Le Giravolte




AA. VV.



Isola Marniti

21 poesie (Euroeditor - Luxembourg), con testo olandese a fronte di Nelleke Morina-Oostveen e una succosa introduzione di Tommaso Debenedetti, per questo canirneo di Biagia Marniti incluso nella collana "Les Ducats", che fra gli altri include molti nostri amici, (De Andrade, Accrocca, Astalos, Senghor…).
Versi dai "toni severi", avverte il Prefatore. Nei quali l'affabulazione lirica crea le immagini di un tempo d'autunno, nostra terza stagione, ("Vite settembrina somiglia al tuo / il mio sospeso autunno"), cui son fondale i luoghi di Roma ("per me ormai straniera") e i ricordi modulati nel silenzio struggente di un'adolescenza pietrificata nel passato. Sicché alcune memorie sembrano foglietti staccati da un diario interiore che non ha scatti di ribellione ("Voglio urlare ma non grido"): una levità dolorosa conferisce alla parola la coscienza della sua assorta solitudine.
Quel che colpisce in questa silloge così sapientemente limpida èl'inquietudine di uno sguardo che non solo rende mutevole la coordinazione spazio-temporale di ogni prospettiva e sancisce l'ineluttabile brevità di ogni visione, ("Rotolo verso un cielo che non ho". E poi: "Non esiste la tua vita! non esiste la tua realtà... / Forse scrivere è vincere! un dolore inespresso, debordante / in sensazioni annientate per sempre"), ma insidia anche il fondamento di ogni palingenesi esistenziale. Allora, se "invano batti le ore, i mesi, / alla porta nessuno viene / se non il vento che scivola insistente"; se la madre morente è "stella senza più luce / se non quella che viene dal buio"; se del padre la "voce era il silznio dell'ulivo! che cresce nella terra avara e feconda"; se la "ragazza dal fianco snello / luce nera viso bianco", che emerge plasticamente e subito scompare come incantevole delusa metafora della giovinezza ruvese, è "l'ospite attesa" al filo di lana, a chi, a che cosa affidare l'ancoraggio del proprio sgomento? Alla poesia. Alla parola poetica, chiave salvifica dell'esistenza: "Solitudine duemila / a me presto vicina, / dal tuo invisibile specchio, / dalla tua luce trasparente, / aspetto ancora le parola / che mi aiutino a scoprire / l'inviolata forza dell'universo". Nella parola poetiva risiedono la ricerca dell'essenza imprendibile di noi stessi e di quanto ci circonda, e una tormentata volontà di appartenenza.
Isola Marniti, comunque. Atollo laminato da pietra lavica (che è pietra nera, del nero emblematico di Lilith, "luna nera"), che ha dentro il color bianco, magmatico, dell'ispirazione. Di qui, una poesia in cui ogni percezione, anche la più precisa e luminosa, disvela sempre una propria ombra, e ogni passione, anche la più segreta, è in rotta di collisione con la realtà angosciosa della Terra-deserto che "si dondola / vanitosamente". E' in questo spazio liminare tra conoscenza e spleen, tra fuoco della poesia e cenere della vita medesima, che si stagliano i versi corallini di Biagia Marniti. La cui modernità risiede anche in questo: che oggi la poesia è sempre meno profezia. E' memoria dilatata e mossa, vichiana, tesa alla riconquista dell'innocenza dell'uomo; ed è biografia del poeta che nei versi traduce la sua esperienza, in essi esaurisce l'affiato e vive quel che la realtà smascherata gli può negare.
Dopo Leopardi, la poesia è simultaneamente atto di esplorazione ed epifania del vero. Ma svelando il vero, il poeta deve abbandonare il paradiso terrestre delle illusioni e deve addentrarsi nella "terra desolata" che è la sua antagonista, che esibisce la sua natura irta ed eterna opponendola all'effimera parentesi di una vita umana, che contrappone la sua imperturbabilità all'ansia dell'uomo e le sue leggi come alterità agli aneliti delle creature. E a me sembra che, cantando il male di vivere, dalla prospettiva del suo rosso autunno, Marniti colga in Davamesc l'atto conoscitivo e - in risvolto - l'atto esistenziale, l'uno e l'altro preziosamente incastonati in una nuova scansione musicale e in una nuova eleganza espressiva.
aldo bello


Davamesc

Nessun cocchio
mitico o regale ti appartiene.
Invano batti le ore, i mesi,
alla porta nessuno viene
se non il vento che scivola insistente
fra le fessure e nell'ombra
ti chiama amorosamente.
Esisti.
Anche se a te pare
di non essere cresciuta,
per un malefico davamesc
(*).

Nell'anfiteatro di Lucera

Riconosco la voce del vento
quella voce che a un tempo
immemore mi riporta.
Ritrovo l'antico cielo
e l'ombra dei pini.
Una strana atmosfera mi avvolge
poi la sensazione dilegua
e l'evento è forse la presenza
delle colonne che mi vengono incontro.

L'ospite

Simile a meteora
è il tuo ritorno
ragazza dal fianco snello
luce nera viso bianco.
Nella città ingrata
quale è stata la tua giovinezza
chiedono gli ulivi
il mandorlo rosato
e lungo i vetri
simile al mercurio
le gocce della pioggia?
Sei un'antica pittura ruvese
ragazza dal passo altero,
un "pezzo" da museo
nascosto in clandestine strade.
Giorni di giovinezza lontana,
ignaro bene che più non possiedi
sei l'ospite attesa,
ragazza ruvese.

NOTE
* Davamesc: droga malese che paralizza ed uccide ogni energia volitiva.

 

 

Imprevisto a Beaufort-West

Il Grand Karoo è un immensa Arizona australe, di sabbie e pietraie, di vette tronche e di pendici iperboliche scanalate dal vento; di desolati altopiani feriti da canyon senza un arbusto, dove vivono - chissà come - le brune zebre di montagna. Un lungo nastro d'asfalto, con stazioni di rifornimento ogni trecento chilometri, lo percorre fino ai vigneti di Stellen-bosch che si aprono a sorpresa come un ridente paradiso di dolcezze e frescure subito dietro l'ultimo passo mozzafiato. Ma prima di arrivare a quell'immenso giardino di protee che è la Provincia del Capo, si deve traversare quest'inferno d'ocra e di basalti e accontentarsi, per conforto delle rotaie che portano bestiame e minerali a chissà quale scalo ferroviario perduto nel deserto.
Nell'oasi di Hendricks Verwoerdam con le sue isole di pietrisco nell'azzurro cupo di un bacino artificiale, hanno lavorato parecchi salentini fino agli anni '70. Me lo racconta un caposquadra nero appena smontato dal turno. Gli chiedo se parla italiano. Mi risponde: "Picchi-picchi", e ridiamo insieme di gusto. Fuori da questo miracoloso specchio d'acqua solcato da tortore e libellule, per viaggiare indenni fino alla prossima gas station, ci si deve affidare all'aria condizionata e alle note country-afrikaner di Radio Goeie Hoop. Ogni tanto il segnale sparisce cancellato dalle emittenti di qualche bophutatswana, le riserve tribali disseminate a pelle di leopardo tutt'intorno. Ne sfioriamo una: il confine è un reticolato brillante, quasi asettico, che corre per un paio di chilometri lungo l'autostrada. Superiamo una vecchia Pontiac tutta nera, forse un carro funebre, anch'esso diretto chissà dove, comunque a sud. Ogni cosa qui, come questa lunga macchina da morto, ha un che di ir-reale: un po' tutto sembra onirico in questa ignota provincia interna del Sud Africa, con i bagni ancora separati - per dimenticanza o per abitudine - tra bianchi e neri anche dopo l'abolizione dell'apartheid e i lindi campanili della Chiesa Olandese Riformata.
Finalmente i binari paralleli all'asfalto arrivano alla loro meta: Leeu Gamka è un porto di sabbia, con i docks ingombri di containers. Immani gru sferraglianti sovrastano i vagoni arrugginiti. Nel dopolavoro ferroviario odore di cipolla fritta e di sigari. Giocatori di biliardo intercalano gli schiocchi alla palla a brevi sorsate di birra. Qui dentro i rumori dei convogli suonano ovattati: dal juke-box Elvis canta anche tre volte di seguito Suspicious Mind. Ordino, in inglese, qualcosa da mangiare. Il barman - rigorosamente bianco come del resto gli altri frequentatori del locale - mi fa notare che li dentro sono tutti boere, ma è cortesissimo e mi serve lo stesso con premura.
Si riparte per Willowmore. C'è da cambiare i travellers' cheque, è venerdi santo e la banca è chiusa. Chiediamo informazioni alla locale stazione di polizia. Il tenente Pieter Van Zandt esce circospetto ad aprirci la porta: dietro le finestre i suoi uomini stanno con le armi pronte, un cane lupo abbaia trattenuto a forza da un poliziotto di colore e sporca col muso i vetri. I passaporti italiani sono un ottimo biglietto da visita, perchè l'ufficiale manda subito a chiamare il direttore della filiale che viene, ritira i titoli e ci dà il corrispettivo in rand senza tante formalità. Van Zandt ci chiede se abbiamo notato nulla di strano in giro. Risposta negativa. C'è aria di assedio e, al momento, non ne comprendiamo il motivo. Alla fme ci augura buon viaggio e ci raccomanda di stare all'erta.
Alla periferia del villaggio, che sembra un paese fantasma, un ragazzo nero ci chiede un passaggio per Città del Capo. Sale a bordo. Si chiama Aubrey e lavora in una fabbrica di materiale elettrico. Improvvisarnente la strada si popola: una doppia fila di gente di colore marcia ai bordi della carreggiata: un doppio corteo senza fine, mezzo verso nord, mezzo verso sud. Qualcuno saluta levando il pugno chiuso. Ad un incrocio siamo circondati da un centinaio di persone in atteggiamento non molto rassicurante. Guardiamo il compagno di viaggio con preoccupazione e, sinceramente, temiamo la trappola, ma Aubrey scende a parlare con loro, sembra convincerli; poi torna in macchina sorridendo e ci dice di riprendere tranquillamente a guidare. Il capannello di gente si apre e ci ritroviamo dietro la Pontiac funebre scortata da centinaia di neri che, scopriamo, vengono tutti dalla township Xhosa di Willowmore, tre volte più grande della stessa cittadina abitata dai bianchi.
E' una scena incredibile: saranno centinaia, uomini, donne, bambini, che corrono a passo cadenzato facendo ala al feretro. In testa, armato di lance, un impi, il tradizionale gruppo di guerrieri che avanza quasi volesse sgombrare la strada al passaggio del defunto. E' una danza in cui le zagaglie sono agitate come scope che sfiorano l'asfalto. Aubrey spiega che gli uomini dell'impi stanno scacciando i tokolosh, gli spiriti maligni che tentano di entrare nella scia del funerale per seguire il morto nell'aldilà e dirottarlo tra i demoni. Dice pure che quello è il funerale di un vecchio guerriero.
Entriamo nel cimitero, ed è già la contea di Beaufort-West, una squallida necropoli di tumuli coperti da sassi taglienti; qualche tomba, ma è rara, è ornata da fiori di plastica. Chiediamo il permesso di partecipare al rito e i parenti acconsentono. Il pastore battista legge in afrikaans il salmo 50 lo stesso dei Miserere che a Soleto si canta nella processione notturna del venerdi santo. E oggi è lo stesso giorno qui nel Grand Karoo e in Salento. Poi, a turno, raccogliamo un pugno di terra, rossa come quella di Terra d'Otranto, e diamo l'ultimo saluto a Willem Boesak, classe 1891, veterano del Battaglione Fucilieri di Colore di Sua Maestà Britannica, uno degli scampati alla rotta di Dunkerque, morto ultracentenario per una crisi d'asma nella sua baracca di Willowmore.
gino l. di mitri

 

L'infanzia negata

Introduzione
Questo nostro studio comprende le condizioni di pericolo, disagio, violenza ed abbandono cui è andato incontro in passato e va incontro oggi, il bambino della nostra civiltà.
Sono perciò esclusi tutti i pericoli ed i disagi e le crudeltà cui sono sottoposti i bambini presso popolazioni in via di sviluppo, dalle spaventose ecatombi per gastroenterite, tubercolosi, broncopolmoniti, morbillo, alle stragi tribali, a quelle di pulizia etnica, alle mutilazioni, alla morte per fame. Tali popolazioni sono state prese in considerazione solo quando sono emigrate da noi.
La trattazione è divisa in tre capitoli:
a) Bambino abbandonato ed in pericolo di abbandono;
b) Bambino trascurato, sfruttato, svantaggiato socialmente;
c) Bambino oggetto di violenza fisica e sessuale.
Non abbiamo trattato, invece, degli hadicap fisici, psichici e sensoriali, se non in rapporto ad altri problemi come la trascuratezza e la violenza contro l'handicappato. I deficit sanitari sono stati trattati solo se causati da problemi sociali.
Speriamo che il lettore trovi il testo utile per comprendere come proprio le affermazioni di principio sulla necessità di protezione dell'infanzia, a partire dalla, anche se troppo usata "Maxima debetur puero reverentia", trovino un riscontro modesto nella realtà e come proprio il bambino sia l'essere meno proteto anche nella nostra civiltà.

Cause e forme dell'abbandono di neonati nelle varie civiltà.
L'obbligo religioso di placare gli Dei con sacrifici umani fu la più comune giustificazione della soppressione dei neonati, come al Dio Moloch (Ammoniti) ed a Saturno (Cartagine). Nella leggenda abbiamo l'esposizione di Giove da parte della madre Rea per sottrarlo alla voracità del padre Saturno; esposti furono Edipo, Mosè, Ciro, Romolo e Remo. I sacrifici umani erano vietati solo in Egitto. Presso popoli italici si immolavano i nati durante le feste per la primavera ed in Irlanda, con il culto Druidico, i sacrifici giunsero fino al V secolo. I sacrifici di neonati erano comuni presso gli Atzechi. Esploratori e missionari hanno riferito di analoghe pratiche presso gli aborigeni dell'Africa e dell'Oceania.
Ma la necessità di limitare il numero dei figli è stata la causa vera della soppressione, in massa, dei neonati; in India, fino al secolo scorso, l'infanticidio era legale ed in Cina si sopprimevano molte femmine per contrarre le nascite.
I neonati di peso per la comunità (deformi, deboli ed immaturi) venivano a Sparta gettati nel Taigete ed a Roma dalla Rupe Tarpea.
Le leggi seguivano il costume; in Grecia non si puniva l'infanticidio ed a roma l'abbandono era lecito (Cicerone, Livio, Plauto, Svetonio), su ordine del pater familias.
L'esposizione avveniva nel Foro Olitorio presso la Colonna Lattaria, così detta perchè alcune donne si fermavano ad allattare; molti neonati erano preda di cani, di aruspici o di "nutricatores" che li allevavano per venderli come schiavi.
Solo Augusto, Nerva e Traiano, con le tavole alimentari a chi allevava gli abbandonati, dettero un sussidio, non per pietà, ma per correggere lo spopolamento, dovuto a continue guerre.
I Germani accordavano una migliore difesa al neonato: il diritto alla vita era assicurato (Mundium e Guidigillum) dopo l'imposizione delle armi sul suo capo. Inizia, perciò, un'altra fase; è protetto chi è stato accettato solo chi è nella famiglia gode dei diritti. Già in Roma i figli erano divisi in legittimi (nati dal pater familias con la moglie), liberi naturales (dal pater familias con le ancelle) e "vulgo concepti" (non legati al pater familias).
Il cristianesimo rafforzò la famiglia monogama, escludendone anche i liberi naturales, ma sancì il diritto alla vita di tuti i nati. L'abbandono non avveniva più con la soppressione, ma con l'espulsione; i religiosi si occuparono direttamente di allevare gli abbandonati.

L'assistenza agli abbandonati. I brefotrofi.
I primi brefotrofi nacquero, per l'abate Dateo a Milano (anno 780), a Cremona per il monaco Anasperto (anno 870), poi a Montpellier, a Parigi e a Roma, nel 1201, con Innocenzo III.
Nella sala Sistina dell'Ospedale di S. Spirito, nella sede del vecchio Brefotrofio, vi sono due splendidi affreschi di Scuola Umbro-Marchigiana del XIV secolo: in uno si vedono i pescatori che mostrano ad Innocenzo i cadaverini dei neonati trovati sul greto del Tevere e nell'altro l'apparizione in sogno ad Innocenzo dell'angelo, che gli indica di salvare i neonati e creare il brefotrofio.
I brefotrofi nascevano per gli illegittimi, ma l'accettazione non poteva essere restrittiva e burocratica; alla ruota che funzionava, di regola, di notte, al buio, poteva essere esposto qualunque neonato, anche legittimo, cosicché (1914), quando la ruota fu soppressa fu soppressa al Brefotrofio dell'Annunziata di Napoli e sostituita con una accettazione "amministrativa", le esposizioni si ridussero ad un terzo.
Molte famiglie povere abbandonavano i figli. L'esposizione sostituiva la soppressione, anche se, in larga misura, la soppressione avveniva lo stesso, per la mortalità dei brefotrofi, fino ad un secolo fa, superiore al 60-70%, con punte vicine al 100%. La mortalità indusse i brefotrofi a favorire il baliatico e l'affidamento a mercede nelle campagne. In Italia in tre regioni, il Veneto, il Lazio e la Campania vennero allevate migliaia di bambini con una sopravvivenza vicina a quella media della popolazione e con la creazione di rapporti spesso validi con gli affidatari.
L'affidamento avveniva con la corresponsione di una modesta mercede, salvo il caso di Napoli, ove il bambino veniva preso per adempiere ad un voto, a titolo gratuito e veniva chiamato "figlio della Madonna".
All'affidamento seguiva, spesso, la permanenza del ragazzo nella famiglia, oltre il periodo di corresponsione della mercede (in genere questa cessava all'età di 14 anni, minima per il lavoro). Per dare una veste giuridica all'inserimento nella famiglia, nel 1939, fu creata l'affiliazione, istituto che dava al minore il cognome della famiglia affidataria, ma non diritti ereditari, per non danneggiare i figli legittimi.
Altre volte il ragazzo veniva rinviato al brefotrofio e da questo destinato ai vari orfanotrofi insieme con i pochi sopravvissuti dall'allevamento interno dei brefotrofi. I maschi venivano avviati ad un apprendistato, le femmine dotate per il matrimonio a cura del priore dell'istituto.
Fino al 1800 la domenica delle Palme le pupille venivano portate in processione con il loro corredo, dono del priore ed i ragazzi del contado le sceglievano in spose. La cerimonia finì nel 1800 perchè i ragazzi romani cominciarono a prendere a sassate gli aspiranti sposi!
Evolvendosi il costume, iniziarono i riconoscimenti da parte dei genitori naturali, in particolare della madre.
E' qui necessario chiarire il rapporto giuridico nelle varie legislazioni tra genitori e figli.
Nei popoli derivanti i loro codici dalla "common law" inglese (Inghilterra, ex Dominions, USA) e nel diritto tedesco un nato fuori dal matrimonio, deve essere riconosciuto dalla madre; il padre può riconoscerlo o essere dichiarato tale giudiziariamente; nei paesi scandinavi la madre deve riconoscere il figlio; il padre viene dichiarato tale in via amministrativa; rare le opposizioni giudiziarie. Nei paesi derivanti il loro diritto dal Codice Napoleonico (Italia, Francia, Belgio, Spagna, etc.) il riconoscimento è volontario, sia da parte del padre, che della madre. Vi può essere perciò il figlio di "padre ignoto e madre che non consente di essere nominata, avendosi così un abbandono legale. L'origine di tale norma era nella necessità che nel nostro contesto religioso e culturale vi fosse una difesa della ragazza madre ("ne puella deprehensa gravida occidetur aut infametur") ma anche perchè in Francia, dopo la Rivoluzione, nello spirito di ègalitè, non si volle imporre alla donna quello che non si poteva imporre all'uomo.
Il riconoscimeno materno cominciò in questo secolo a farsi più frequente, fino a toccare in molte regioni (Emilia, Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte) la grande maggioranza dei casi. Si ebbero, così molti bambini, non abbandonai, ma (a parte le sempre più numerose convivenze more uxorio) in condizioni di bisogno per le difficoltà da parte della madre ad allevare il figlio e contemporaneamnete a lavorare per mantenerlo. Si è avuto così un considerevole numero (molte migliaia per anno) di bambini riconosciuti, assistiti (R. D. L. 8/5/27) con ricovero o sussidio alle madri.
Il fenomeno delle adozioni, esplose in tutto il mondo occidentale dopo la seconda guerra mondiale. In un primo tempo la fame dei bambini si verificò negli USA; proprio la guerra portò negli Americani la conoscenza di regioni del mondo popolare di bambini in stato di totale o parziale abbandono. Iniziarono le adozioni internazionali.
Negli anni 1945-60 dall'Italia partirono migliaia di bambini ceduti, sia dalle istituzioni assistenziali, sia da famiglie povere, tramite serie organizzazioni (Croce Rossa Internazionale, Catholique Relief Service) ma anche tramite speculatori.
Splendida fu l'interpretazione di Alberto Sordi di un avvocato italo-americano (episodio realmente avvenuo) scoperto sulla nave in partenza da Napoli, con una decina di bambini da portare in America.
Dopo il 1970 fu carenza di bambini adottabili anche in Italia, per il successo della legge sull'adozione speciale del 1967 ed il flusso si invertì; in Italia giunsero bambini da paesi in via di sviluppo.
Tuttora, nonostante le possibilità di abbandono legale ed il diritto di abortire, esistono, sia pure come eccezioni, delle soppressioni di neonati (ad esempio in cassonetti dell'immondizia). Il codice e però tuttora tenero verso l'infanicidio, non considerato come un vero omicidio, ma come un reato minore, con atenuanti per il particolare stato emotivo e le cosiddette ragioni morali. Sopprimere il feto è lecito; sopprimre il neonato è scusabile. Permane il concetto che una pvera protezione è concessa solo a chi è stato "accettato", come nel Medio Evo.
Se da noi il bambino abbandonato non esiste più, per la sinergica azione degli aborti legali (non si fa nascere chi non si vuol allevare), dei riconoscimenti materni e delle adozioni, moltissimi ve ne sono in Brasile ed in altri paesi del Centro e Sud America e in questi anni siamo venuti a conoscere una situazione grave nell'Europa Occidentale; i brefotrofi erano ieni, ad esempio, in Romania ed a Mosca. In questi paesi, perciò, l'adozione potrebbe avere una funzione per l'assistenza degli abbandonati, da noi non più.

Patologia dei brefotrofi.
Si è già accennato all'alto mortalità dei brefotrofi; con il progresso della pediatria essa si attenuò, fino a rendersi pari, nella migliori istituzioni, alla mortalità infantile generale, ma non si attenuò, per molti anni ancora, la morbilità da ospedalismo.
L'ingresso del neonato nell'istituto era seguito da una serie di episodi morbosi di origine batterica, e specie virale, che comprometteva seriamente l'accrescimento nei primi mesi di vita; a 3 mesi il bambino pesava spesso poco più della nascita, mentre ad un anno, superata l'aggressione microbica, in genere recuperava il peso medio dell'età (Fontana, Menichella).
Le manifestazioni cliniche erano forme respiratorie maggiori e minori, gastroenteriti, sepsi cutanee.
Una malattia, che si verificava solo nei brefotrofi (108 casi nel Brefotrofio di Roma tra il 1960 ed il 1967 ed un solo caso nello stesso periodo negli ospedali e cliniche romane, era la polmonite interstiziale plasmacellulare da pneumocisti carinii. Questa affezione si è dimostrato, in questi anni, essere la più comune manifestazione dell'HIV conclamata; si tratta cioè di una sindrome opportunistica in casi di deficenza immunitaria. Sperimentalmente, nel topo la si riproduce senza infettare l'animale con il protozoo patogeno, ma solo sottoponendo a trattamento cortosonico.
La malattia prendeva i bambini di 1-3 mesi, già colpiti da varie affezini respiratorie e gastroenteritiche. La sintomatologia era di intensa cianosi e dispnea, spesso senza febbre, radiologicamente vi erano un infiltrato ilofugale, interstiziale, in genere bilaterale. L'esito era, spesso, la morte (a Roma circa il 40% dei colpiti); autopticamente od anche biopticamente, con la puntura del polmone, si repertavano le rosette, espressione microscopica del parassita. La malattia è scomparsa negli anni 70 per il diminuito affollamento dei brefotrofi, e perciò con la fine delle infezioni da ospedalismo e si è mostrata sensibile all'isetionato di pentamidina (Menichella) ed al Bractrim.
La patologia virale fu studiata, specie nell'Istituto di Roma, e si verificò che era frequente reperire in un soggeto parecchi virus contemporaneamente; il più comunemente repertati furono i parainfluenzali, gli adenovirus e prima del 1964, data della generalizzata vaccinazione il polio 2. Epidemie di poliomelite nel brefotrofi erano state frequenti. Menichella riportò 70 casi in pochi anni nel Brefotrofio di Roma.
La patologia infettiva da ospedalismo viene oggi meglio compresa per la larga esperienza dei nidi diurni.
L'esperienza dei brefotrofi ha permesso anche di verificare l'importanza dell'allattamento materno nella prevenzione delle infezioni gravi del lattante. Nel 1947, una epidemia con manifestazioni respiratorie e grastroeneriiche colpì il Brefotrofio di Roma; i lattani erano più di 600 di cui circa la metà al seno; i morti furono 70 di cui 67 non al seno. Oggi viene ritenuto meno importante l'allattamento materno perchè, almeno nei paesi sviluppati, non vi sono abitualmente, condizioni di pericolo vero.

Sviluppo somatico e psicomotorio nel bambino dei brefotrofi.
Lo sviluppo staturale dei bambini dei brefotrofi era a volte, compromesso per carenza ipofisaria-ipotalamica da "maternal deprivation". In alcuni casi la documentazione clinica è stata inoppugnabile; un bambino istituzionalizzato a 18 mesi era alto 67 cm.; inviato in adozione, 6 mesi dopo era alto 83 cm. ed aveva così raggiuno il 50° centile. (Menichella).
Il nanismo da maternal deprivation, può aversi in condizioni di disagio sociale anche, fuori dei Brefotrofi, può prendere enrrambi i sessi; vi è bassi GH e somatomedina C; età ossea ritardata; sviluppo sessuale ritardato.
La crescita ponderale, nei brefotrofi, che abbiamo visto bassa nei primi mesi per le continue infezini e che miglioro notevolmente quando diminuiì l'affollamento, è stata ritenuta compromessa anche per difeto di stimolazione affettiva e si collega perciò con gli studi sullo sviluppo psicomotorio del lattante istituzionalizzato.

La carenza affettiva
Un lavoro fondamentale fu "Il primo anno della vita" di Spitz. Questi descrisse due sindromi; una legata alla vita istituzionale nei primi mesi e la chiamò carenza materna totale, l'altra determinata dal distacco, tra i sei mesi e i tre anni, da una figura materna già identificata, che definì carenza parziale o sindrome abbandonica.
Spitz, pediatra di un carcere femminile e di un brefotrofio, aveva osservato che, sia lo sviluppo psicomotorio, specie nella sfera motoria e dell'espressione del linguaggio, sia la crescita che, addirittura, la mortalità, dei lattanti soto sei mesi di vita, erano migliori in bambini allevati nel carcere femminile, dalle proprie madri, certamente non selezionate, quanto a capacità pedagogica ed a sensibilità igienica, in confronto di bambini allevati in brefotrofio da puericultrici specializzate, con una vicemadre ogni 10 bambini. Spitz ritenne che il danno (Carenzza totale) era originato, non tanto dalla mancanza quantitativa di cure, ma dalla assenza di un rapporto individualizzato con la madre, necessario, a sua volta, ad uno sviluppo normale. La carenza parziale o sindrome abbandonica determina nel bambino che aveva perduto la madre, già indentificata, una regressione delle funzioni motorie, adattive e del linguaggio, una perdita della attività ludica, una condizione di abulia. Non conoscendo l'anamnesi si farebbe diagnosi di una malattia organica. Molto dimostrativo fu il film sulle scimmie deprivate della madre di Harlow e Zimmernann: "Natura e sviluppo dell'affetto". Harlow e Bowbly sostennero che esisterebbe una adesione primaria all'oggetto di amore e cioè un bisogno di contatto fisico intimo, che viene associato alla madre, inizialmente, è non solo per la soddisfazione del bisogno di cibo.
Seguì una vastissima letteratura sulla carenza di cure materne (Godfarb, Appell-Roudinesco, A. Freud e Burlingham, Lowrey, Winnicot e Britton, Powdermaker, Bonder e Yarnell, Aynsworth, Massucco-Costa, Colombo, Benso, Tauber e Andry).
Bowbly sostenne che i bambini che avevano subito abbandoni multipli nei primi anni d vita, cosa non infrequente in bambini assistiti, divenivano affectionless, cioè incapaci di ricevere e dare affetto, sviluppavano personalità solitarie (Lowrey), commettevano furti ed altre azioni asociali. Bowbly affermò che la separazine dalla madre era la causa più importante della delinquenza.
Cosa ne è, a distanza di quarant'anni delle opinioni di Spitz e Bowblu? Certamente le verifiche più difficili sono quelle relative alla anaffettività ed asocialità che seguono a distanza i distacchi dalle figure genitoriali nei primi anni di vita. Abitualmente coloro che subiscono tali distacchi anche in tempi successivi molto soggetti a traumi affettivi, carenze pedagogiche ed a disagi materiali. Isolare l'importanza dei vari fattori e difficile, così che numerose furono le critiche e le conferme ai lavori di Bowbly. Studi nostri, in un carcere minorile tenderebbero a valorizzare le tesi di Bowbly (Menichella e Occulto).
La sindrome abbandonica nel periodo acuto e di verifica molto più difficile; nel brefotrofio di Roma la sindrome era spesso evidente quando il bambino, curato ed allattato dalla madre, veniva lasciato ad un anno in istituto, mentre la madre usciva per reinserirsi nel lavoro. Si portò, pertanto, da uno a tre il ricovero della madre, con la creazine di alberghi per il gruppo madre-figlio. Si ebbe con le cure più individualizzate anche anche la diminuzione delle infezioni crociate. L'infezione veniva, cioè trasmessa da chi curava numerosi bambini, non dalle madri che curavano il loro o al massimo un altro bambino; anche i nidi delle maternità ospedaliere sono causa di infezioni più del "rooming in", cioè del bambino assistito dalla madre nella propria stanza anche se il nido pare più curato nella asepsi.
La carenza totale di Spitz e cioè il danno dalla vita brefotrofiale nei primi mesi di vita, esiste con certezza, non altrettanto certa è la causa delle sindrome. Le verifiche in questi anni sono state difficili perchè nei primi paesi civili non vi sono più bambini abbandonati per lunghi periodi e perciò brefotrofi. Naturalmente il primo quesito è ancora, come ai tempi di Spitz, se la carenza si sviluppava principalmente per il difetto quantitativo di cure o per la mancanza di un rapporto individualizzato. Nelle istituzioni vi è personale turnante con due o tre vicemadri nella stessa giornata; le cure da un lato sono poche, aumentandole il costo dell'assistenza diventerebbe proibitivo, ma vengono se possiamo dire, sprecate dal bambino che non individua nella assistente il suo oggetto di amore. Le tre componenti (Spitz) della sindrome da carenza sono: il deficit di crescita, il ritardo di sviluppo psicomotorio e la mortalità. Questa è però, a nostra esperienza legata molto ad affezioni infettive; essa nell'istituto di Roma diminuì verticalmente con la comparsa dell'affollamento e delle infezioni da ospedalismo; bisogna perciò fare una tara alla morte per mancanza di "amore" di Spitz. Certamente la mortalià era molto più bassa nei bambini che avevano la madre in istituto, specie in quelli allattati al seno ma non solo in essi. E' difficile distinguere il danno provocato da ciascuno dei tre fattori negativi nel bambino ricoverato senza madre: la assenza di un rapporto affettivo individuale la mancata protezione da infezioni dell'allattamento al seno e la minor quantità di cure al bambino senza madre.

L'assistenza al bambino in stato di abbandono, oggi.
In seguito agli studi ed alle dirette esperienze sulla sindrome da carenza affettiva le comunità di lattanti, cosidetti sani furono ritenue in realtà: "comunità di malati del soma e della psiche" - Relaz. al progetto di legge sull'adozione speciale - 1964). Conseguenza diretta era che l'assistenza al bambino abbandonato si facesse in famiglie e non in Istituti. Menichella formulò un progetto di "adozione forte" che consentisse la formazione di una famiglia adottiva precoce per non avere i danni da brefotrofio, stabile per non avere le crisi abbandoniche ed idonea ad allevare, educare ed istruire il bambino. La legge si realizzò nel 1967 con il nome di adozione speciale (su proposta della On. Dal Canton). La norma più innovativa fu riuscire ad ottenere che la legge vietasse il riconoscimento di un bambino dichiarato adottabile. Vi fu contesa tra giusnaturalisti che giudicavano assurda la rottura dei diritti di sangue e moralisti che giudicavano preminente il diritto del bambino ad avere una famiglia stabile ed uno sviluppo psicomotorio e affettivo normale.
La legge del 1967 produsse immediatamente gli effetti; già nel 1971 non vi erano bambini abbandonati; l'adozione per gli abbandonati alla nascita si verificò quasi sempre nei primi mesi di vita, evitandosi la carenza brefotrofiale. Rimaneva un problema solo l'abbandono tardivo, di bambini già riconosciuti dai genitori o legittimi, sia per i contrasti sulle dichiarazioni di adottabilità, sia perchè l'adozione di un bambino grande è più difficile, sia perchè non si previene il danno da distacchi o carenze.
I risultati della legge sono stati contestati sui "mass media" dalla ricorrente notizia dell'esistenza ancora di 50.000 bimbi, erano 300.000 prima della legge sull'adozione, negli Istituti per Minori Poveri e abbandonati.
Innanzitutto non sono più 50.000 ma 25.000, non sono bambini ma "minori": quasi tutti hanno più di 12 anni, non sono abbandonati perchè in gran parte provengono da famiglie che hanno ottenuto, per povertà o raccomandazione, di far studiare, senza spese ed in un luogo protetto, i figli. A volte si trata di minori che hanno una famiglia parziale, spesso la madre, come i figli di domestiche.
Il buon risultato della legge sull'adozione (alcune modifiche tecniche sono state apportate nel 1983 insieme con le norme sull'adozione internazionale), è documentato anche dal paradossale scontento degli aspiranti genitori adottivi, che non trovano bambini da adottare, come se la legge fosse stata fatta, non per dare una famiglia ad ogni bambino abbandonato, ma per dare un figlio a chi lo voleva (ogni anno in Italia vi sono circa 1000 bambini abbandonati e circa 40.000 nuove coppie sterili!
Il successo della legge ha portato anche alle azioni truffaldine per avere un bambino (donne che si fingono gravide e con la complicità di cliniche, dichiarano di aver partorito il figlio di un'altra donna o uomini che riconoscono un figlio di altri, come in noti fatti di cronaca).
La mancanza di bambini da adottare esclude decisamente l'opportunità di ricorrere a norme che amplino ad anziani e a single la possibilità di adottare, come spesso viene proposto; non si trata di riconoscere un diritto per gli adottanti, riconosciuto un fatto a livello inernazionale, ma di dare al bambino la famiglia più idonea. Potendo dargli per genitori una coppia di cogniugi giovani, che possano coprire i ruoli di padre e di madre analogamente ai genitori naturali (adoptio naturam imitatur) è assurdo dargli per genitori dei nonni o solo il padre o la madre.
Lo studio degli adottanti deve riguardare la validità e stabilità della famiglia.
Un'attenzione deve essere rivolta alla oblatività della richiesta (accettazione di bambino di varia età, con problemi sanitari, educativi e razziali), all'accordo sulla richiesta da parte dei coniugi, specie la madre adottiva.
Il medico deve potere escludere una malattia mentale dei coniugi, gravi disturbi caratteriali e malattie croniche contagiose, come la tubercolosi. Si deve porre attenzione alle tossicodipendenze ed all'alcoolismo. Si deve poter fare anche un calcolo di probabilità di vita; divenire orfano per un abbandonato è ripetere una esperienza di abbandono.
Il medico deve svolgere uno studio sull'adottando. E' bene chiarire che questo studio non deve servire a garantire lo stato di salute del bambino: l'adozione è un atto oblativo ed a rischio; non si può chiedere che il bambino sia sano.
Prendendo bambini dei primi mesi di vita tale garanzia inoltre è impossibile specie per i disturbi del sistema nervoso; numerosi sono stati i casi di cerebropatie, epilessie, sordomutismo etc… in soggetti adottati pur studiati da buone istituzioni assistenziali. Lo studio deve servire a preparare gli adottanti alle difficoltà e malattie del bambino; si sono inviati in adozione bambini cardiopatici poi operati a cura degli adottanti, bambini con deficit sensoriali, con ipotiroidismo, con malattie metaboliche. Gli adottanti preparati dal medico del servizio adozioni, spesso hanno mostrato sensibilità ed oblatività.

Assistenza ai bambini in stato di bisogno. L'affidamento familiare.
Per i bambini non in abbandono ci si orienta verso l'affidamento familiare o verso l'allevamento in gruppi famiglia, escludendo, per i più piccoli i collegi. La scelta dovrebbe dipendere dall'età del bambino e dal tempo per cui si giudica necessario proseguire l'assistenza. Più il bambino è piccolo e più si prevede un lungo periodo di assistenza e più la scelta è verso l'affidamento familiare.
Mentre vi sono alcune decine di domande di adozione per ogni bambino adottabile, è difficile reperire famiglie non mosse dal movente captativo di avere un figlio, ma solo da quello oblativo di fare un servizio per la comunità.
I servizi debbono sensibilizzare i possibili affidatari.
Lo studio del caso è più complesso di quello per l'adozione; bisogna studiare due famiglie, quella affidataria e quella di origine del minore e renderle compatibili (Soulè e coll.); favorire poi il rientro del bambino nella famiglia naturale; compito difficile, perchè spesso gli affidatari, che si sono affezionati al bambino, non ritengono che questi, nella famiglia naturale, possa aver garantito tutto quanto aveva con loro.
L'affidamento può contemplare una mercede, come servizio per la comunità; non vi deve, però, essere uno stato di bisogno, che possa farla appetire.
Il medico deve tenere sotto sorveglianza il bambino, con assiduità, perchè il piccolo è sotto responsabilità pubblica.
Comunque l'affidamento familiare, che era per bambini abbandonati, quando non vi erano le adozioni (solo il brefotrofio di Roma aveva negli anni '50 oltre 5000 bambini nel Frusinate), è rivolto, ora, a bambini non abbandonati ma in condizioni di precario bisogno, con lo scopo del rientro poi nella famiglia naturale; serve anche per ragazzi grandi con problemi o handicap; esige preparazione e sensibilizzazione delle famiglie ed, a volte, vera professionalità.
Gli affidatari non devono avere una motivazione adottiva né devono tentare di distaccare il bambino dalla famiglia naturale.

Istituti per l'infanzia oggi. Brefotrofi.
I brefotrofi svolsero un ruolo importante per lo sviluppo della Pediatria; ad illustrarli bastano i nomi di Filkestein, Brusa, Moro, Vitetti, Ortolani. Avevano migliaia di assistiti.
Il brefotrofio di Roma nel 1947 aveva oltre mille ricoverati sparsi in 5 sedi; fu progettato un nuovo istituto su 12 padiglioni; quando il primo dei dodici fu costruito rimase vuoto. Adozioni, riconoscimenti ed aborti avevano rivoluzionato la situazione; ora è chiuso. Ugualmente chiusi quasi tutti quelli del Nord e del Centro; pochi rimangono in Italia Meridionale. Ne esistevano uno per Provincia, anche se non tutti erano a diretta gestione della stessa. Alcuni erano istituzioni medievali o rinascimentali, come l'Ospedale degli Innocenti a Firenze, del Brunelleschi, con ceramiche di Andrea della Robbia e la Rela Casa Santa dell'Annunziata a Napoli, ove avvenne l'esposizione di un neonato celebre, Vincenzo Gemito.
I breforofi spesso sono stati trasformati in enti ospedalieri, specie per la cura di immaturi e di lattanti, utilizzando la professionalità del personale.
I brefotrofi residui accolgono gruppi madre-figlio, specie in donne da proteggere contro la violenza. Accolgono anche rari lattanti minorati. In questi ultimi tempi sono serviti per donne straniere, in genere, domestiche, prive di alloggio; hanno accolto anche figli di tossicodipendenti, specie positivi per AIDS. Si tratta di poche centinaia di ricoverati in tutta Italia (trentanni fa erano 12000!).

Istituti Educativo Assistenziali. Orfanotrofi
Prima della legge sull'adozione, ricoveravano circa 300.000 minori tra normali e minorati psichici, sordomuti e ciechi. L'assistenza lasciava molto a desiderare, il più delle volte, non per colpa dei religiosi degli istituti, ma per la scarsa sensibilità degli enti pubblici ricoveranti, che, mentre avevano per i propri istituti spese elevatissime, erogavano agli istituti privati rette di fame. Frequenti sono state le inchieste penali per maltrattamenti, deficenze alimentari ed igieniche, locali fatiscenti, occultamento di minori adottabili ai fini di non perdere le rette (accusa questa, il più delle volte, senza basi).
Qualche istituto (es. Salesiani) è riuscito ad avviare a buon lavoro i ricoverati e questi hanno mantenuto rapporti con i loro istitutori, da altri sono usciti ragazzi caratteriali. Le femmine hanno avuto, in genere, risultati più validi.
Lo scarso numero di ricoverati, oggi, ha fatto chiudere molti istituti, ha ridotto le dimensioni di altri, ne ha trasformato in case famiglia altri ancora. La validità delle strutture, che una volta era legata alla presenza di palestre, campi giochi, corsi specializzati di apprendistato, è oggi piuttosto nella apertura all'esterno; le scuole e lo sport devono essere in comune con i ragazzi del quartiere o nell'interno dell'Istituto o in scuole pubbliche.

Case famiglia e comunità.
Tra le varie comunità alcune, rivolte all'assistenza all'infanzia, in contrapposizione con orfanotrofi tradizionali, hanno cercato di imitare la famiglia creando gruppi pseudofamiliari, in una struttura comunitaria, con padri e madri putativi, senza separazioni di sesso e di età degli assistiti; tra questi Nomadelfia (Don Zeno), Bologna (Descovicxh), Narni, Capodarco etc.. Fuori d'Italia sono note le "Dom Communa" in Russia, le Comunità dei villaggi in Cina e le "Maisons des Enfants" dei Kibbutz in Israele; queste ultime di alta spiritualità, con buoni risultati educativi, ma legate al Kibbutz (Bartholemy). Le case famiglia hanno spesso risolto i casi difficili, ma non sono dilatabili; sono legate alla personalità dei fondatori ed alla spiritualità del gruppo; non possono essere fondate per decreto legge.

Assistenza alle madri.
Gli asili materni per le gestanti gravide (celebri le medievali "Celate di S. Rocco") sono stati chiusi, salvo alcune piccole istituzioni. Non vi è più la richiesta pressante del ricovero segreto per la gravidanza della nubile.
Gli alberghi materni, per il gruppo madre-figlio hanno ancora una certa funzione per donne sole senza l'appoggio della famiglia o del convivente.
Raro il reperimento di posti di lavoro e di case, da parte degli enti di assistenza che, in tutti i paesi, sono stati piuttosto avari anche nella misura dei sussidi.
Nota è la frase di Bowbly: "certi governi, disposti a spendere molte sterline per ricoverare un bambino, tremerebbero a darne la metà ad una nonna o madre nubile per assisterlo a casa".
La concessione del sussidio va completata con un'azione di fiancheggiamento, che deve partire dalla gravidanza.
Bisogna astenersi dal fare pressioni perché la madre riconosca il bambino o perché non lo riconosca. In passato molti riconoscimenti avvenivano per pressione delle religiose o dei medici che ponevano un caso di coscienza nei confronti del bambino. Si determinava spesso un insuccesso, con abbandono tardivo, più dannoso di quello precoce. Oggi, invece, si spinge la donna, a volte forzandola, a lasciare il figlio per la pressione delle adozioni.
Il comportamento corretto è quello di favorire il rapporto, non per ragioni morali o per l'interesse del neonato (che oggi in realtà non esiste più), ma nei casi in cui è la madre che ha bisogno del figlio; bisogna cioè indagare sull'accettazione del figlio. Bisogna evitare i riconoscimenti fatti solo per legarsi un partner e assolutamente quelli in cui il bambino verrebbe usato per "salvare" una madre psicotica o drogata (tentativi di servizi sociali centrati sulla donna e non sul bambino).
Il risultato dell'assistenza al gruppo madre-figlio molte volte è infelice. Soulè ebbe buoni risultati in 2 casi su 50! Si hanno nuovi abbandoni, maltrattamenti, difficoltà di rapporti con la madre e il figlio. L'esperienza personale mi ha dato discreti risultati, quasi solo con donne mature; per le donne giovani, peggio giovanissime, i risultati sono stati più accettabili solo se i nonni materni hanno assunto un ruolo (per le minorenni è il tribunale che affida spesso il bambino ai nonni), alleggerendo la madre del bambino di parte delle sue responsabilità, La donna molto giovane, se sola, spesso scarica sul figlio le proprie tensioni: questi rappresenta tutto il bene e tutto il male della sua vita, la esalta, nel suo orgoglio di allevarlo da sola, la costringe al lavoro, la umilia di fronte a nuovi partners. La condizione di ambivalenza porta a grandi manifestazioni di affetto e a maltrattamenti. L'esito, se il rapporto è favorevole, è di una dipendenza del figlio dalla madre, con tendenza per la femmina di riprodurre la condizione di madre nubile della madre idealizzata e per il maschio di avere incertezze in campo affettivo, caratteriale e sociale.
Se si propende per il riconoscimento, è opportuno curare i rapporti madre-figlio già in reparto di maternità. Vi è differenza nei rapporti futuri e nell'esito in abbandoni tardivi e maltrattamenti se la madre ha curato e allattato il bambino nel periodo sensibile delle prime ore (Klaus).

Abbandono in ospedale
L'abbandono in ospedale assume due forme nettamente distinte: la prima è l'abbandono forzato del bambino in ospedale per effetto di regolamenti ospedalieri che vietano la permanenza dei genitori presso il bambino; la seconda è l'abbandono colpevole del bambino, non ritirato alla dimissione dall'ospedale.
Il primo problema è stato di estrema gravità. Fino agli anni 1950 il ricovero dei bambini in ospedale si faceva spesso nel reparto degli adulti, in genere delle donne; la madre, se poteva, accompagnava il bambino; poi, specie con la costituzione dei reparti di pediatria, sorsero nelle maggiori istituzioni, per ragioni igieniche e organizzative, dei regolamenti restrittivi che permettevano solo orari di visita, salvo che alle donne che allattavano. Si concepiva che la funzione materna fosse solo quella di nutrire il bambino.
I genitori venivano visti come elemento di disturbo, di interferenza e di pericolo; in casi limite i genitori venivano invitati a non farsi vedere dal bambino, perché causa di pianto e di difficoltà di adattamento del bambino all'ospedale.
Iniziò Robertson (1952) a sensibilizzare l'opinione pubblica inglese con due filmati su una bambina di due anni in ospedale, ricoverata senza la madre e con la madre. In Italia vi fu Il bambino non è dell'ospedale a cura dell'Istituto di Biometria medica di Milano. Da Robertson e Bowbly furono ripetuti i quadri della sindrome abbandonica. Il bambino attraversava quattro fasi:
protesta: della durata di alcune ore. Il bambino piange disperatamente perché crede il genitore dietro l'angolo;
disperazione: il bambino per alcuni giorni mostra un pianto flebile e una riduzione dell'attività ludica;
adattamento: il personale riferisce che il bambino comincia ad accettare le cure delle infermiere;
negazione: il bambino rifiuta di riprendere contatto con i genitori che l'hanno lasciato e finge di non riconoscerli.
L'esperienza ha poi dimostrato che oltre ad evitare i danni dell'abbandono, il ricovero delle madri accorcia i tempi di degenza, perché le madri si preparano in ospedale a poter curare il bambino a casa; per lo stesso motivo divengono più rari nuovi ricoveri e lo stesso personale impara qualcosa dalle madri.
In Italia il problema fu gravissimo fino agli anni '80, quando, finalmente, molte regioni (attualmente circa la metà) fecero delle leggi sia per la permanenza dei genitori presso il bambino ospedalizzato, sia per la permanenza del neonato presso la madre puerpera. E' però assurdo che il Parlamento non trovi il tempo per approvare una legge nazionale, proposta ormai da quattro legislature. Il rapporto tra madre e figlio in momenti così delicati investe un diritto assoluto del bambino: non può essere diverso da regione a regione.
L'altra forma di abbandono, quello della famiglia che non ritira il bambino dimesso dall'ospedale, è tuttora non raro, così come esistono ancora ricoveri con simulazione di malattia del bambino per il week-end. Il medico ospedaliero, dopo sollecite ricerche, deve avvisare il Tribunale per i Minorenni. A volte, come nel caso dei nomadi Rom, non si tratta di un vero abbandono, ma del desiderio di lasciare per più tempo possibile il bambino in una struttura più sicura della propria baracca...
vincenzo e giovanna menichella

(1 - continua)


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