Europa, ma del Nord




Carlo Cipriani, Alberto Russo



La decisione di allargare l'Europa ad Est è senza dubbio storica: farà cadere le ultime divisioni (il Muro della ricchezza, la mancanza di istituzioni politiche comunitarie) consegnateci da Yalta e da decenni di guerra fredda. Ma questo ampliamento porta un'indelebile impronta tedesca e registra un altro insuccesso dell'Italia. E' stato detto che le priorità, i tempi, i modi con cui la carta geopolitica d'Europa sarà ridisegnata, sono quelli degli interessi strategici germanici: prima di tutto, preservare la democrazia e la pace a Nord-Est, nell'area-cuscinetto compresa tra la Germania e la Russia. Il Mediterraneo e i Balcani possono ancora una volta aspettare. La Turchia può aspettare anche di più.
Per cento milioni di cittadini dell'"altra Europa" l'ingresso nell'Unione è un traguardo di enorme importanza: il Paradiso proibito è diventato una Terra promessa. Unica incognita, la posizione della Russia, che oltre ai rischi sempre incombenti di crisi politiche ha una visibile fragilità economica: l'effetto domino del disastro finanziario asiatico ha fatto crollare anche il rublo, le fughe di capitali stranieri anche dalla Russia preoccupano le banche di Francoforte che sono esposte con massicci finanziamenti a Mosca. Creare un cordone di sicurezza intorno alla Russia militare con l'allargamento della Nato, e politico-economico con l'allargamento dell'Ue, è stata la grande direttrice strategica di Berlino. Per la macchina produttiva tedesca, i Paesi dell'Est sono già da tempo area d'influenza, se non proprio di colonizzazione industriale. Se la loro integrazione economica sarà accelerata, diventeranno quello che l'America Latina è stata (e resta) per gli Stati Uniti: un gigantesco mercato aperto e una riserva di manodopera per collocarvi le fabbriche e guadagnare in competitività.
Il cammino sarà seminato di ostacoli, perché il divario tra noi e loro è ancora grande. Per quel che riguarda le distanze economiche: gli undici candidati hanno il 34% della popolazione dell'attuale Unione, ma solo il 10% del Pil europeo. Differenze sistemiche: per adeguarsi alle regole comunitarie (mercato unico, concorrenza, tutela dei consumatori, ecc.), dovranno incorporare 80 mila pagine di leggi, regolamenti, normative. Ma anche l'Ue dovrà realizzare riforme impegnative: dalle istituzioni più snelle a un autentico bilancio federale, dalla riduzione del diritto di veto che paralizza le decisioni alla conseguente prospettiva della legiferazione varata a maggioranza, al superamento del mostro economico rappresentato dall'attuale politica agricola (difesa, non a caso, dai francesi) che assorbe la maggior parte del bilancio europeo e impone ai consumatori prezzi altissimi per sussidiare una categoria minoritaria.
L'Italia ha tentato di riequilibrare questa geopolitica in direzione dei Balcani e del bacino meridionale mediterraneo, aree di interesse vitale per noi, e ad alto rischio di instabilità. La battaglia, come forse era inevitabile, è stata persa. Noi, alle prese con problemi interni di gran peso, abbiamo molto da chiedere all'Europa, dunque non ci è consentito fare la voce grossa. Ma il problema di fondo resta: il nostro scarso peso negoziale in Europa non può restare a lungo tale, se non vogliamo lasciare in mani tedesche la futura progettualità continentale.
Va sottolineato che questi ultimi mesi hanno segnato anche il ritorno dell'asse Francia-Germania, motore dell'allargamento e dell'Euro. E questo ha compiuto il grande disegno che fu di Khol e di Mitterrand, di fronte alla caduta del Muro: rafforzare la coesione europea, puntando sulla moneta unica; e in seguito aprire le porte alle nuove democrazie. Oggi, il depositario di quella missione è Kohl, l'unico dei due rimasto, e il solo statista che aveva in pugno le leve dei comandi quando andò in frantumi l'Unione Sovietica. Il Cancelliere, più longevo persino di Bismarck, ha unificato il suo Paese, e attraverso l'Europa può ampliare la sfera d'influenza germanica nella pace e nel benessere, fino a frontiere che la follia imperialista del terzo Reich non seppe raggiungere.
Berlino ha fatto una sola concessione, che ha riguardato appunto la Francia, consentendo la nascita del Consiglio dell'Euro, embrione di un governo europeo dell'economia, che può bilanciare lo sterminato potere della Banca centrale di Francoforte, la Bundesbank. Anche questo è un pezzo d'Europa che nasce sotto i nostri occhi. Creato come un consesso informale, il Consiglio non ha poteri costituzionali ai sensi del Trattato di Maastricht. Ma è lì che si decideranno fin dall'inizio questioni delicate, come le sanzioni da applicare nei confronti dei Paesi che, in regime Euro, valicheranno i severi limiti sul deficit pubblico. Di qui a costruire una politica fiscale europea o le strutture di un bilancio federale, ce ne corre. Ma la storia e la forza delle cose spingono in questa direzione.
Sta di fatto che la nostra debolezza ci condiziona, anche se fuori dal club non conteremmo nulla. Al suo interno, dobbiamo cominciare ad affrancarci dallo statuto di socio minore che ci sta attaccato addosso.
A livello più generale, e meglio ancora, continentale, emergono altri problemi, di natura sia politica che economica. Il punto da cui partire è il modo che è stato scelto per costruire l'Europa. Non potendosi contare su un forte potere politico comune (cioè, sulla presenza di una sorta di Stato unitario), la via che i padri fondatori dell'Europa hanno imboccato dal giorno della firma del Trattato di Roma fino a quello della firma dei Protocolli di Maastricht, è stata quella di puntare su una crescente omogeneità delle condizioni economiche di base - deficit di bilancio, indebitamento globale, tasso d'inflazione - tra gli Stati aderenti. E non è tutto: perché ugualmente essenziale è stato il criterio della "sostenibilità" nel tempo di questo stato di cose. Deriva da tutto questo che la prima condizione per allargare non estemporaneamente la Comunità è di esaminare con cura le credenziali economiche e finanziarie dei Paesi aspiranti, cercando di evitare, a scanso di futuri inconvenienti, sconti e sovrapposizioni di desideri alla realtà.
Il discorso, inoltre, non può fermarsi qui. Infatti, se si guarda al futuro meno vicino, è chiaro che il destino dell'Ue non può essere affidato unicamente alla convergenza di partenza tra le condizioni economiche dei Paesi partecipanti, mantenute in vita dal controllo di una Banca centrale dotata del potere fornitole dal "patto di stabilità". Al contrario, sempre più col passare del tempo sarà necessario che questa coesione tragga alimento da un'adesione popolare alla costruzione europea: dal fatto, cioè, che i cittadini dei suoi diversi Stati membri comincino a sviluppare, accanto al legame immediato con le loro nazioni di origine, un sentimento di partecipazione emotiva, e di lealtà, nei confronti della patria più larga che si stanno impegnando a edificare. Sentimento che, a sua volta, presuppone che essi considerino l'Europa non come una pura e semplice espressione geografica, ma come il luogo in cui, nel corso dei secoli, o addirittura di un intero millennio, si è formata una particolare cultura e si è sviluppata una particolare concezione dei rapporti collettivi, dotata di una forte connotazione "sociale", che essi desiderano conservare e difendere.
Conservazione e difesa, va auspicato, paritarie, comuni, tutte insieme di alto profilo. E questo non può essere consentito dalla sola economia/finanza. E' un fatto politico ed è un fatto di cultura. Diversamente avremo una patria formale, un puzzle di patria, con tasselli di differente valenza e di spessori sparigliati, che finiranno per bloccare ogni futura evoluzione nello stesso momento in cui non si riuscirà a bloccare le spinte degli egoismi di parte. E' il versante politico e (si potrebbe dire) soprattutto culturale che può fare da sponda all'altro, basato esclusivamente sul mondo delle produzioni, degli affari e dei commerci: indiscutibilmente necessario, è fuori discussione, ma altrettanto indiscutibilmente senz'anima, senza identità collettiva, e forse anche senza una diffusa democrazia politica.
La fiducia nell'Europa del futuro non può essere soltanto la somma delle fiducie nel marco, nella sterlina, nel franco, e via di seguito, e delle sfiducie nella lira, nella dracma, nella peseta, e altrettanto via di seguito. Né può fondarsi sulla supremazia di una, due o tre monete su tutte le altre. Se l'Euro sarà emblema soltanto di questo, (e non c'è dubbio che per una lunga stagione lo sarà), e non invece il preludio ad un'Europa degli Eguali, in perfetto, per quanto delicato equilibrio tra Nord e Sud del continente, federerà non vocazioni, ma conflitti e contrasti a non finire, con esiti non prevedibili e forse anche drammatici. Questo è il tempo di riflettere, mentre ai suoi confini meridionali premono le masse degli esclusi non dal benessere, ma dalle condizioni elementari, di base, della vita.


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