Quando l'uomo addomesticò il grano




Tonino Caputo, Lorenzo De Vito
Coll.: Giacomo Reale, Lina Verderame, Ottorino Traversi



Si chiama "Fertile Mezzaluna" e forse non era possibile definirla meglio. Nell'immensa regione che si allarga nel Medio Oriente, dalla Palestina fino alla fascia occidentale dell'Iran, si ebbe lo sviluppo delle prime forme di agricoltura. Siamo, secolo più secolo meno, intorno a novemila anni prima di Cristo. Ebbene: oggi si ha la ragionevole prova che in una circoscritta area montuosa di questo immenso teatro, appunto a forma di mezzaluna, si realizzò l'addomesticamento del "Triticum monococcum", uno dei progenitori delle prime varietà di grano coltivate dall'uomo in maniera organizzata. La zona è rintracciabile sulla carta intorno alle montagne del Karacadag, nell'attuale Turchia sud-orientale.
L'eccezionale scoperta si deve a un gruppo di genetisti e di botanici italiani, guidati da Francesco Salamini, Direttore del Dipartimento della fisiologia e del miglioramento delle piante del Max Planck Institut, di Colonia, in collaborazione con l'Istituto Sperimentale di cerealicoltura di Sant'Angelo Lodigiano, in Lombardia. Il metodo di ricerca è consistito nello studio, (con le tecniche dell'analisi genetica e in particolare del cosiddetto Dna fingerprinting con il quale si indaga il materiale molecolare del patrimonio genetico e lo si mette a confronto), di una serie di varietà (poco più di 250) di "Triticum" selvatico rintracciate sia all'interno sia all'esterno della "Fertile Mezzaluna" e un più ristretto numero (poco meno di 70) di assortimenti coltivati di quella specie.
Salamini e i suoi collaboratori hanno rilevato, tra le varietà selvatiche, undici con caratteristiche molecolari in tutto e per tutto simili a quelle coltivate; e queste undici sono per l'appunto circoscritte nell'area del Karacadag. Il Karacadag turco è dunque una delle regioni del pianeta nelle quali è molto probabile che più di diecimila anni fa abbia incominciato a compiersi quella prodigiosa trasformazione che fece dell'uomo cacciatore-raccoglitore un agricoltore stanziale.
Jared Diammond, specialista americano che ha commentato la scoperta sulle colonne di Science, sottolinea come, a stare alle indagini genetiche, le differenze tra la varietà selvatica e quella coltivata razionalmente sono molto piccole e circoscritte a limitatissime parti del Dna. Differenze che tuttavia danno luogo a modificazioni di vitale importanza dal punto di vista della coltivazione: il "Triticum" coltivato ha semi molto più pesanti e grossi, che finiscono per renderlo assai più produttivo. E si tratta di modificazioni che sono intervenute, secondo lo schema della variazione e della selezione tipiche del processo evoluzionistico, in modo del tutto inconsapevole per i primi coltivatori del Karacadag, e in tempi relativamente brevi: come sostiene il gruppo di ricercatori italiani, non più di cento o duecento anni.
Tutto questo, insieme ad altre coltivazioni essenziali delle quali si sono trovate diverse tracce nelle regioni della "Fertile Mezzaluna", (ad esempio, il cece, alcuni tipi di piselli, l'olivo e anche l'uva), fece sì che gli abitanti potessero disporre di considerevoli quantità di cibi ricchi di proteine, di grassi e di carboidrati, tutti elementi indispensabili per un'alimentazione completa. E proprio la maggiore - e più articolata - disponibilità alimentare avrebbe favorito lo sviluppo demografico che caratterizzò quelle popolazioni in quel particolare periodo; spingendole in seguito a migrare verso altre regioni, dapprima nella stessa penisola anatolica, poi giù dall'altopiano, verso le coste del Mar Nero e del Mediterraneo orientale, fino al salto su quello che un giorno sarebbe diventato il "Guado della Giovenca" (nel mito di Giove e di Io), vale a dire il Bosforo: superato il quale, per le correnti migratorie fu un gioco riversarsi soprattutto verso l'Europa.
Fin qui, la scienza col suo linguaggio tecnico, che avvalora le ipotesi impostate dagli archeologi, sulla scorta dei reperti rinvenuti in questa e nelle aree circumvicine. Certamente, infatti, il "Triticum" rinvenuto a Karacadag ci racconta dove e quando l'uomo riuscì ad addomesticare il primo frumento, cioè inventò il modo di far produrre alla terra il cibo di cui aveva bisogno. Questa conquista, insieme con l'inizio dell'allevamento, è uno dei cardini di quella che è ormai nota come "rivoluzione neolitica".
E di vera e propria rivoluzione si trattò, tanto per gli effetti immediati (disponibilità alimentare svincolata dall'"offerta" spontanea della natura), quanto per quelli a più lungo termine (come ad esempio la sedentarizzazione dei gruppi umani e la conseguente trasformazione del territorio), le cui conseguenze si fanno sentire ancora oggi.
La nostra storia attuale, insomma, porta ancora il marchio di quell'antica rivoluzione, nel bene e nel male. Una delle conseguenze meno palpabili, ma di straordinaria portata sul piano culturale, fu la nascita di una nuova visione dell'universo metafisico, che sfociò nella comparsa di una nuova ideologia religiosa, espressa da simboli diversi dal passato.
La concatenazione tra questi eventi è largamente accettata e può essere sintetizzata in questo modo: addomesticamento dei vegetali e degli animali, sedentarizzazione, produzione di scorte alimentari, nascita dei primi agglomerati abitativi e dei primi villaggi, nuove ideologie indotte da cambiamenti suddetti, e così via.
Ma se sugli "ingredienti" di questa rivoluzione sono pressoché tutti d'accordo, qualche dubbio affiora invece sulla successione degli eventi suddetti, e da qualche tempo qualcuno avanza anche il dubbio che spesso vengano confuse le cause con gli effetti.
Fermo sostenitore di una revisione delle varie tappe della "rivoluzione neolitica" è Jacques Cauvin, che espone le sue tesi nel libro Nascita della divinità e nascita dell'agricoltura. Già il titolo esplicita le idee e le ipotesi di Cauvin: la nuova visione metafisica dell'uomo dell'età neolitica non fu la conseguenza di un nuovo e diverso rapporto con la natura, ma - al contrario - fu proprio la formazione nella mente dell'uomo di una nuova visione metafisica a dare avvio a quella serie di comportamenti che produssero la "rivoluzione neolitica".
Per sostenere la sua tesi, Cauvin presenta un'ampia rassegna delle più recenti ricerche in numerose aree della "Fertile Mezzaluna", e fa notare che fino a questo momento si è cercato di rintracciare "il fatto di natura che ha potuto spingere l'uomo a ricorrere, per sopravvivere, all'agricoltura e all'allevamento". Questo modello "materialista", secondo Cauvin, ha condizionato le domande poste ancora più delle risposte. Egli poi fa notare tutta una serie di incongruenze, come, ad esempio, "l'evidente ritardo della domesticazione rispetto alla comparsa, avvenuta quindicimila anni fa, di un ambiente climaticamente favorevole", la nascita degli agglomerati umani e dei villaggi stabili ben prima della stessa nascita dell'agricoltura, la comparsa di figurine neolitiche (le celeberrime dee-madri) prima del Neolitico conclamato. In altre parole: niente di concreto costrinse gli uomini dell'ultimo Paleolitico a cambiare vita, consuetudini, atteggiamenti. Lo fecero quando nella loro mente si affacciò un'idea nuova, "divina", e rivoluzionaria.
Può volare la fantasia (e farsi poesia, come scriveva Arnaldo Frateili in Dea senza volto), parlando delle dee-madri, e ricollegandole ad altre manifestazioni dell'arte, o dell'artigianato artistico contemporaneo?
Non può farlo la scienza. La scienza ha bisogno di dati certi, e nel caso della storia dell'uomo, di dati sempre meno incerti. Un esempio. Scrive splendidamente Arturo Palma di Cesnola (Il Paleolitico della Puglia, in La Puglia dal Paleolitico al Tardoromano): "Sembra corretto, allo stato attuale ed almeno fino a quando non si disponga di elementi che ne rendano obbligatoria l'esclusione, non prescindere dalla situazione del sostrato, ovvero dalla civiltà indigena di base o mesolitica. Forse è questo il lineamento strutturale che determina la diversificazione interna dell'orizzonte: cioè essa deriva da un rapporto più stringente con l'habitat ed è rispecchiata in una notevole specializzazione strumentale, il che è caratteristico del mesolitico, ma è, di per sé, anche una delle condizioni perché si possa verificare la svolta neolitica. L'insieme di questi elementi, in particolare l'assenza di chiari tentativi di neoliticizzazione, paragonabili a quelli effettuati nella cosiddetta Mezzaluna fertile, identificata come la culla del Neolitico dei Paesi affacciantisi sul Mediterraneo, e la mancanza di alcune specie di animali e di piante, proprie della dotazione neolitica, allo stato selvatico, oltre alla presenza in tutti gli insediamenti della ceramica "impressa" che ha una diffusione perimediterranea con concentrazione sulle coste cilicio-siro-libano-palestinesi, ha fatto supporre anche una dipendenza totale da questo focolaio originario. Tuttavia, la delineata connotazione locale della o delle culture esclude una risoluzione del problema storico nei termini di un puro e semplice trapianto. In definitiva, è evidente che l'orizzonte culturale non è più mesolitico in senso univoco, ma non è neanche compiutamente neolitico. La varietà degli aspetti conduce a collocare il fenomeno lungo un arco di tempo compreso tra la fine del VII e la prima metà del VI millennio a.C. Se insistiamo, in via ipotetica, sull'opportunità di considerare nell'ambito del problema neolitico la forte persistenza, variamente attestata, dell'assetto culturale mesolitico, la conclusione più semplice da trarre sarebbe che è tale dialettica, per se stessa, a fornire il principale marchio di identità alla civiltà regionale. La maggiore ricezione di apporti orientali servirebbe a siglare i caratteri distintivi della Puglia rispetto al resto della penisola ed all'Occidente mediterraneo".
La citazione è lunga, ma è giocoforza riportare per intero il pensiero dell'Autore, che nel suo saggio parla brevemente delle due statuette muliebri in osso, provenienti dalla Grotta delle Veneri, di Parabita, "che ben si possono ricollegare con la plastica antropomorfa del Paleolitico superiore europeo". Particolare di rilievo, la posizione delle braccia riunite sotto il ventre, atteggiamento che ci riporta ad alcune "Veneri" ritrovate in Russia.
E' comunque affascinante osservare simultaneamente le statuette russe, quelle salentine e quelle rinvenute nell'area turca. Della Cilicia, in particolare. Alle cui spalle Erodoto fa risalire quel popolo di Amazzoni di cui ancora oggi si favoleggia, con qualche dato meno incerto in più, dopo la scoperta (in Russia) di una mummia di guerriera, con magnifiche vesti e in armi, sepolta accanto a quello che dovette essere il suo cavallo. Le temperature glaciali ce l'hanno conservata pressoché intatta, e il ritrovamento sembra confermare l'ipotesi di un matriarcato che dominò le società primitive, prima che le invasioni dei popoli stanziati inizialmente nel cuore dell'Asia imponessero il loro patriarcato guerriero ed economico-produttivo.
Ma quel matriarcato non morì del tutto. Attraversò i millenni ed è giunto fino a noi, non nelle forme dell'organizzazione delle famiglie e delle società, ma in manifestazioni più sottili, o sottilmente emblematiche, rintracciabili quasi esclusivamente nella turca Cilicia. Qui, ancora oggi, le donne confezionano piccole bambole e tessono figure femminili nei tappeti. Non a caso. Anatolia significa "Terra di Levante", ma anche "Madre Piena". Che vuol dire? Che dalle dee-madri a Cibele e alle bambole di seta cappadocia permane una subdola continuità, come nei disegni-stemmi orditi nelle trame dei tappeti che le donne ancora oggi portano in dote e che segretamente fanno tessere alle proprie figlie perché costoro, a loro volta, ne tramandino le inaccessibili tecniche alle nuove generazioni femminili. Vi compaiono forme antropomorfe, definitivamente stilizzate, di donne non come semplici compagne della vita o come signore dell'harim, lo spazio femminile esclusivo della casa, né come amuleti scaramantici: ma come uniche eredi delle divinità femminili che avevano dominato incontrastate agli albori della civiltà, oniriche presenze nella magia dei luoghi, e appunto, moderne dee-madri del ceppo amazzone il cui spirito si è innervato nell'indole ribelle delle discendenze, ed è un philum senza soluzione di continuità, gelosamente custodito, coltivato, difeso, nel mare della misoginia islamica.
La Cilicia è il corno della "Mezzaluna" che si protende verso occidente. Per tanti versi, dunque, seduce il pensiero che da qui, da questo limite dell'ombelico del mondo, possano essere partite, e approdate in Puglia, dalle parti di Parabita-Bavota (che nome avrà avuto, prima di questi?), o nei rifugi a grotta di Matino, delle Veneri, di Alezio, le culture primigenie, tracciando rotte che avrebbero poi sviluppato il pensiero umano, diventando scuola del mondo.


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