Il tonfo delle Tigri




Lucas Delattre, Jean-Claude Pomonti
Editorialisti di "Le Monde"



Il Fondo monetario internazionale è stato uno dei principali protagonisti del 1997. Raramente la sua influenza sugli affari internazionali è stata così grande: "In tre mesi, questa istituzione, che opera nell'ombra, ha imposto le sue condizioni economiche a 350 milioni di persone", ha scritto recentemente l'economista Jeffrey Sachs sul Financial Times. Thailandia, Indonesia e Corea del Sud, tre Paesi sull'orlo del fallimento, dopo aver fatto ricorso al Fondo, sono stati costretti a riformare profondamente la struttura delle loro economie. Non contento di compiere la sua missione tradizionale - ripristinare la fiducia dei mercati - e di permettere il ritorno alla libera circolazione dei capitali in caso di crisi, il Fmi dimostra di possedere una notevole capacità di influenza politica.
La portata dei mezzi utilizzati durante la crisi asiatica è eccezionale. Dall'estate scorsa l'ammontare complessivo delle operazioni di credito coordinate dal Fmi in Asia supera i 100 miliardi di dollari, un importo di gran lunga superiore al pacchetto messicano (50 miliardi di dollari tra la fine del '94 e l'inizio del '95) e del pacchetto russo (10 miliardi di dollari nel '95). Il margine d'azione del Fmi è così ampio perché interviene soltanto su richiesta degli Stati in crisi. Questo è un meccanismo che gli conferisce un'indiscutibile legittimità, nonostante la severità dei suoi "rimedi".
Tuttavia, gli aiuti promessi dal Fondo fino a questo momento non hanno né riportato la fiducia né fermato la caduta libera delle monete. In un Paese quale la Corea del Sud la terapia prescritta dal Fmi è avvertita come un "disonore nazionale", o addirittura come una "violazione della sovranità", ammette il direttore generale del Fondo, Michel Camdessus. La moltiplicazione degli interventi potrebbe accentuare questo fenomeno. Il Fmi, che lavora al riparo da ogni dibattito pubblico, corre di nuovo il rischio di apparire come un ufficio di esperti anonimi, non sempre al corrente delle realtà specifiche dei Paesi che deve risanare.
Il Fmi è oggetto di numerose critiche. A cominciare dai pazienti, che non sembrano apprezzare molto le cure prescritte. Le considerano, anzi, poco efficaci. Così, in occasione del vertice di Kuala Lumpur, nel dicembre scorso, il Fmi si è ritrovato sul banco degli imputati. Rivedete il vostro piano: questo era, tra le righe, il senso del messaggio rivolto al Fmi dai nove Paesi dell'Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (Asean), tra cui l'Indonesia e la Thailandia, quando hanno dichiarato che "la svalutazione delle monete è continuata senza soluzione di continuità, nonostante le correzioni e i miglioramenti portati alle economie dell'area con l'appoggio e i consigli del Fmi".
Forse i metodi classici del Fondo sono superati. Non si è più in presenza di crisi valutarie, con la conseguente necessità di risanare la bilancia dei pagamenti degli Stati indebitati. Ormai si tratta di trovare rimedi a problemi di indebitamento privato. Il Fondo impone a tutti i Paesi coinvolti una rigorosa politica di bilancio e una contrazione della politica monetaria per lottare contro l'inflazione. Ma questa strategia tradizionale, invece di aiutare un Paese ad uscire dalla crisi, può rafforzare il rischio di una recessione. Inoltre, le conseguenze sociali di una politica del genere sono considerevoli.
Certamente, l'energico rialzo dei tassi di interesse - ridando fiducia agli investitori - risolverà l'aspetto finanziario della crisi, ma contribuirà ad accrescere le difficoltà economiche dei Paesi interessati. Anche il liberalissimo settimanale Economist ritiene che "i rimedi del Fondo buoni per ogni occasione sembrano inopportuni se non controproducenti", e aggiunge che "i problemi dell'Estremo Oriente non hanno nulla a che vedere con una forte inflazione oppure con problemi di bilancio, bensì con un sistema finanziario estremamente inefficiente". In un clima di grande austerità, per le banche e le imprese con molti debiti sarà ancora più difficile salvarsi.
La crisi asiatica rilancia, soprattutto negli Stati Uniti, una discussione di fondo su alcuni aspetti della cooperazione monetaria internazionale. Le somme prestate dal Fmi "andranno a finire nelle tasche dei creditori della Corea e non in quelle del Paese", scrive il Wall Street Journal, che sospetta i dirigenti del Fondo e i loro alleati di Washington, di Parigi e di Bonn di voler "socializzare l'economia mondiale", assicurando in anticipo gli investitori che i loro investimenti saranno rimborsati in ogni caso, soprattutto nell'eventualità di bancarotta sui mercati a rischio.
Si tratta del cosiddetto problema del rischio morale, che si presenta quando gli attori dei mercati includono nelle loro valutazioni la convinzione che il Fondo monetario sosterrà, in caso di necessità, le economie minacciate svolgendo il ruolo di prestatore in ultima istanza. Nei Paesi che danno per scontato un tale appoggio, queste garanzie possono addirittura ritardare gli aggiustamenti interni.
Di fronte alle critiche, il Fmi risponde affermando di fare quello che può. "Senza il nostro aiuto, avremmo assistito ad una recessione ben più grave", diceva Stanley Fischer, vicepresidente del Fondo, durante una conferenza stampa a Washington. Rimproverato per aver affrettato la crisi incoraggiando l'apertura dei mercati di capitali, Fischer fa notare che la Corea del Sud, il Paese più gravemente colpito, era anche quello che aveva i mercati più chiusi.
Se il Fmi non avesse fatto nulla, le banche della Thailandia, dell'Indonesia e della Corea del Sud sarebbero state probabilmente rilevate da istituti finanziari americani. Del resto, questa è la politica sostenuta dai liberali americani, che vedrebbero di buon occhio la scomparsa pura e semplice del Fmi. Quanto a Giappone e Cina, che hanno contribuito all'operazione finanziaria del Fondo in favore dei loro vicini, non hanno né la volontà né apparentemente i mezzi per proporre una soluzione asiatica.
La Corea del Sud e gli Stati dell'Asean possono quindi rivolgersi soltanto alle altre potenze economiche per uscire dalla crisi. Così a Kuala Lumpur hanno lanciato un appello per un aiuto immediato non solo al Giappone, ma anche "agli Stati Uniti, all'Unione europea e alle Organizzazioni finanziarie internazionali", e di conseguenza allo stesso Fmi.
Quest'ultimo dovrebbe perciò restare in prima linea, a condizione di sapersi adattare alle mutate esigenze.


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