Il mercato globale ucciderà la politica?




Rudolph D. Bogard
Economista. Docente al MIT



Dire la verità sul XX secolo è compito da far tremare i polsi, a meno che a farsene carico non siano due fra i massimi storici europei contemporanei, molto attenti alle vicende economiche del mondo: il tedesco Ernst Nolte e il francese François Furet, che in un libro comune, La verità sul Ventesimo secolo, tentano di stilare un bilancio sui cento anni di ideali e di gulag, di strabilianti scoperte scientifiche e tecnologiche e di efferati delitti politici di massa. Le conclusioni sono tutt'altro che incoraggianti: "Nel prossimo secolo l'uniformità al potere". Siamo avvisati. E sono avvisati anche tutti coloro i quali, rassicurati dal crollo dei due totalitarismi contrassegnati da svastica, falce e martello, immaginavano più libertà per tutti e più fantasia al potere. Dobbiamo riconsiderare i testi di fantascienza di Philip Dick (da Ubik a Blade runner) o il classico George Orwell di 1984? Avremo il peggiore dei mondi possibili, col trionfo di una gelatinosa dittatura planetaria?
Sebbene divisi su molte analisi del passato, i due storici sembrano concordare proprio riguardo a questo: il successo epocale del capitalismo potrebbe essere accompagnato dal trionfo di quella sinistra antiliberale che combatté il libero mercato finché le fu possibile, ma che poi, al momento giusto, seppe salire sul cavallo vincente, senza avere più, naturalmente, alcuna intenzione di scendere.
L'amara considerazione di Nolte è espressa con assoluta franchezza: "Io vedo un pericolo concreto, e cioè che il capitalismo, ormai senza freni e dominante ogni fibra del mondo intero, faccia sì che il vuoto spirituale che esso si tira dietro venga riempito da una dottrina che amputi e semplifichi la storia nel modo stesso in cui il sistema economico uniforma il mondo".
E incalza Furet: "In Europa il crollo del comunismo sovietico è stato seguito, stranamente, da uno spostamento dell'opinione. Più il capitalismo trionfa, più lo si detesta. Con l'Urss, il capitalismo ha perso la sua migliore "spalla", che lo rendeva una vetrina della libertà. E' stato spossessato dell'anticomunismo, che era il suo argomento migliore. La critica dei vizi del capitalismo è diventata più libera, più aperta, più facile, da quando si è liberata dal dovere complementare di celebrare un socialismo poliziesco. La cosa strana di tutta questa vicenda è che la sinistra europea non è considerata responsabile né delle compiacenze né del sostegno nei confronti di quel socialismo".
Ecco qual è il punto: il timore di Nolte e di Furet, che hanno sperimentato in prima persona l'ostracismo della sinistra culturale al tempo in cui era egemonica, è un ritorno all'antico sotto forme nuove. Un XXI secolo, insomma, in cui si realizzi una specie di nuova spartizione di Yalta: l'economia assegnata ai liberisti, la cultura a una nuova internazionale della sinistra, capace di ridurre al silenzio i filoni di pensiero non autorizzati.
La rilevanza della duplice denuncia relega in secondo piano gli altri argomenti, più squisitamente storici. Gli esperti della materia potranno trovare interessante, ad esempio, l'offerta di compromesso terminologico rivolta da Nolte a Furet sull'argomento Lager-Gulag: consideriamoli pure due cose diverse, sostiene l'intellettuale tedesco, ricorrendo alle formule di "sterminio biologico" e di "sterminio sociale". Altri si appassioneranno al dibattito (in questo caso lontano dallo sfociare in un compromesso) sulle presunte matrici anti-bolsceviche dei movimenti fascisti: Nolte resta legato all'idea del nazismo come "reazione al bolscevismo", del quale avrebbe riprodotto molti elementi rovesciandone il segno; Furet fa risalire l'origine del totalitarismo di destra a prima del 1914, al tempo in cui il partito di Lenin era ancora minuscolo. E inoltre sospetta che definire il nazismo una risposta alla minaccia comunista sia solo "un tentativo di discolparer l'uno per incolpare l'altro". Una discussione cui non è estranea anche l'appartenenza nazionale dei due intellettuali: Furet ripete di non condividere la tesi di Nolte secondo la quale sarebbe stata l'Action Française di Maurras l'antenata del fascismo, a causa della sua essenza conservatrice, ben lontana dunque dalla carica rivoluzionaria di un Mussolini o di un Hitler.
Ma al di là di queste disquisizioni proprie degli addetti ai lavori, resta la provocatorietà della tesi di fondo che li accomuna. Nolte, ricordando il clima di ostilità che lo circondò alla Freie Universität di Berlino al tempo della contestazione, e il sostanziale appoggio accordato dalla maggioranza dei suoi colleghi, anche negli anni successivi, alla Germania comunista, prefigura un'egemonia censoria della cultura di sinistra, al modo stesso in cui il sistema economico globalizzato appiattisce e uniforma il pianeta. Furet, pur rivendicando componenti libertarie e addirittura anti-marxiste nel Sessantotto francese, capaci di accogliere con entusiasmo le opere di Solzenicyn, riconosce come realistica l'inquietante analisi di Nolte sul passaggio al XXI secolo. La nuova sinistra, quella salita con disinvoltura sul carro del vincitore che aveva sempre combattuto, si dedicherebbe oggi alla demolizione del suo idolo di ieri: il socialismo. Non dovendo più giustificare i regimi dell'Est, "può contentarsi di criticare la società democratica in quanto non democratica, vale a dire incapace di rispondere alle aspettative che crea e alle promesse che fa". Ormai, conclude Furet, "si radica soltanto nel sogno più antico della democrazia moderna, che è quello di distinguere democrazia e capitalismo, conservando l'una e cacciando l'altro, mentre formano insieme un'identica storia".
Triste prospettiva, quella denunciata dai due intellettuali: una fine secolo abitata da "prigionieri di un orizzonte unico della storia, trascinati verso l'uniformità del mondo e l'alienazione degli individui rispetto all'economia".
Ma sarà poi proprio vero che le cose andranno così male e che gli uomini, dopo aver perso l'illusione di governare la storia, finiranno per sottomettersi a tutti i suoi capricci? Forse no, dal momento che Furet ricorda come "tutte queste certezze collettive siano effimere", e Nolte invita gli storici alla mobilitazione degli intelletti: "Fino a che un tale futuro è ancora avvertibile come un pericolo, è necessario opporvisi". Dopo tutto, se il 1984 di Orwell non si è avverato, anche la catastrofe prossima ventura può attendere.
E' stato scritto che per fortuna non tutta la cultura storiografica si è messa sulle tracce dei riti collettivi, delle liturgie di massa, delle cerimonie pubbliche e dei pellegrinaggi ai cimiteri di guerra, espressioni dell'estetica politica in cui i pallidi imitatori italiani di George L. Mosse vedono ormai l'essenza dell'età contemporanea. In Europa, ci sono ancora storici forniti di solidi apparati concettuali, frutto di un dialogo continuo con i grandi filosofi degli ultimi due secoli e di una conoscenza sicura delle dinamiche istituzionali, soprattutto politiche ed economiche, che hanno segnato il volto del mondo moderno. Tra questi, Nolte e Furet, studiosi di area revisionista che ripercorrono i motivi delle loro convergenze e divergenze teoriche, e nello stesso tempo fanno il punto della situazione in cui versano oggi non solo la scienza storica ma la stessa società civile europea.
Il nightmare di Nolte è il "mondo unico dell'economia di mercato della libera concorrenza, in cui tutte le cose sono ugualmente vicine e possono perciò venire studiate con la stessa fredda e indifferente obiettività". In questo deserto di valori, egli vede un pericolo concreto: "Che il capitalismo ormai senza freni e dominante ogni fibra del mondo intero" annulli le individualità, l'intelligenza personale, l'iniziativa di gruppo. Furet concorda, ma sposta la critica: pur dinnanzi alle forze che lavorano all'uniformità del mondo e all'alienazione degli individui rispetto all'economia, resiste alla tentazione del profetismo, in nome del dovere, incombente allo storico, di "reagire contro tutto ciò che assume un'aria di fatalità nell'epoca in cui scrive".
E' una lezione di saggezza da non sottovalutare. Degno epigono di Tocqueville e di Raymond Aron, Furet conosce l'imprevedibilità della storia, e sa quanto siano effimere le cosiddette "certezze collettive". E in effetti, se è vero che sta tramontando un'intera epoca della storia umana, è altrettanto vero che ciò non significa la fine della politica e della cultura e il trionfo incontrastato dell'economia, ma semmai la trasformazione radicale di queste tre classiche dimensioni del sociale. Il declino dello Stato nazionale comporterà forme nuove - e in grandissima parte inedite - del politico: la globalizzazione dell'economia produrrà imprevedibili fattispecie ideologiche di reazione. L'impatto con le tecnologie superiori riattiverà, forse, quel clash of civilizations in cui Samuel P. Huntington vede il nostro prossimo futuro.
In ogni caso, i partecipanti al gioco della vita saranno sempre portati a garantire la propria sicurezza e sopravvivenza, grazie a uno scambio, complesso e articolato, di risorse che non sono soltanto quelle del mercato economico. Quel che ci dobbiamo augurare, entrando nel lungo tunnel che ci sta di fronte, è che i nuovi traffici economici, sociali, culturali, possano essere ancora regolati dai vecchi vigili liberali e che i perdenti trovino sempre istituzioni super partes in grado di consentire una qualche rivincita. Il resto, tutto il resto è in grembo a Giove!


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