Il Reame riscritto




Ada Provenzano, Gianna Dobici
Coll.: F. Albini, G. Ricciotti, A. Urbani



E' tempo di revisionismi, forse sulla scia di De Felice, di Nolte
o di Furet. Ed era nell'aria la rilettura della storia dell'Italia meridionale pre-unitaria, quella della prima nave a vapore, della prima compagnia marittima commerciale, del primo treno, della vita civile ammirata - allora - nel resto d'Europa. E ignorata - in seguito - dalla nostra storiografia.
E' il caso della Storia del Regno delle Due Sicilie, autore Angelantonio Spagnoletti, editore "Il Mulino": primo di una serie di volumi sugli Stati dell'Italia prima del 1860, con i quali si intende ricomporre un quadro in cui, accanto alle innumerevoli ombre abbondantemente messe in risalto dagli storici risorgimentali e post-risorgimentali, trovino posto anche le luci. Cosicché, come rileva Paolo Mieli, "ne vien fuori il quadro di entità statuali le quali, nel processo portato a compimento tra il 1860 e il 1870, cioè l'unità d'Italia, non trovarono necessariamente redenzione e salvezza, ma solo uno degli esiti possibili della loro storia. E forse neanche il migliore".
Non si tratta di rozze rivalutazioni. Né di processi postumi al Risorgimento, del tipo tentato, ad esempio, da Carlo Alianello col suo La conquista del Sud, che chiudeva un ciclo avviato col più celebre L'alfiere che, in contrasto con l'Abba di Da Quarto al Volturno, vedeva la spedizione dei Mille "dall'altra parte", quella dell'esercito borbonico. Ed è remota, questa rilettura, dall'iniziativa editoriale che vede in campo un vivace settimanale leghista borbonico, Il Sud, che sotto la direzione di R. M. Selvaggi non si stanca di accusare l'unità della penisola e i mali che ne sono conseguiti.
Il punto di riferimento è la corrente storiografica nata intorno alla metà degli anni Ottanta con Carmine Donzelli, dapprima nell'Einaudi, in seguito all'Imes (Istituto meridionale di storia e scienze sociali), poi ancora all'editrice creata quando lo stesso Donzelli, lasciata l'Einaudi, fondò la casa omonima, e infine alla rivista Meridiana. Gli storici impegnati: Augusto Placanica, Piero Bevilacqua, Salvatore Lupo, Giuseppe Barone, Franco Benigno, Gabriella Gribaudi, in parte allievi di un distaccato Pasquale Villani, in più gran parte figli di Giuseppe Giarrizzo. A questo nucleo si sono aggiunti da Pisa Alberto Banti e ancora il sociologo Carlo Trigilia e Marta Petrusewicz, la storica polacca che fa la spola tra le università di Calabria e di New York e che di recente ha sconvolto il mondo scientifico con un saggio in cui ha sostenuto che la "questione meridionale", la descrizione a tinte fosche del Sud prima del 1860, sono stati frutto della propaganda dei fuoriusciti costretti a lasciare il Regno delle Due Sicilie per la repressione seguita ai moti del 1848.
Ci troviamo, dunque, di fronte a un modo di riscrivere la storia del Mezzogiorno che viene da lontano, quantomeno dagli anni Ottanta, che non sopporta di leggere quella storia con le lenti deformanti della categoria "dell'arretratezza". E che addirittura non accetta neanche le espressioni "questione meridionale" e "Mezzogiorno", e più in generale rifiuta tutto ciò che può apparire come "lamento" vittimista sulle miserie delle terre meridionali. Terre che, invece, ai loro occhi, appaiono fecondate dalla modernità, o almeno da alcuni aspetti della modernità, già da molti anni prima che vi sbarcasse Garibaldi. Mieli nota che Pasquale Villani e soprattutto Paolo Macry sono, "in un dibattito tutto cifrato e tra le righe", bersagli polemici dei "revisionisti"; così come Giuseppe Galasso e John Davis, gli storici che più profondamente hanno studiato in modo classico la storia meridionale. Si tratta, comunque, di polemiche carsiche, condotte per allusioni e decrittabili soltanto dagli accademici. Tant'è che non sono finite mai sulle pagine dei giornali. Il dibattito divenne rovente solo poco più di tre anni fa, quando Luciano Cafagna, (in Nord e Sud. Sottotitolo: Non fare a pezzi l'unità d'Italia), definì questo un gruppo di "nazio-meridionali", accusandolo di "forzature retoriche", e ironizzando sulla modernizzazione del Sud tanto cara agli storici "revisionisti" come in parte inesistente e in parte passiva. E si potrebbe osservare che si trattò di una strana guerra in seno al popolo: il materialista apodittico Cafagna attaccava i revisionisti di sinistra che trasferivano gli interessi di ricerca su un piano di equidistanza e di obiettività, affidandosi ai documenti piuttosto che ai giudizi viziati dalle deformazioni semiologiche e dai dogmi ideologici che hanno segnato tanta parte della nostra storiografia.
Le intenzioni dell'Autore sono premesse in chiaro: "La nostra storiografia ormai non considera più l'Italia del XVIII come una realtà "in attesa" della Rivoluzione francese o del Risorgimento, ma guarda anche alla complessità e originalità della storia delle sue repubbliche e dei suoi principati". A questo punto, l'esortazione a ripetere l'operazione condotta a termine da De Felice a proposito del fascismo: cioè ad utilizzare "con dovizia" la letteratura dell'epoca "troppo precipitosamente messa da parte dalla considerazione storiografica perché accusata di reazionarismo". Il tutto seguito dall'invito a considerare la materia trattata "in una luce più laica" e dunque "meno teologicamente orientata", e a guardare alle politiche riformatrici dei Borbone del Settecento "in una prospettiva che non rinvia necessariamente alle origini del Risorgimento". Mettendo bene in evidenza che "le Due Sicilie dal punto di vista della configurazione istituzionale non avevano niente da invidiare ad altre realtà statuali della penisola". E che dopo la stagione di Gioacchino Murat "il riordino dello Stato attorno alle nuove istituzioni nate nel Decennio (gli anni dal 1806 al 1815, quando a Napoli furono al potere dapprima Giuseppe Bonaparte e in seguito Murat, N.d.r.) e consolidatesi negli anni della restaurazione, permise l'instaurarsi di un nuovo rapporto tra potere e società, favorì un elevato grado di integrazione sociale, articolò in modo nuovo le strutture del Paese, concesse spazio ed espressione a forze e gruppi fino ad allora defilati".
Per concludere: "Il personale burocratico ed amministrativo, assieme ai funzionari dei corpi tecnici che davano nerbo all'azione di governo, risolsero in termini nuovi il problema della transizione del potere ed operarono sul tessuto sociale ed economico una serie di interventi che in molti casi contribuirono ad accelerarne lo sviluppo".
Certo, non si manca mai di mettere in evidenza che "gli elementi di positività presenti in maniera non trascurabile" non riuscirono poi a dar luogo ad uno "sviluppo pervasivo". Ma è fuori discussione che i toni sono lontani anni-luce da quelli sprezzanti degli esuli studiati dalla Petrusewicz, della "Protesta" di Luigi Settembrini, delle lettere di Lord Gladstone al conte di Aberdeen (1851), dei dispacci degli ambasciatori, oppure, risalendo indietro nel tempo, del perfido giudizio di Goethe, che nel 1787, dopo una visita a corte, concluse in questo modo: "Il re è a caccia, la regina è incinta, e non si potrebbe desiderare nulla di meglio". In altre parole, siamo ben lontani da quei giudizi spesso e volentieri intrisi di razzismo, che hanno esaltato lo stereotipo dell'arretratezza meridionale, del Sud palla al piede d'Italia, moderno soltanto nell'inventare sistemi sempre più sofisticati per i vari cartelli del crimine organizzato e forme sempre più raffinate di furto di risorse al Nord. Uno stereotipo che è vivo ancora oggi, soprattutto in gran parte dei manuali di storia per le scuole.
Mieli riflette anche su questo, quando scrive: "Anche chi, come gli storici meridionali di questo dopoguerra, ha posto qualche resistenza a tale stereotipo, non ha potuto fare a meno di interiorizzarne alcuni derivati. Basti ricordare a come nell'Intervista sulla storia di Napoli (Laterza) Giuseppe Galasso rispondeva quasi con fastidio a Percy Allum che gli domandava dei "primati napoletani e meridionali ai tempi dei Borbone": "Sì,lo so: la prima nave a vapore e la prima ferrovia d'Italia e così via, ma non era questo l'essenziale…"".
Spagnoletti e i "revisionisti", però, non si fermano ai pur importanti primati cui abbiamo appena accennato. Né si lasciano suggestionare dal profilo di una stagione plurisecolare che durò dal 1130, quando Ruggero d'Altavilla fondò il Regno di Sicilia, fino al 1860, e di cui furono senza alcun dubbio di emancipazione gli anni dei Borbone, dal 1734 in poi, e anche il Regno delle Due Sicilie vero e proprio (1816-1860).
E sempre accanto agli innegabili difetti (chi non ne aveva; chi non ne ha?), non si può rinunciare a far valere ciò che altrettanto innegabilmente lo segnò in positivo nell'epoca della dinastia borbonica: "Napoli ospitava la più splendida corte italiana... e per tutto l'Ottocento borbonico non cessò mai di dar vita ad iniziative imprenditoriali, commerciali e culturali di respiro nazionale ed internazionale". E' altresì evidente quanto si possano apprezzare i comportamenti dei regnanti meridionali nel conflitto tra Stato e Chiesa. Dall'introduzione nel 1741 del principio della tassazione per i beni posseduti dal clero all'espulsione nel 1767 dei gesuiti, considerati "il principale strumento di potere di Roma all'interno di uno Stato che tendeva a laicizzarsi"; dalla riduzione delle diocesi alla firma di un discusso concordato nel secolo successivo.
Grande è l'attenzione anche per il progresso culturale e civile. E' vero che anche i manuali riconoscono oggi ai Borbone il merito di aver costruito la reggia di Caserta e la comunità lavorativa di San Leucio, di avere iniziato gli scavi di Pompei, di avere organizzato il primo esercito nazionale, di aver limitato i privilegi dei baroni, di aver fondato nelle province scuole e accademie. Ma si mettono a fuoco anche molte altre questioni: prima fra tutte, l'imposizione alla magistratura di regole che avrebbero fatto scuola a tutta l'Italia: dall'obbligo, imposto nel 1774, di motivare le sentenze, alle leggi che prevedevano le più ampie garanzie per gli imputati, leggi che vennero addirittura prese a modello dalla Francia quando riformò i propri codici. Un sistema di garanzia così moderno, che persino quegli osservatori stranieri di metà Ottocento che abbiamo visto più che ostili, quasi prevenuti, dovettero riconoscere che il processo alla società segreta "Unità italiana" fondata da Settembrini e da Silvio Spaventa (un dibattimento che pure provocò sommo discredito ai Borbone) si era svolto in un clima di rispetto assoluto delle forme giuridiche.
E ancora nell'Ottocento, il salto culturale, con l'altissimo numero di teatri realizzati: nel 1843 erano ventiquattro nelle province al di qua del Faro e undici in Sicilia. E poi, il gran numero di opere pubbliche: scuole, fontane, camposanti, biblioteche; mentre opifici, mulini e frantoi venivano spostati d'imperio fuori dalle città per la prima battaglia ambientale contro l'inquinamento. E poi strade, tante strade, in un Sud che quasi non le conosceva, se si escludono quelle che aveva tracciato o reso praticabili Murat. Strade efficienti, al punto che quando nel 1836-37 si ebbe un'epidemia di colera, per unanime giudizio fu la modernità della rete di comunicazioni che impedì di realizzare quel cordone sanitario che avrebbe arginato il morbo, così come un secolo e mezzo prima si era riusciti a fare per la peste di Conversano.
Si potrebbe continuare a lungo a riportare esempi del carattere riformatore e modernizzatore che, anche se fra mille contraddizioni, ha contraddistinto ampi periodi dei regni di Carlo (1734-1759), di Ferdinando (1759-1825) e di Ferdinando II (1830-1859). In sintesi, un periodo lungo quasi tutti i 126 anni di regno dei Borbone. Anche se, è sempre bene non dimenticarlo, la "revisione" non consiste nel nascondere neanche uno dei peccati consumati in quel regno. Né nello sminuire le colpe di cui si macchiarono quei dinasti: tra le quali si segnala, per la gravità delle conseguenze, la feroce repressione dopo la caduta della Repubblica partenopea del 1799, che lasciò il Reame senza testa e senza pensiero.
Ma il senso dell'operazione è palese, anche nella sottolineatura delle connessioni tra la stagione di Murat e la successiva restaurazione borbonica. Il messaggio è che almeno fino al 1848 le sorti del Reame erano tutt'altro che compromesse, e, forse, in proposito, si dovrebbe approfondire in sede storica anche l'aspetto artistico dell'Ottocento a Napoli, con la superiorità artistica della prima metà del secolo, rispetto alla seconda che fu sabauda e unitaria, comunque in fase di evidente decadenza. Et pour cause.
Non c'è dubbio: in un contesto siffatto tornano d'attualità le pagine con cui Benedetto Croce iniziava la sua Storia del Regno di Napoli. Egli raccontava di aver trovato nella sua biblioteca un volume, Studi di diritto pubblico, dato alle stampe nel 1870 dal giurista cattolico-liberale Enrico Cenni; e di essersi lasciato travolgere sentimentalmente dalla lettura di parole segnate da evidente nostalgia per i secoli passati. Dal leggere, cioè, di come la lotta contro il sistema feudale era stata nell'Italia meridionale "combattuta assai presto e con non altre armi che la ragione ed il diritto"; di come "la scuola giuridica napoletana si levò maestra in Europa di equità civile"; di come quel regno cattolicissimo "sostenne lungo i secoli l'autonomia e l'autorità dello Stato contro le smodate pretese della Curia romana", non permettendo mai l'insediamento sulla sua terra del Santo Uffizio dell'Inquisizione.
Croce racconta, abbandonandosi affettuosamente al rapimento che procuravano queste pagine, ""...e quasi quasi mi persuadevano lusingando al tempo stesso (perché non dirlo?) quel certo affetto al natio loco che portiamo sempre nel cuore, quel non basso desiderio di sentirci avvolti e sospinti e tenuti in altezza di propositi di speranze, dagli spiriti dei nostri padri, come da una severa coorte che si dispiega nei secoli".
Ricorda sempre e ancora, Croce, di aver sentito una certa sofferenza a posare quel libro, e che solo una convinta adesione ai valori risorgimentali che sono il mastice dell'unità d'Italia riuscì a trattenerlo dalla tentazione, non diciamo di riabilitare, quanto piuttosto di riconsiderare in chiave più benevola il Meridione pre-unitario. Magari concentrandosi sugli anni più lontani, quelli appunto di re Ruggero e della prima parte di questo millennio.
Ma oggi che quei freni inibitori che trattennero Croce si sono allentati, che tutti quei valori nel loro complesso si sono attenuati, che si parla all'interno di ignobili secessioni e all'esterno di sfarinamento dell'identità nazionale nella più ampia (?!) identità europea, proprio ora viene allo scoperto un lavorio degli storici destinato ad una non sappiamo quanto graduale riscrittura di ciò che da oltre centotrent'anni si studia nelle scuole a proposito di Risorgimento e di quel che lo precede. E l'impressione è che da riscritture, riletture, messa in luce di documenti, riscoperta di cultura e civiltà, il Reame abbia proprio tanto - finalmente - da guadagnarci.


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