Polemiche, referendum,
discussioni, contestazioni. Nonostante tutto, Maastricht è
andato avanti come un rullo compressore, ha portato diritto all'Unione
europea, oltre che all'accordo di Schengen, e promette per il futuro
tanti miglioramenti ancora. Nasce un'Europa razionale prima ancora
che democratica; la quale, con difetti e ombre, è pur sempre
la cosa migliore che il Vecchio Continente abbia espresso nella seconda
metà di questo secolo. Cerchiamo di capire, da angolazioni
in parte insolite, come è fatto questo nuovo grande attore
della scena mondiale.
Nel campionato della crescita, l'Unione europea ha ormai superato
il Giappone, e questa è una consolazione per molti europei,
i quali sono culturalmente nazionalisti e pronti a trasferire il proprio
nazionalismo dalla bandiera nazionale a quella con stelle d'oro della
nascente aggregazione politica. Ponendo l'ipotetica linea del "via"
al 1990, a partire dal 1994, e tranne un brevissimo periodo del 1996
i valori europei risultano più alti di quelli giapponesi (Fig.
1).
Complessivamente, nella parte finora trascorsa del decennio, la vecchia
Europa ha totalizzato circa un punto e mezzo di sviluppo in più
dei temutissimi nipponici; e guarda con qualche barlume di maligna
soddisfazione alla lunga serie di scandali, arresti, errori di politica
economica che mettono in luce un'economia del Sol Levante ingessata
così come era (e solo in parte ancora è) l'economia
europea.
La soddisfazione si attenua subito se il confronto viene effettuato
con gli Stati Uniti. Rispetto alla Repubblica Stellata, l'Unione europea
ha perso, nello stesso periodo, cinque punti percentuali di crescita,
equivalenti almeno a 5-7 milioni di disoccupati che non ci sarebbero
se si fossero raggiunti i livelli americani. Il contrasto sull'andamento
dell'occupazione è indicato nella Fig. 2, e non potrebbe essere
più stridente.
E' probabilmente vero, come sostiene qualcuno, che i dati europei
e quelli americani non siano esattamente comparabili e che a un'Europa
con più disoccupati si contrappone un Nordamerica più
violento e con maggiori e crescenti disparità sociali. I molti
disoccupati europei, però, a differenza di quelli statunitensi,
sono sempre più spesso di lunga durata e si configurano come
una "sottoclasse" dalle scarse speranze e dai molti pericoli
per la società in genere. L'Europa alla quale diamo con molto
entusiasmo il buongiorno è un infante ancora fragile, il cui
primo, vero "test" sarà precisamente la capacità
di ridurre la disoccupazione.
Occupazione deve far rima con Unione europea, e in particolare con
Unione monetaria. Detto molto brutalmente: se l'Euro non riuscirà
a far scendere il tasso di disoccupazione verso livelli anglo-americani,
ossia dall'attuale 10- 11 verso il 5-6%, non scommettiamo sul fatto
che la nuova moneta possa raggiungere l'alba del 2010. Il Cancelliere
Kohl ha dovuto ammettere qualche mese fa di non poter rispettare la
promessa fatta ai tedeschi di ridurre la disoccupazione del suo Paese
della metà entro il Duemila. E' necessario che i nuovi leader
europei si impegnino con promesse analoghe spostate in là nel
tempo solo di qualche anno; altrimenti, come è ben possibile
che succeda al grande uomo politico tedesco, saranno spazzati via.
Il problema è che l'Unione potrebbe essere spazzata con loro.
La riduzione della disoccupazione però non basta: l'Europa
della moneta unica vivrà se saprà ridurre i divari territoriali,
realizzare quella "coesione" che è entrata nel vocabolario
standard dei burocrati di Bruxelles.
La Fig. 3 mostra che la coesione interna è un problema grave
anzitutto in Germania (a seguito dell'incorporazione dei Länder
orientali), ma anche nella gran parte dei Paesi del "nucleo duro",
dove la regione più ricca presenta un reddito per abitante
che è più che doppio rispetto a quello della regione
più povera. Solo i Paesi nordici e, in parte, Portogallo e
Grecia presentano situazioni leggermente migliori.

Le contraddizioni
interne saranno rese più gravose dalla moneta unica che ridurrà
il potere degli Stati nazionali e tenderà ad acuire i divari,
richiedendo un'intensa politica di redistribuzione delle risorse comunitarie.
A tutto ciò occorre aggiungere i divari tra Paesi: l'Attica,
cioè la regione più ricca della Grecia, ha un reddito
inferiore al Flevoland, la regione più povera dei Paesi Bassi.
Se l'Euro dovesse diventare la moneta delle regioni ricche, prepariamoci
a una fortissima tensione tra Paesi membri, oltre che interna a ciascuno
dei Paesi membri, di cui i contrasti sui fondi strutturali sono solo
una prima, timidissima avvisaglia. E non dimentichiamo che è
prossimo l'allargamento dell'Unione verso Est, ossia verso alcuni
Paesi ex comunisti, che hanno ancora standard di vita notevolmente
inferiori a quelli occidentali. Insomma, o la coesione europea si
farà davvero, oppure tutto è destinato ad andare in
pezzi.
La Fig. 4 aiuta a comprendere che cosa c'è davvero alla base
della debolezza europea nei confronti degli americani, perché
l'Europa non riesce a creare occupazione e sviluppo in quantità
sufficiente. Fatti pari a 100 gli investimenti in impianti e macchinari
del 1990, quelli statunitensi hanno superato ampiamente quota 150
nel 1997, mentre quelli europei non raggiungono ancora quota 120.
Nell'Europa dell'Euro, in altre parole, non basta redistribuire, occorre
creare ricchezza. E la ricchezza nel mondo d'oggi non si crea con
pesanti interventi pubblici, ma piuttosto governando lo sviluppo ordinato
dei mercati, correggendone le tentazioni squilibranti e lasciandoli
poi liberi di prendere il corso che vogliono. L'Europa ha fatto molto
in questo senso e dal 1914 i mercati europei non sono stati mai così
liberi. Ora la palla è nel campo delle imprese. In questo senso,
buona parte del destino dell'Europa è in mano agli europei.
E' necessario, per dirla con una sola parola, che la struttura della
crescita europea assomigli di più a quella degli Stati Uniti,
mentre ora, analizzando i dati disponibili più recenti, se
ne scorge il marcato contrasto (Fig. 5).
Il contributo dei consumi alla crescita del prodotto (una crescita
che negli Usa è stata superiore di oltre un terzo rispetto
a quella europea) è all'incirca analogo. Negli Stati Uniti,
però, la percentuale del contributo derivante dagli investimenti
è quasi doppia rispetto a quella europea (ad essa si aggiunge,
per motivi ciclici, una forte componente di accumulazione di scorte).
Per contro, l'Europa deve contare su una forte componente di domanda
estera, il che, in definitiva, significa che una parte notevole di
quello che produce non va a beneficio diretto degli europei, ma dell'estero.
L'Euro dovrà contribuire proprio a questo: l'uso della moneta
unica nelle transazioni internazionali dovrebbe, fra le altre cose,
ridurre l'ansia di esportare e liberare risorse per uso interno. E
così, indirettamente, rendere anche più agevole la soluzione
dei due problemi cruciali, la riduzione della disoccupazione e dei
divari territoriali.

Qual è, in questo quadro, la situazione dell'Italia? Dopo il
difficile "passaggio" dei parametri di Maastricht, è
ora la volta del "patto di stabilità". Il patto significa
sostanzialmente che, anche se migliorano i conti pubblici, il governo
non avrà molti soldi da spendere per stimolare l'economia,
perché dovrà perseguire prima di tutto l'obiettivo di
ridurre il debito pubblico.
Come fare, allora, per venire incontro alla fame di lavoro nel Mezzogiorno,
che è giunta ad esprimersi in forme di Intifada? Come fare
per rispondere all'implicita domanda di lavoro che deriva dalle agitazioni
degli "squatters" di Torino? Come fare per finanziare il
rinnovo delle infrastrutture pubbliche che, grazie alle economie del
Tesoro, stanno cadendo a pezzi?
Le strade aperte sono sostanzialmente due: la prima consiste in una
migliore utilizzazione dei fondi europei, correggendo l'assurdità
per cui l'Italia versa all'Unione sensibilmente più di quanto
riceve. La seconda implica invece la riduzione di vincoli e restrizioni
che limitano l'attività economica italiana e l'ampliamento
dell'area dei privati.
Dai nostri calcoli sommari, le "vacche grasse" che ci sono
state promesse si materializzeranno se il Paese riuscirà a
realizzare una crescita del prodotto interno lordo reale del 3% all'anno
per un numero alto (cinque-dieci) di anni. Al "3 per cento"
c'è spazio per un aumento di occupazione di 200-300 mila unità
all'anno e per una riduzione della pressione fiscale di circa un punto
percentuale l'anno, senza creare pressioni inflazionistiche. Per usare
un'espressione cara agli analisti finanziari, è questo, secondo
noi, il vero benchmark dell'economia.
Stabiliti i tassi di cambio delle singole monete nazionali nei confronti
dell'Euro, ha avuto inizio per l'Europa e per il suo sistema valutario
in rapidissima transizione un lungo periodo di passione. L'intero,
grandioso progetto europeo sarà, infatti, ampiamente vulnerabile
fino all'entrata in funzione della Banca centrale europea (Bce) e
potrebbe essere attaccato e fatto fallire in maniera pressoché
improvvisa.
Vulnerabile a che cosa? A un'azione speculativa da parte di "qualcuno"
che scommettesse in modo deciso proprio contro l'Euro e facesse leva
sulle debolezze dell'Europa.
Abbastanza realisticamente, l'attacco all'Euro potrebbe avvenire tra
novembre e Natale, potrebbe tecnicamente essere condotto da parte
di un pool di banche svizzere e di Hong Kong, operanti su indicazione
di alcune "grandi potenze" finanziarie delle quali si parla
pochissimo (il sultano del Brunei, per esempio). Potrebbe assumere,
sempre per fare un esempio plausibile, la forma di una serie imponente
e mirata di operazioni futures con vendite di franchi francesi, accompagnata
da operazioni di segno contrario sul marco o sul fiorino olandese.
E' questo lo scenario delineato da Paul Erdman, un esperto finanziario
che ha lasciato la professione per quella, ancora più redditizia,
di scrittore di documentatissimi romanzi di "fantaeconomia",
cioè di economia verosimile. Nella sua ultima fatica, anticipata
in parte dal Financial Times, Erdman immagina un mondo finanziario
asiatico umiliato e provato dalla crisi di fine '97, che sogna una
riscossa e ha nel mirino precisamente la parità dell'Euro.
L'azione, nel lavoro dell'Erdman, ha inizio sulla sterlina irlandese,
una moneta dal flottante limitato e quindi relativamente debole e
per di più improvvidamente rivalutata. La forte caduta della
sterlina irlandese obbliga l'Unione europea ad escluderla "temporaneamente",
secondo l'ovattato gergo comunitario, dal Sistema monetario europeo,
pochi giorni prima del varo dell'Euro, creando incertezza e nervosismo.
Il secondo stadio comporta il ben più importante attacco alla
Francia, dove si ipotizza una pessima situazione politica interna,
con fortissime divisioni sulle 35 ore. L'attacco, alla fine, ha successo,
sempre secondo l'autore: la Bundesbank non ha il coraggio di impiegare
più di tanto quelle che sono ancora riserve valutarie tedesche
per sostenere il franco francese, che è ancora formalmente
una moneta straniera. E tutto salta.
Le trame dei libri di Erdman sono spesso destinate a restare nel regno
della fantasia o dell'incubo, ma sono sufficientemente realistiche,
fanno riflettere e debbono essere analizzate con serietà. Anche
perché si può chiudere il romanzo per constatare che
la realtà presenta alcuni elementi che confermano che ci si
trova di fronte a un problema di fondo, e non ad una semplice fantasia.
L'approssimarsi dell'Euro è coinciso, infatti, col forte apprezzamento
del dollaro (e della sterlina). Queste monete sono salite, in buona
parte, per una fuga dal marco, indebolito dal via libera all'Euro,
accettato a fatica dalla Bundesbank, e per la crisi giapponese. I
Paesi petroliferi sono stati in gravi difficoltà, e con loro
tutti i produttori di materie prime, alle prese con prezzi che, in
termini reali, sono tornati a livelli precedenti a quelli della crisi
petrolifera. Questi Paesi potrebbero dunque essere tentati dalla prospettiva
di una speculazione vincente sul fronte valutario.
In Europa, poi, si avvicina il "periodo grigio" dei mercati.
Alla moneta europea mancherà in questo periodo la capacità
di intervento garantita da una Banca centrale; ci saranno ancora,
sia pure ampiamente coordinate tra loro ma in grado di mantenere la
propria indipendenza, undici Banche centrali nelle quali già
comincia ad affiorare il rimpianto per la perdita di potere e di autonomia,
a beneficio del nuovo Istituto di Francoforte. Gli eventuali attaccanti
avranno, dal canto loro, il privilegio di poter sparare munizioni
senza alcun rischio perché, una volta fissati i tassi di cambio,
il denaro "a pronti" è valso quanto quello "a
termine". E con l'introduzione effettiva dell'Euro, al 31 dicembre,
trovarsi con marchi, lire oppure franchi francesi o belgi sarà
la stessa cosa.
Si tratta, insomma, di una situazione ideale per una guerriglia monetaria,
in cui un cecchino può sparare a un avversario che attraversa
una radura allo scoperto, senza protezione. L'impressione è
rafforzata dalle situazioni di instabilità politica di vari
Paesi europei, e, in Italia, dall'avvicinamento del "semestre
bianco", durante il quale il Capo dello Stato non può
sciogliere le Camere. A rendere le cose più difficili c'è
l'ottima salute dell'economia americana, che dal 1991 viaggia sui
binari della crescita. La disoccupazione è ai minimi da 24
anni, l'inflazione non è stata così bassa da trent'anni
a questa parte, la Borsa ha creato più ricchezza negli ultimi
tre anni che nei precedenti tre decenni; il deficit del governo federale
è sceso del 5% sul prodotto interno lordo a zero. Secondo la
versione "ufficiale", a fine '98 si registrerà un
rallentamento della ripresa americana e una maggiore espansione di
quella europea. Il dollaro si indebolirà e l'Euro prenderà
per gradi il posto che gli spetta tra le monete di riserva mondiali.
Il rischio, però, esiste, (e non si può certo escludere
che qualcuno nel mondo finanziario americano veda con particolare
sfavore l'approssimarsi di una moneta che potrebbe rappresentare un
temibile concorrente per il dollaro). Per evitarlo, la strada maestra
è una sola: occorre anticipare i tempi di questa lunga transizione
dalle monete nazionali alla moneta europea. Mentre ciò non
è possibile sul piano tecnico dell'uso concreto del nuovo mezzo
di pagamento o della tenuta della contabilità, con la gran
parte delle imprese europee addirittura in ritardo rispetto ai tempi
previsti, la cosa diventa probabilmente realizzabile sul piano squisitamente
valutario.
In conclusione: anche se formalmente esisteranno ancora marchi e franchi,
lire e fiorini, ci deve essere il più presto possibile, e in
anticipo sulla stessa data prevista, un solo dito sul grilletto europeo
del mercato dei cambi, e non undici dita timorose, titolari, ancora
per poco, di undici interessi diversi. Altrimenti, è reale
il pericolo che si debba scrivere: Addio, Europa!
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