Carlo
Levi poeta
Quattro anni fa
venivano proposte al largo pubblicò le poesie che Carlo Levi
era andato componendo tra il 1931 e il 1972. Poesie a cui gli addetti
ai lavori non dedicarono, come già affermò Giacinto
Spagnoletti, la dovuta importanza. Importanza che derivava loro non
già dalla scoperta in sé di una nuova, "inedita",
manifestazione della natura artistica del torinese, quanto dal fatto
che le liriche si raccordassero armonicamente con il resto della produzione
artistica, e in primis con quella pittorica, permettendoci di meglio
comprendere e stimare la poliedrica personalità del Nostro.
Proprio alla pittura, infatti, amata e coltivata con particolare dedizione
per tutta la vita, Levi dedicherà una delle sue prime poesie:
"Pittura, arte difficile, a me cara / perché non servi
ai gridi ed ai lamenti / ma serena soccorri a chi li ha spenti / e
libero respira l'aria amara [ ... ]". Le liriche scandiscono
gli eventi più significativi della sua esistenza: dal periodo
torinese, quando gravitava attorno al fervido mondo intellettuale
de "Il Baretti", a quello della feconda amicizia con gli
artisti de "Il Gruppo dei sei", sino alla vecchiaia, passando
per gli eventi del periodo bellico, dell'esperienza del confino e
della ricostruzione del dopoguerra. Sicuramente alle poesie di quest'ultimo
periodo si riferiva Spagnoletti allorché affermava che "ogni
poesia di Levi contiene con stupenda consonanza il passaggio dal desiderio
alla speranza".
Profondamente malinconiche invece sono quelle dell'ultima produzione,
prive di data o altri riferimenti, dalle quali emerge un Levi tragicamente
impotente dinanzi alla vecchiaia e alla morte: "In questo luogo
si potrebbe, / si potrebbe ma non si fa, però; / e difatti
non si scrive un libro / ma si libera l'animo così / profondamente
protetti come siamo / dalla cecità. Ciechi eravamo prima /
di vedere, prima di nascere, / nel ventre materno e adesso / che vecchi,
colmi di cose non fatte, / non espresse, ci ritroviamo in / una posizione,
per quanto possibile, / analoga, ecco che per la seconda / volta (la
prima quando siamo nati) / ci apriamo e ci lasciamo guardare".
Ed ancora: "Tornare a casa a non essere / a temere il sole d'estate
/ la forma del frutto che s'apre / nelle crepe della maturità
// ritrovare le rocce atteggiate / come antichi grembi e dorsi / le
conchiglie dischiuse, i simboli / della preistorica adolescenza //
ritrovare il verde buio della foresta / i vaghi sentieri, l'incanto
/ del caldo animale della sera / della prova, dei segni, dell'acqua
// Lasciami, o vecchiezza / la tua tremante certezza".
La poesia fu per il piemontese un momento di assoluta intimità,
un fatto del tutto privato e personale. Ed è per questo motivo
che sono prive di consistenza le tesi che vogliono Levi voler competere
sul piano poetico con Saba o Betocchi. La poesia rimaneva per il Nostro
il modo più diretto e naturale di condensare in parole i sentimenti,
le suggestioni e le impressioni che, primariamente, diventavano segno.
Proprio dal sodalizio tra segno e parola nascono questi versi, liriche
pittoriche o poesie dipinte, le quali ci rivelano l'aspetto umano
di un artista che avvertiva in maniera certamente acuta il travaglio
della sua epoca, e che riscopre nel Sud il senso di una nuova dimensione,
fatta di un dolore antico che, proprio come quello di proustiana memoria,
fa prorompere la felicità dell'animo quanto più a fondo
scava nel cuore.
Paradigmatiche di quanto andiamo affermando sono le poesie legate
a quell'anno che fu, tanto sul piano umano quanto su quello artistico,
uno dei più importanti della vita di Levi: l'anno del confino
in Lucania (1): "M'avete fatto umano / baci dolenti, terre nascoste
/ dove un dolore antico / era prima del mio arrivo. // Come un classico
dio mendico / sono stato in mezzo al grano / povero e alle scomposte
/ colline del grigio ulivo; secoli di pene imposte / e di desiderio
vano sul biondo tuo viso amico / come in quei monti scoprivo // che
un egoismo lontano / arse paterno e passivo / spogliando d'erbe l'aprico
/ terreno e le tenere coste. // Alle offerte senza risposte / so solo
rispondere, e dico / parole che apran l'arcano / grembo del fonte
vivo. (luglio 1936)".
Ed anche dopo il confino, nel 1941, tornando dalla Francia, ove aveva
scritto il suo primo romanzo, Paura della Libertà, Levi testimoniava
accoratamente attraverso le sue liriche, prima ancora di scrivere
il Cristo quindi, il legame magico e inestinguibile che lo legava
alle terre del Mezzogiorno, ove la natura teneva ancora in soggezione
la vita degli uomini che la animavano. Scriveva Levi: "Strega
con filtri veri / m'hai legato alla tua terra: il mio cuore si serra
/ d'esser così lontano. Ogni albero è una mano / che
si leva sui misteri: / gli occhi son tutti neri / là dove tutto
è un segno. // Un tesoro è nel legno / che fuma e cigola
nel cammino / un angelo è vicino / alla porta, se annotta.
// Sulla terra, corrotta / di malaria e di dirupi / al suono dei cupi
cupi / non risponde che il vento // Immobile momento / l'ora d'oggi
è ancor quella / d'ieri: e nessuna stella / segna il giorno
che muore. / Soli, nel gran calore / silente, gli dei più antichi
sotto i tronchi dei ficchi / fanno la passatella".
Ma del Sud Levi, nelle sue poesie, non rievoca solo i paesaggi panici
o le figure, appena abbozzate ma cariche già di un'antica e
commovente spiritualità, di contadini o innocue e quasi rimpiante
streghe, ma con affetto tributa la sua sincera stima verso quei coraggiosi
uomini, polveri di passioni, che si batterono dal Sud e per il Sud,
arrivando a persuadere il contadino del fatto che "non possiamo
ormai fermarci / perché siam nati, noi, e esistiamo ".
Con particolare devozione Levi si ricorderà nelle sue liriche
del pugliese Di Vittorio, "elevato a simbolo - dirà Plinio
Perilli - d'un vasto, umile riscatto sociale". E nella lirica
Noi esistiamo, ove appunto si trova il tributo leviano al grande sindacalista,
ravvediamo una curiosa analogia con la poesia di un altro grande intellettuale
meridionale, Rocco Scotellaro, che di Levi era stato amico ed estimatore.
"Non possiamo ormai fermarci - scriveva Levi nel 1954 - perché
siam nati, noi, e esistiamo". E di rimando Scotellaro nello stesso
anno: - siamo entrati in gioco anche noi / con i panni e le scarpe
e le facce che avevamo" (2).
Tra le più belle liriche della raccolta Bosco di Evo, inoltre,
ci sono quelle che un insolito Carlo Levi rivolge ad una amata e nostalgicamente
invocata donna del suo recente passato. Fiore reciso, ad esempio,
è una struggente quanto dolorosa presa di coscienza del tempo
che è trascorso, e di quello che Levi sta inevitabilmente trascorrendo,
lontano dalle cose più care, sentendosi così reciso
dalla parte più vitale della sua esistenza: " Vorrei essere
con te sulla riva / dove ti ho conosciuta / e dipingendo il tuo viso
/ ho mutato la mia vita // Danzando con te si scopriva / l'anima sprovveduta
/ e mi tremava in un riso / tuo, di gioia spaurita // Da questa chiusa
afa estiva / tre anni di vita perduta / lontana dal tuo paradiso /
e dalla tua bocca smarrita; // la vita che si apriva // nostra, non
anco goduta / come un bocciuolo reciso / è, stata, ed ecco,
è svanita. (luglio 1935)".
Mentre l'attenzione dei letterati e dei critici d'arte era focalizzata
sulla produzione preponderante di Levi, appunto i romanzi e i suoi
meravigliosi dipinti, le sue liriche sono rimaste verginalmente immuni
dallo scempio di chi vuole ravvisare in esse più di quanto
l'autore voglia realmente trasmetterci, serbando unicamente per sé
il dolceamaro ricordo di qualcosa che non è più. Ed
è per questo che in presenza delle poesie di Carlo Levi possiamo
parlare più che di un colloquio, come affermò Giovanni
Spadolini, uno dei più sinceri amici dell'artista, di un caldo
e intimo soliloquio tra Levi stesso e i suoi ricordi, fatti di mille
cose e di mille esperienze di uomo tra gli uomini, e tra le quali
ci sono anche quelle del nostro Sud.
Levi abbandona la poesia quando, cieco e alla fine del suo avventuroso
viaggio attraverso l'esistenza, avvertì che qualche cosa era
irrimediabilmente finita, e "che non tornerà più,
mai". Quello che purtroppo era venuto a mancare era il contatto
diretto con le cose e con gli uomini, contatto quasi epidermico, formato
da mille, invisibili, taciti legami, che alimentavano la sua vita
e la poesia con essa, poesia che alla fine era destinata a inaridirsi
sino a sembrare, afferma Levi nei suoi ultimissimi versi, "d'un'altra
vita ove odorai".
luca isernia
Note
1) Possiamo addirittura cogliere delle vere e proprie corrispondenze
tematiche, a volte espresse con le medesime parole, tra le poesie
di questo periodo e le pagine del Cristo. La qual cosa fa sospettare
il fatto che Levi si sia servito del materiale poetico che aveva accumulato
in quegli anni per attingervi, allo stesso modo come si fa con un
diario di ricordi, otto anni dopo nel rifugio di Firenze ove venne
alla luce il romanzo.
2 ) R. Scotellaro, E' fatto giorno, poesie. Milano, Mondadori, 1954.
Piscopo scultore
Giuseppe Piscopo
è scultore radicato nelle viscere stesse di questa terra. In
quest'ultima estate, dal primo al nove agosto, il Castello di Gallipoli
ha ospitato una retrospettiva di 60 sue opere, dal 1952 al 1996. Ed
essa, in realtà, come rivelano le date, era ben più
d'una retrospettiva, ma piuttosto l'affermazione, e la proposta, d'una
continuità nell'impegno che meriterebbe, anche solo in quest'amara
provincia, ben altri riconoscimenti dei molti che Piscopo ha ricevuto.
I suoi materiali sono stati, e sono diversi: il carparo, la cartapesta,
il legno (celebre il suo "Chisciotte"), il cemento, la creta.
Esperimenti nati da un ideario in cui già altre volte ho prospettato
l'emersione di forti cariche istintuali o, forse, archetipiche. Ad
esempio il tema, carissimo a Piscopo, delle madri, che ha avuto in
lui così feconde variazioni anche negli ultimissimi tempi,
e che si lega forse a quel sostrato mediterraneo della Dea Madre che
è poi un modo salentino nell'arte, se pensiamo, ad esempio,
alla poesia di Bodini. E si vorrà notare che questo sostrato,
quest'anima istintuale non è per nulla, o assai poco, tributario
di ispirazioni esterne. Perché è innegabile, ad esempio,
che le madri di Piscopo abbiano risentito, per un certo periodo, del
pomonismo di Marini; ma fu solo un tentativo per cogliere più
espressivamente l'istinto; per dotarlo d'un elemento sottilmente edipico,
la sensualità, che è netta in quella fase delle "madri"
del Piscopo, e che ora, nelle ultime madri, spesso squarciate dalla
gola al ventre, s'è persa in ragione d'un più drammatico
senso della maternità e dell'origine traumatica della vita.
Già dunque nella catena istintuale e sperimentale di Piscopo
potrebbe cogliersi la maturazione di esigenze diverse da esprimere
nella creta, ch'è ormai la materia principale (non l'unica)
dei suoi modi figurativi. li dramma non interessa più soltanto
lo scultore per la sua dimensione individuale: la nascita nel dolore
e nella ferita materna. Il dramma attrae ora nella sua socialità.
E questo ha un
suo riflesso architettonico o, se si vuole, compositivo, perché
la scultura di Piscopo diviene oggi, con più continuità,
figurazione di gruppo. Naturalmente il gruppo rientra già da
molti anni nell'arte di Piscopo. Ricordo una bellissima famiglia fusa
in bronzo, del 1958, che fu rubata nel marzo del 1984, in quella famigerata
rapina che, tra l'altro, privò il Salento, e Piscopo, della
più importante raccolta di ceramiche antiche. Rispetto all'ultima
produzione, quei precedenti sono però non solo più rari,
ma anche meno forti, meno carichi di dramma, o di partecipazione.
Le "Madri di Serajevo" del 1993 sono forse una delle prime
prove di questo nuovo modo di Piscopo.
E' una terracotta
di architettura circolare che espone, quasi a difesa, un cerchio di
donne con un figlio incastonato nel debole presidio della carne materna.
L'antico tema delle vittime innocenti della guerra trova un'occasione
di cronaca per riproporsi. Tuttavia, vorrei sottolineare che il gruppo
non è un pretesto del dolore, e che questo non necessita d'un
gruppo per esprimersi e per assumere tono drammatico.
La mestizia assorta del "Bimbo zairese", l'esattezza anatomica
della sua denutrizione, la rassegnazione data dall'eccedenza delle
labbra e dalla profondità degli occhi, sta a prova piena di
come ormai il dolore sia cifra e non artificio dell'arte. Il gruppo,
però, ha un interesse diverso, perché vuol cogliere
la dimensione sociale del dolore, e della sconfitta, secondo un'intuizione
che percepisce appieno le ragioni di Hauser e proietta con segni di
diverso spessore umano l'aspettativa della pace, e della felicità.
Guardate questa fila indefinita di magre figure, sottili e tese come
spighe di grano verso un centro che non c'è, ma è cennato
dagli inviti indietro, o in avanti, di decine di teste, profilate
appena e, soprattutto, traversate da vacui profondi di occhi attoniti.
Non ha importanza che si tratti di prigionieri di Auschwitz o di cercatori
d'acqua di Serajevo, nei quali c'è, evidentemente, qualcosa
di Medardo Rosso, e che Piscopo indica come "L'altra parte della
società".
Meno intimistico, più potente, forse anche più felice
cromaticamente, il gruppo di "Diritto d'asilo" del 1997
espone in modo monumentale un dolore di popolo scavato quasi informemente
nella creta, lasciando indistinti nella parte bassa corpi di madri
e di figli, che salendo si stagliano a cuspide, a vetta ferma, come
un grido, senza che un volto o un profilo possa dirsi veramente raffigurato;
ma solo, e semplicemente, significato nel supremo gesto della sofferenza.
Analogo, ma forse più episodico, il gruppo di "Albania
addio", che erge l'imbarcazione a elemento connettivo d'architettura,
oltreché narrativo, perde forse qualcosa rispetto alla valenza
atemporale del "Diritto d'asilo" ed aggiunge, per convergenze
certo occasionali, una lontana consonanza con la "Zattera della
Medusa" di Gericault, senza, beninteso, l'imponenza michelangiolesca
dei corpi, che qui svaniscono nella fusione dell'unico corpo della
desolazione.
Il "Pugile al tappeto" è invece, io credo, una citazione;
un'opera di rara valenza plastica che si lega, forse, a quel filone
d'autobiografismo presente sempre in Piscopo, e che si rintraccia,
profondamente mascherata, nell'ironia prorompente del "Chisciotte"
e di nuovo qui, più tardi negli anni, nella stanchezza di un
combattente che ha pagato il suo prezzo alla vita e, io credo, all'isolamento
di un'amara provincia perduta tra i mari e la frontiera dell'inerzia,
del qualunquismo e dell'acquiescenza piatta al sorgere del sole. L'idea
dell'abbandono, e il presentimento del tramonto, si legge allora senza
velo alcuno negli "Amanti", visti di spalla e con un andamento
dei corpi, e del capo, appena cennato, che sta tutto a parlare di
malinconia.
Più tragica, non inattesa, e dotata di forza intensa è
la rappresentazione della morte che Piscopo offre con la sua "Pietà",
detta anche "La triste storia". L'enorme corpo del Cristo
accoglie nel suo abbandono le pie donne, e la madre, costrette ad
accompagnare il segno del dolore con l'amara fatica della deposizione,
nel gesto, tutto umano, di carni che sostengono carni, di muscoli
che trattengono gravi, di volti che poggiano a volti. E se altrove
ho scritto d'un fondo cristiano di Piscopo, qui lo ritrovo ancora;
non però nella citazione religiosa, o nella riproposta del
rito. Ma nell'immensità tesa del corpo caduto, che non esalta
la sublimità del sacrificio, ma pone domande sull'immanità
della morte.
giancarlo vallone
Aqua Mater
di Massari
Onde che fluttuano,
vibrano, galleggiano; macchie e venature che creano dissolvenze, che
tracciano insoliti labirinti dell'anima: come un moderno incantatore,
Antonio Massari attrae e cattura i movimenti, gli impercettibili giochi
dell'acqua per fissarli sulla carta assorbente, in una prodigiosa
alchimia di colori e di forme liquide. Questo pittore-filosofo, leccese
di nascita e milanese di adozione, approda a forme d'arte innovative
che superano il figurativismo formale e si traducono in una trasposizione
fantastica e onirica della realtà. Le sue singolari "carte"
prendono vita nell'acqua che diviene il suo strumento creativo, la
sua fonte di ispirazione, attraverso l'utilizzo di alcune leggi fisiche,
quali il principio della tensione superficiale dei liquidi.
Abbandonati i pennelli e il cavalletto, Massari adopera bacini colmi
d'acqua, inchiostro di china colorato e carte assorbenti. L'inchiostro
galleggia, creando suggestive immagini in continuo divenire che l'artista
riesce con grande perizia a fermare sulla carta assorbente. Così
nascono i suoi lavori nei quali il senso del movimento e della vitalità
dominano lo spazio, e i colori creano luci e trasparenze surreali.
La vocazione artistica di Massari si manifesta già durante
l'infanzia, osservando il padre Michele, versatile architetto-designer-pittore,
mentre crea le sue opere. Il rapporto con la figura paterna è
piuttosto conflittuale ma costruttivo, poiché il forte senso
d'inferiorità che il giovane Antonio prova inizialmente nel
confronti del genitore, e che gli impedisce di esprimersi finché
Michele Massari è in vita, si tramuta progressivamente in una
fervida ispirazione che lo porta a sviluppare un modo tutto personale
di concepire l'arte. A venticinque anni abbandona Lecce per trasferirsi
prima a Roma, poi a Clusone, infine a Milano. Qui vive tutt'ora nella
sua abitazionestudio, dove prendono vita i suoi lavori.
Il suo percorso artistico è piuttosto travagliato: partito
dal figurativismo, subisce l'influsso dell'astrattismo, per poi approdare
nel 1963 a quella che egli chiama "una terza strada": "il
caso assoluto, che non è il caso pilotato di Pollock, non è
quello mescolato a gelati, menta e ciliege di Fautrier.
E' proprio il caso assoluto: una volta lasciata cadere una goccia,
sono le sue leggi e non le mie a dare l'immagine". Da questo
convincimento scaturisce l'esigenza di utilizzare le carte assorbenti,
che riprendono il suo desiderio infantile di catturare e riprodurre
i riflessi della benzina sull'acqua. Di questa insolita pittura liquida
l'artista ha isolato nel tempo una cinquantina di generi che riesce
a rappresentare seguendo i percorsi fantastici suggeriti dal suo estro
creativo. Ed ecco gli "Specchi d'acqua", le "Carte
di Teodora", nelle quali predomina l'elemento geometrico; ecco
"Il Piccolo Principe ritorna alla stella", le finestre colorate
per piazza San Marco (presentate a Venezia nel 1993), le "Carte
di Raffaello", o ancora le "Carte di Aloysia Carmela",
dedicate alla martire salentina automartirizzata.
Queste ultime scaturiscono dalla combinazione di onde incrociate e
schermate che creano magici effetti di trasparenza e di mistica penombra.
La tecnica adoperata da Massari non è esclusivamente affidata
alla casualità, ma presuppone ovviamente una conoscenza approfondita
del tempo di immersione della carta e del dosaggio dei colori per
ottenere l'esito desiderato, oltre che una profonda sensibilità
artistica; tuttavia egli ha una visione particolare della sua attività
creativa che lo porta a rifiutare di considerarsi l'artefice delle
sue opere: Al mio lavoro si avvicina molto a quello del contadino
di Saint'Exupèry. Anch'io mi scopro misurandomi con l'ostacolo.
Anch'io strappo poco a poco qualche segreto alla natura e la verità
che ne ricavo è universale". Ed ancora: "In realtà
io non mi considero più l'autore dei miei lavori: chi potrebbe,
per aver capito il seme, ritenersi l'autore della straordinaria creazione
che è la pianta?".
Riservato e poco incline al clamore del successo, Massari, definito
da alcuni critici "transurrealista" e "macchiaista",
ha sempre rifiutato per sé l'appellativo di artista, nella
convinzione che le sue opere non abbiano alcun legame con la pittura
figurativa o astratta né con altre forme d'arte. Questo perché
considera la produzione contemporanea totalmente avulsa dalle precedenti
espressioni scultoree o pittoriche. Massari ha infatti elaborato una
sua personale teoria sulla storia dell'arte, suddividendola in due
periodi ben distinti che, in quanto tali, si prestano ad una differente
interpretazione: se le opere create nel periodo precedente al 1945
erano facilmente riconoscibili ed erano la fonte di vita dalla quale
scaturiva la critica, quelle successive a questa data, che segna l'avvento
dello "stile americano" in Europa, hanno bisogno di essere
supportate dalla critica per avere sostanza e significato. Da questa
convinzione nasce per Massari l'esigenza di creare due storie dell'arte
che abbiano differenti parametri di giudizio.
Il senso innovativo
di questa teoria si ricongiunge alla personale configurazione artistica
di Massari che, lontano dalla pittura convenzionale, lavora con un
elemento insolito, l'acqua, che acquista la valenza di una matrice
da cui scaturisce un mondo parallelo, misterioso e magico, e dalla
quale prendono forma la vita e l'universo, un universo fatto di immagini
fiabesche, di visioni surreali, mistiche, poetiche. Egli stesso dichiara:
"L'acqua è il mio elemento, è il mio pennello,
è la mia tecnica, è un genere". Di questo mondo
sommerso l'artista salentino riesce ad intuire i diversi aspetti,
le varie sfumature, le innumerevoli forme vitali: le ninfee quadrate,
gli specchi d'acqua, le onde parallele, gotiche, a clessidra, la suggestiva
"Acqua rampicante", in cui l'elemento liquido è inserito
in buste colorate ed è fissato al muro per creare l'effetto
della verticalità, I' "Acqua capovolta", realizzata
con bicchieri colmi d'acqua colorata e capovolti con l'ausilio di
piccoli piatti che trattengono il liquido, le "Carte della terra
fiorita sulla bolla di sapone", le "Carte del mare"
divengono in quest'ottica i molteplici elementi di un unico insieme.
In questa dimensione magica anche il colore assume una valenza alchemica:
il verde e il rosa prevalgono, e sono spesso accostati al nero, al
giallo e al blu, talvolta per definire cromaticamente un paesaggio,
una marina, o per visualizzare un'immagine interiore, un moto dell'anima.
E così il "meccanico delle acque" Massari esplora
i luoghi più riposti della sua mente, insegue i suoi desideri
e i suoi sogni di fanciullo e li tramuta in onde, in vortici che con
il loro moto perpetuo avvolgono lo spazio e il tempo, annullandoli.
Ed allora affiorano un altro spazio e un altro tempo, che appartengono
ad un mondo misterioso e sconosciuto in cui l'acqua, l'inchiostro
e la carta divengono gli strumenti per dipingere una poesia colorata
d'Infinito.
marilena nicolardi
SUBLIME MEDIUM
- OPERA D'ARTE: ARTISTA ADDIO!
di Antonio
Massari
Il contesto socioculturale,
il mio tempo, la storia e perfino le verità sono argomenti
che mi vanno un po' stretti e mi fanno male alla salute.
Non è inumano il mondo? Ed io dovrei esserne anche l'artista?
Ma nemmeno per negarlo, per allontanarlo da me con le molle! "Io
sono straniero sulla terra!".
Non vorrei vomitare la mia rabbia sulle arterie putride della de-generazione
e rimanerci dentro come la scimmia di Zarathustra, anzi come la scimmia
della scimmia di Zarathustra. Ci si può sempre rintanare in
una caverna anche vivendo a Milano. I selvaggi, tanto cari a Brancusi,
al "professor" Kandinskij e, da allora in poi, a moltissimi,
non sono fuori dalla storia? Ma anche talenti di assoluta grandezza
ne sono fuori: Shakespeare ha tenuto fuori la sua arte dalla rivoluzione
eliocentrica, Picasso da quella astrattista, Tagore non ha aderito
al costruttivismo, al futurismo, al neorealismo, ecc.; il tardoromantico
MahIer non ha aderito alla dodecafonia e Bach spesso non ha avuto
timore di tornare indietro. E non mancano centinaia, migliaia di personaggi
che, pur solleciti alle adesioni, sono rimasti mezze figure o anche
meno. "Io sono straniero sulla terra!". Chi vuole battersi
intraprenda la carriera militare o, al meglio, quella sportiva! La
mia storia è la presenza di tutta la storia secondo un filo
che passa continenti ed ere e lega i grandi maestri.
"Il mondo - riporto a memoria - gira non già intorno a
quelli che gridano forte, ma intorno a quelli che creano valori nuovi";
intorno a questi gira "silenziosamente" e ancora "I
cattivi poeti usano intorbidare le loro acque affinché appaiano
profonde". Sono riflessioni di Nietzsche che vanno bene a me
ma anche ai miei contemporanei che, in possesso di una "verità"
o di una massima, gridano forte. Ricordo, per inciso, che la prima
virtù dei grandi rivoluzionari è la docilità,
vedi Cristo, Ghandi, "Che" Guevara... Dalla fine del secolo
scorso, le "verità" sono diventate tante, troppe.
E, verità dopo verità, in ambito estetico abbiamo smantellato
tutto, al punto tale che sarebbe ora di scrivere due diverse storie
dell'arte e di mettere a riposo anche l'artista! Che relazione passa
fra la Mitragliatrice di Pascali e l'Assunta di Tiziano? (E ricordo
che essere Tiziano non è facoltativo). Una teoria relativamente
recente sostiene, con analisi da laboratorio, che tre sono gli elementi
costitutivi dell'opera d'arte: l'artista, il medium e l'opera stessa.
Tuttavia, dal momento che il medium è "elevato" direttamente
ad opera d'arte, ci si potrebbe fermare all'elezione della seconda
voce. Allora una roccia (meglio se lunare), un marciapiede rigato
d'orina, un profilato, una busta di caffè sono opere d'arte?
Perché non tutto il resto? Tutto l'universo è un'opera
d'arte?
Io, nel 1963, ho messo da parte l'artista (talento, pathos, demenza,
fantasia, sogno) e sono passato direttamente dal medium all' "opera",
disponendo poche gocce d'inchiostro sull'acqua e catturandole poi
con carta assorbente (successivamente con carta per litografie, oggi
con fogli di metacrilato), sacrificando l' "artista", sublimando
l' "artista Antonio Massari" per risultati inediti, preterumani
ma assolutamente estetici. Dai primi esperimenti ad oggi ho scoperto
una cinquantina di generi diversi e sono tuttora in cammino. La seconda
fase del mio lavoro si limita alla selezione secondo l'istintiva,
misteriosa, categoria della bellezza: categoria interna, kantiana,
che non saprei, e non vorrei, definire.
"Io sono straniero sulla terra!".
- Ma tu, Massari, su quale terra vivi?
- Su questa, ma alle mie condizioni!
- In una torre d'avorio?
- No! In una torre d'avorio in una torre di cemento armato!