uno sforzo di evoluzione si va ineluttabilmente incontro a dolorose fratture.
Persino un clamoroso tonfo come quello di Patto col diavolo (1949) di Luigi Chiarini, uno dei più prestigiosi teorici del cinema italiano, è significativo d'una linea di tendenza alla quale era difficile contrapporsi. Tanto più che la sceneggiatura del film è di Corrado Alvaro, forse l'intellettuale calabrese più interessante del Novecento. Il film, stroncato dalla critica dopo la sua presentazione alla Mostra di Venezia del 1950, voleva muoversi in un certo senso controcorrente.
Chiarini, infatti, dichiarò di voler fare "un film non nell'ambito del neorealismo, ma di un realismo poetico", voleva insomma "poeticizzare la realtà". Perciò, chiarì, il suo film sarebbe stato "al di fuori del tempo e della cronaca, perché unica realtà sono certi sentimenti umani e immutabili nel mutare dei secoli e dei luoghi". Lo stesso Alvaro fu costretto a spiegare alla rivista Prospettive Meridionali che né in questa né in nessun'altra opera letteraria egli s'era proposto d'"illuminare" la "condizione" della Calabria, ma aveva sempre cercato "una dimensione poetica, cioè letteraria". Ma fu appunto per questo che il film fu un tonfo. Ritrarre il Mezzogiorno, o una sua parte, come separato, scisso, isolato dall'Italia non corrispondeva più alla realtà meridionale, che era ormai alla ricerca d'un rapporto, il più ricco possibile, con quell'Italia dalla quale era rimasta troppo a lungo separata. Una situazione rispetto alla quale molti intellettuali, mossi in vario modo dall'ideologia meridionalista, non potevano considerarsi immuni da responsabilità. Chiarini e Alvaro, per loro stessa ammissione, erano tra questi: ma nel cinema italiano del dopoguerra non c'era posto per opzioni di tale natura.

(1-continua)


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