I meridionali nel cinema italiano




Giuseppe Gubitosi
Docente di Storia della Comunicazione di massa - Università di Perugia



Il neorealismo finì tra il 1948 e il 1949. Su questo punto, in passato controverso, ormai concordano molti storici del cinema italiano. Finì - ed è questo che interessa di più - perché perse le caratteristiche che aveva avuto alla sua nascita. Il cinema non fu più usato per osservare cosa accadeva, ma come strumento di diffusione di ideologie.
Ciò accadde per molte ragioni, dall'acuirsi della "guerra fredda" - basti ricordare le contrapposizioni politiche che provocò l'adesione dell'Italia al Patto Atlantico nel 1949 - al duro scontro interno che fece registrare la campagna elettorale dell'aprile 1948. Fu in questo clima che si rafforzò la convinzione di una gran parte dei cineasti italiani di poter fare un uso politico del medium cinema. Infatti nella campagna elettorale del 1948 all'interno del Fronte popolare nacque un Fronte dei lavoratori dello spettacolo, al quale aderirono diversi cineasti, come Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Antonio Pietrangeli. Nel febbraio 1948 nella riunione della costituente della cultura, che si tenne a Santa Cecilia a Roma, un cineasta propose l'istituzione di un sottosegretariato al quale si sarebbe dovuto affidare il controllo della produzione cinematografica, un istituto che ricordava il Min. Cul. Pop., che era nato appunto come sottosegretariato. Nel febbraio del 1949 si tenne, inoltre, un grande comizio dei cineasti italiani a Piazza del Popolo a Roma, al quale parteciparono, tra gli altri, Alessandro Blasetti, Vittorio De Sica, Anna Magnani, Gino Cervi, che divise profondamente il mondo del cinema italiano.
Ma fu nel convegno di Perugia del 24-28 settembre 1949 che si riaffermò la validità del neorealismo, trattato alla stregua d'una scuola di cinema e che molti critici ritenevano osteggiato dai cattolici e in particolare dalla DC, che faceva valere la maggioranza assoluta in Parlamento da poco conquistata. Fu allora che il neorealismo divenne definitivamente un'altra cosa da quello che era stato fino a un anno prima. Non più un modo "per ottenere lo straordinario con la ricerca", non più la "sincera necessità […] di vedere con umiltà gli uomini quali sono", come ebbe a dire Roberto Rossellini nel 1952. Ma un programma ideologico, una concezione del cinema intesa a promuovere lo schieramento dei cineasti per un modello radicalmente alternativo rispetto alla società italiana. Così il neorealismo diventò - come ha osservato Alberto Farassino - "qualcosa da definire e commentare, su cui discutere, per il quale lottare e schierarsi" e ciò accadeva "proprio perché non [era] più qualcosa che, semplicemente, si fa[ceva]".
Questo modo di fare e di concepire il cinema si manifestò nella struttura dei film, nei quali appariva sempre più spesso un'introduzione o una conclusione, espressa non attraverso la narrazione, ma con un discorso svolto dall'autore in prima persona, affidato a una "voce fuori campo", che in certi casi era quella dello stesso regista. Particolarmente significativa è la soluzione adottata da Giuseppe De Santis in Riso amaro, un film che viene introdotto da un fittizio servizio radiofonico sulla monda del riso in Val Padana, che è un'occasione per parlare delle mondine e di prendere posizione a favore di questa categoria di lavoratrici.
Questo modo di riassumere la tesi del film trovò applicazione soprattutto nei film riguardanti il Mezzogiorno, in gran parte fondati sull'assunto ideologico che quest'area rappresentava il punto debole del modello italiano e come tale era ricca di potenzialità rivoluzionarie. Ciò sull'onda della concezione del Mezzogiorno come "grande disgregazione sociale", espressa da Antonio Gramsci in un famoso scritto apparso per la prima volta nel 1930 e riproposto nel 1952.
La svolta verso un nuovo neorealismo, per la verità, fu segnata dal film meridionale di Luchino Visconti La terra trema, che fu realizzato nel 1948 e finanziato dal Partito Comunista. Il film inizia con una didascalia nella quale, tra l'altro, si legge: "La storia che il film racconta è la stessa che nel mondo si rinnova da anni in tutti quei paesi dove uomini sfruttano altri uomini". Una frase di evidente contenuto marxista che riassume la tesi del film: se vogliono liberarsi dallo sfruttamento, i lavoratori devono organizzarsi. Da quel momento l'uso della didascalia si estese rapidamente, anche perché già allora molti cineasti guardavano a Visconti come a un maestro. Nel 1949, Giuseppe De Santis, anch'egli allievo di Visconti, dedicava un film ai pastori della Ciociaria. Ebbene, il film è introdotto da una didascalia che, trascritta, appare lunga più di 30 righe. In essa De Santis non esita a parlare di se stesso: "Chi vi parla è il regista del film. Sono nato anch'io da queste parti e conosco molte storie accadute qui. Quella che vi racconterò si è svolta di recente su queste montagne" e descrive la Ciociaria come "una terra calpestata da mille eserciti stranieri nei secoli e anche ieri", riferendosi ai militari marocchini, inglesi e così via che hanno attraversato la regione durante la seconda guerra mondiale. Ed è come dire che il film riguarda una regione nella quale nulla è cambiato da molti secoli.
In quello stesso anno, nel 1949, anche Duilio Coletti, facendo un film sulla Calabria, Il lupo della Sila, sentì il bisogno di far precedere l'azione da una lunga didascalia: "La Sila, cuore della Calabria. Gli uomini sono di natura generosa e forte, il cuore resta fanciullo. Come la natura, il destino segna il corso delle stagioni, del sole, delle tempeste. Nella solitudine e nel silenzio della Sila si perde il confine tra realtà e leggenda. Così avviene in questa storia di sangue che fu tragicamente vera ed è già come un sogno e nacque in una notte di luna". Coletti sentì il bisogno di dire espressamente quel che sarebbe dovuto emergere dall'azione e dal succedersi delle immagini: il film narra una vicenda accaduta in una terra immobile, nella quale il corso degli eventi è segnato da un ineluttabile fato.
Si tratta ancora una volta d'un film a tesi. Come lo sono, del resto, una grande quantità di film del periodo tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta. Sono film fatti, cioè, per dimostrare una tesi, un'idea preesistente al film. In questi casi la cinepresa è stata usata con fini didascalici e spesso anche pedagogici, non per osservare e scoprire una realtà. Ciò accadeva proprio negli anni in cui Cesare Zavattini proponeva la tecnica buco nel muro per osservare il vicino di casa, una variante della teoria del pedinamento e delle distrazioni della macchina da presa, elaborata e proposta dallo stesso Zavattini negli anni migliori del neorealismo.
E' un film a tesi anche Il brigante Musolino, del 1950, girato da Mario Camerini in Calabria. In questo caso si tratta d'una tesi forte, secondo la quale i meridionali hanno valori loro propri e una cultura del tutto distinta da quella del resto d'Italia. Applicare ai meridionali le leggi dello Stato italiano è un errore, perché quella legge si sovrappone a un sistema di valori profondamente radicato nel Sud. Accadde addirittura che si aprisse un dibattito che fu portato avanti dai registi attraverso i film. Nel 1952, infatti, un anno dopo l'uscita del film di Camerini, entrò in circolazione Il brigante di Tacca del lupo, nel quale si sostiene la tesi che quella dei briganti meridionali era solo una forma di barbarie, che la loro violenza era di natura criminale e che solo la civiltà proveniente dal Nord - e quindi la legislazione dello Stato unitario - potevano fare assurgere i meridionali a cittadini. Più tardi, nel 1961, Camerini rispose a sua volta con I briganti italiani, un film che spiega perché le popolazioni meridionali sono state e sono antiunitarie.
Nel momento stesso in cui i registi assumevano una tesi e facevano del film un mezzo per esporla e dimostrarla, la funzione della macchina da presa si restringeva e i meridionali apparivano sempre più chiusi in se stessi, tagliati fuori, per loro scelta, dalla storia d'Italia. Anche Rossellini restringeva il suo sguardo e considerava il Sud come un mondo a sé, incapace e riluttante ad abbandonare i cardini della sua peculiare identità. Stromboli, terra di Dio, del 1949, è emblematico, in questo senso, proprio perché ambientato in un'isola, che il mare separa nettamente non solo dal Continente ma anche dalla stessa Sicilia. Per di più la popolazione di quest'isola vive sotto l'incubo delle eruzioni, che la costringono di tanto in tanto a lasciar tutto e a mettersi in salvo. L'unico elemento di continuità tra il passato, il presente e il futuro quindi sono gli stessi isolani. Perciò sono tenacemente legati alla loro cultura ed escludono ed espellono tutti coloro e tutto ciò che viene da fuori, come Karin, la bella lituana portata a Stromboli da un isolano quando era stato costretto ad andare lontano per servire la patria. A Karin, che si sente rifiutata, il parroco non può consigliare che di cercare di inserirsi, di fare amicizia con i locali, di abbandonare, insomma, la sua identità originaria.
Ma questo film rappresenta una svolta nella produzione di Rossellini. Più tardi egli riconobbe che con questo film, nella sua crisi - che con il precedente Germania anno zero aveva toccato il livello più basso - cominciò ad apparire un bagliore, grazie al recupero della fede. Solo la riscoperta di Dio, della fede, in perfetta solitudine e sotto l'effetto d'una eruzione, consente a Karin di risalire la china. Ma per Rossellini è solo l'inizio di una risalita che terminerà negli anni successivi con Francesco giullare di Dio e con Europa 51.
Si tratta, dunque, della scoperta di nuovi modi d'espressione che non hanno più nulla a che vedere con il neorealismo. Solo attraverso queste nuove forme i registi di maggiore talento riusciranno a riproporre il tema dell'apertura dei meridionali al mondo.
Un film a tesi è anche Processo alla città, di Luigi Zampa, ambientato nella Napoli di inizio secolo. Anche questo film ricorre allo stratagemma della "voce fuori campo" per dire ciò che con le immagini non si riesce a dire: "Queste qualità [il coraggio nelle intuizioni e la rapidità nelle iniziative] - dice questa voce descrivendo il magistrato Antonio Spicacci -, aggiunte a una non consueta esperienza di vita pratica, lo avevano fatto preferire ai colleghi nell'istruttoria sul caso Ruotolo". La tesi del film è il forte legame che unisce i napoletani alla loro città. Questo legame per alcuni diventa talmente esclusivo che si creano, mediante la camorra, uno Stato nello Stato, un codice di comportamento del tutto autonomo, anzi antitetico, rispetto alle leggi dello Stato italiano. Ma non per tutti l'amore per Napoli comporta il rigetto della legge e soprattutto dei propri princìpi morali. E' il caso del giudice Spicacci, che ama la sua città fino a rifiutare la scorta anche quando sta per firmare decine di mandati di cattura contro molte grandi personalità cittadine variamente legate alla camorra. E' il caso di Luigino Esposito, così affezionato a Napoli, la sua città, che non riesce ad accettare l'idea di dover emigrare, anche se sa che non può fare diversamente. Ebbene, Luigino dovendo scegliere tra la criminalità organizzata e il "giudice Spicacci", ovvero la giustizia ufficiale, non esita a schierarsi con il magistrato e parla, commettendo la più grave delle infrazioni alla legge della camorra.
Quanto a Pietro Germi, ne Il brigante di Tacca del lupo, come si è visto, ripropone la sua visione unitaria dell'Italia. In questo modo Germi dà il suo contributo di regista al compito di trasformare quell'"incredibile mosaico" che è l'Italia in "un amalgama nazionale omogeneo". Inoltre, nel realizzare Il cammino della speranza, che è del 1950, Germi ha scelto di non far precedere il film da una didascalia, ma di inserire, prima della sequenza finale, un discorso che contiene le sue riflessioni sulla vicenda degli zolfatari siciliani che hanno attraversato tutta l'Italia per emigrare clandestinamente in Francia. E' un vero e proprio brano lirico quello di Pietro Germi, che egli stesso pronuncia rimanendo "fuori campo". Esso risponde a un bisogno di dire con parole piuttosto che con immagini visive quello che il regista teme di non essere riuscito a comunicare al suo pubblico. Solo che questa volta si tratta d'un film ben riuscito e Germi ha avuto torto a temere di non essersi compiutamente espresso con le immagini. Quei siciliani, che all'inizio del film apparivano chiusi, fin quasi a soffocare, nella loro miniera di zolfo, sono poi usciti e non solo dalla miniera, ma anche dal loro paese e dall'isola natìa. Così hanno avuto modo di attraversare tutta l'Italia, di visitare Napoli, Roma, la valle padana e di conoscere gente diversissima da loro.
Andando verso le Alpi hanno imparato a capire i connazionali, che solo apparentemente e in parte sono diversi da loro, e ora non sono più siciliani d'un piccolo e "bianco paese", ma italiani. Giunti alla fine del loro cammino "guardavano" la Francia, annota Germi, che usa il passato per conferire al suo discorso il senso d'un assorto ricordo, e "il loro pensiero andava con accorata tenerezza al bianco paese di Sicilia. Ai luoghi, alle cose, alle persone care che avevano abbandonate per sempre. Ma soprattutto andava ai compagni che avevano perduti lungo il cammino. A Lorenza, smarrita e sola nella grande città, ad Antonio, al quale tutti ormai avevano perdonato, a Momino che più non avrebbe cantato le sue canzoni, a Nanni misero e
lieto che li aveva lasciati gridando: "salutatemi la Francia!", al ragionier Carmelo, ora sepolto nella neve, che gli aveva risposto con voce rotta: "Ci rivedremo, ci rivedremo!" Essi non rivedranno più il buon Carmelo".
Così, il "pistolotto" finale, come l'ha voluto chiamare un critico, uno dei tanti che non hanno saputo amare il cinema di Germi, diventa un brano lirico che si inserisce perfettamente nel film. Ne è il complemento, ne è parte integrante: "Quassù, dove la solitudine è grande, gli uomini sono meno soli e certamente più vicini che per le vie e nei caffè delle nostre città dove la gente si urta e si mescola senza guardarsi in faccia. Lo scambio d'una sigaretta e l'offerta d'un sorso di vino hanno quassù un senso vero di calore umano, esprimono un bisogno di fraternità che sovente gli uomini dimenticano ma che sempre fermenta nei loro cuori. Perché i confini sono tracciati sulle carte, ma sulla Terra, come Dio la fece, per quanto si percorrano i mari, per quanto si cerchi e si frughi lungo il corso dei fiumi e sul crinale delle montagne, non ci sono confini su questa Terra".
La regione di cui parla Germi non è nel Sud, ma tra le Alpi. E' all'estremo Nord del Paese, al confine con l'Europa che si ritrova questa "grande" solitudine. Ed è in questa solitudine che gli uomini si scoprono fratelli, che i siciliani si accorgono - un po' sbalorditi - di avere molte ragioni per ringraziare le guardie confinarie francesi. Il vituperato "pistolotto" aveva dunque la sua ragion d'essere nella necessità di spiegare al pubblico che l'apertura verso l'esterno può venire solo da una profonda religiosità.


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