Chi ha festeggiato
anche rumorosamente l'ingresso dell'Italia nell'Euro deve avere oggi
una forte consapevolezza della responsabilità che è
chiamato ad assumersi per costruire, nella stabilità monetaria
e nel mantenimento degli equilibri finanziari, condizioni di sviluppo,
di occupazione e di benessere. E su questo è stata detta una
grande verità: ora l'Italia ha bisogno di sette anni di solido
e duraturo sviluppo. Questa consapevolezza e questa prospettiva non
sono frutto spontaneo della ripresa del ciclo economico, né
della ritrovata stabilità monetaria e finanziaria, ma di una
responsabile e lungimirante "costruzione della politica".
In questo senso, il Documento di programmazione economica deve assumere,
al di là degli stessi numeri, un ruolo "strategico"
di grandissimo rilievo. Esso infatti deve assumersi due compiti precisi:
uno esterno, verso gli altri partner europei; e uno interno, verso
noi stessi. Sul fronte europeo, infatti, deve garantire agli altri
compagni di strada che la stabilità finanziaria italiana diventi
un fatto duraturo e permanente, rispettando il patto di stabilità.
In questo quadro deve garantire il disinnesco della mina del nostro
elevato debito pubblico.
E qui va fatta chiarezza. L'elevato debito pubblico è, e resterà,
un nostro serio problema interno. La sconfitta dell'inflazione, la
ritrovata stabilità finanziaria, l'ingresso nell'Euro ci hanno
consentito di vedere rapidamente ridursi i tassi e, di conseguenza,
ci permetteranno di ridurre la spesa pubblica per interessi sotto
i 150 mila miliardi, sempre che le condizioni internazionali non volgano
al peggio nei prossimi anni. Ciò significa che, comunque, con
un alto debito pubblico continueremo ad essere fortemente vincolati
dalle spese per interessi, che continueranno a chiudere spazi agli
investimenti e alla necessaria, strutturale, progressiva riduzione
della pressione fiscale e contributiva. Ecco allora che la questione
vera sul rientro dal debito pubblico va posta in termini diversi da
quanto finora è apparso.

Qualcuno ha infatti tentato di dire che chi si colloca sul fronte
della gradualità del rientro del debito pubblico è "buono",
non chiede ulteriori sacrifici e vuole la "fase due" dello
sviluppo e dell'occupazione. Al contrario, chi invece si colloca su
un fronte di maggiore rigore è "cattivo", e vuole
insistere quasi sadicamente con i sacrifici. La verità è
invece che chi propone il gradualismo esasperato allontana nel tempo
sviluppo e occupazione; chi invece propone tempi ragionevolmente accelerati
indica la prospettiva di liberarci il più presto possibile
di quel giogo. Si tratta allora di decidere come diluire nel tempo
i sacrifici per ottenere in tempi più brevi i vantaggi di un
bilancio pubblico liberato dal gran peso degli interessi, e quindi
in grado di dare sul serio sviluppo e occupazione, con maggiori investimenti
e minori tasse.
Qui si colloca allora l'equivoco sulla possibilità che, raggiunta
la meta dell'Euro, d'ora in poi possiamo permetterci manovre leggere.
Da questo punto di vista, i primi dati sembrano confermare l'equivoco.
Nell'epoca del dopo-Euro, infatti, è necessario cambiare il
modo di "leggere" le manovre di politica economica rispetto
all'epoca del pre-Euro. Se rivolgiamo lo sguardo all'indietro, miriamo
cioè esclusivamente ai saldi finanziari come era necessario
fare per "entrare" nell'Euro, è evidente che, avendo
compiuto grandi sforzi negli anni passati, adesso possiamo mantenere
quegli equilibri finanziari, confermando un basso deficit con poche
migliaia di miliardi di lire di intervento. Nella logica del pre-Euro
questo poteva bastare. Ciò che però non pare ben compreso
è che quei numeri, nella logica del post-Euro, sono estremamente
modesti e non garantiscono, nei tempi e nelle quantità, quelle
modifiche strutturali del bilancio pubblico capaci di rendere la programmazione
economica e finanziaria un vero strumento di propulsione della crescita,
di volano dell'occupazione, di più giusta e più equa
distribuzione del reddito tra le generazioni. Se allora oggi dobbiamo
volgere la testa in avanti e guardare al futuro, pur nella ragionevole
soddisfazione che questo futuro lo possiamo guardare soprattutto perché
siamo riusciti ad agganciare l'Euro, dobbiamo anche svegliarci e aprire
gli occhi molto bene. Ai primi di maggio, infatti, non si è
chiusa una partita vincente. Se ne è aperta una che è
ancora tutta da giocare.

Su questa più corretta lettura della nostra situazione, possiamo
porci alcune serie perplessità, dimostrando ancora una volta
con spirito realistico che quel che la programmazione è il
massimo possibile che si poteva fare. A ben vedere, la manovra sul
1999 appare certamente "leggera" come entità di contenimento
del deficit. Purtroppo, però, appare anche "leggera"
come incidenza strutturale sui livelli e sulla composizione delle
spese e delle entrate pubbliche. Si punta infatti quasi tutto sul
risparmio di spesa dovuto alla riduzione degli interessi. Si aumentano
le entrate di 4.500 miliardi unificando la riscossione di imposte
e contributi e condonando contributi per far emergere attività
in nero. Si tagliano per 9.000 miliardi i trasferimenti (frenando
in parte investimenti) a ferrovie, poste, amministrazioni pubbliche,
vincolando anche l'indebitamento delle Regioni e delle Usl. Si dice
poi che verranno aumentati gli investimenti pubblici per 5.500 miliardi.
Tutto questo è a fronte di una spesa pubblica totale di oltre
un milione di miliardi di lire e di un prelievo totale appena sotto
il milione di miliardi di lire. Può certo essere una prima
importante goccia nel mare, ma sempre una goccia è.
Ciò significa che, di fatto, stiamo "programmando"
una spesa pubblica che rimarrà attorno al 50 per cento del
Prodotto interno lordo, e un prelievo pubblico che rimarrà
un po' sotto il 50 per cento dello stesso Prodotto interno lordo.
Ma allora questo va posto a confronto con la sacrosanta verità
di cui parlavamo, e cioè che adesso l'Italia ha bisogno di
sette anni di crescita al 3 per cento e più, per poter sul
serio aggredire e sconfiggere la disoccupazione, aggredire e sconfiggere
le sacche di sottosviluppo e di povertà del nostro Paese, entrambe
concentrate nel Mezzogiorno, e per poter infine attrezzare e modernizzare
l'intero nostro sistema infrastrutturale procedendo ad una rapida
trasformazione di tutto l'apparato della pubblica amministrazione.
Per tutto questo basta la discesa dei tassi? In realtà, si
tratta di porci tutti una domanda di fondo: siamo entrati nell'Euro
per poter "salvare e conservare" il vecchio apparato pubblico,
il vecchio apparato produttivo, le vecchie certezze e protezioni che
appaiono sempre più corporative e penalizzanti per le nuove
generazioni; oppure siamo entrati nella moneta unica come condizione
necessaria sulla quale basare la nostra volontà e capacità
di riformare e di cambiare in meglio il Paese?
Ecco le ragioni per le quali nel dopo-Euro le sfide continuano e non
finiscono, e anzi assumono un contenuto strutturale più forte
e richiedono un confronto politico ben più alto e trasparente.
E su questo piano ciò che è successo e continua ad accadere
alla Borsa di Milano è del tutto emblematico.
Noi italiani risparmiamo ogni anno circa 250 mila miliardi di lire.
Fino a un paio di anni fa questo risparmio veniva attirato e in grandissima
parte assorbito dai circa 170 mila miliardi di deficit pubblico. Ora,
con un deficit che si attesta sotto i 60 mila miliardi, significa
che almeno 100 mila miliardi di risparmio all'anno debbono andarsi
a trovare un'altra collocazione. E' chiaramente un bene per tutti
che i risparmiatori "domandino" di investire nel capitale
di rischio delle imprese. D'altro canto, però, se I' "offerta"
di azioni rimane limitata a quelle poche imprese quotate a Milano,
è evidente che faccia esplodere i prezzi oltre ogni ragionevole
limite di redditività reali di quelle imprese e, in prospettiva,
rischi poi di rivolgersi all'estero su mercati ben più ampi
e ben più solidi del nostro.
Ecco allora un serissimo problema strutturale: procedere a tappe forzate,
in questo momento favorevole, alle privatizzazioni (se avessimo fatto
di più già negli ultimi due anni, avremmo dato ai risparmiatori
più offerta dei titoli e forse avremmo meglio calmierato il
mercato); agevolare in tutti i modi l'entrata in Borsa di nuove imprese,
e incentivare la raccolta di nuovo capitale di rischio da parte di
quelle che già ci sono.
Ma qui va posto l'altro grande nodo strutturale del nostro Paese,
che al 95 per cento è rappresentato da piccole e medie imprese
che per le loro dimensioni non potranno mai singolarmente collocarsi
in Borsa. Da qui l'esigenza di inventare e realizzare prodotti finanziari
che canalizzino capitale di rischio verso questo grande e fitto tessuto
connettivo del nostro sistema produttivo.
In sintesi, quindi, guardando "indietro", la manovra "leggera"
può in un certo senso andare anche bene; ma guardando avanti
rischia di porre obiettivi di sviluppo e di occupazione che sono giusti,
sacrosanti, ma che si trovano di fronte a strumenti troppo timidi,
troppo lenti, troppo spalmati nel tempo ed eccessivamente affidati
agli automatismi della riduzione dei tassi di interesse, che un diverso
vento internazionale potrebbe persino far invertire.
Certamente, questo può anche essere il massimo possibile "compatibile"
con le condizioni politiche. Dobbiamo però chiederci se comunque
questo massimo politicamente possibile non rischi di stare sotto il
minimo economicamente necessario e, in prospettiva, sotto il minimo
socialmente sostenibile, visti la grave disoccupazione giovanile,
l'insostenibile degrado economico e sociale di parti importanti del
Sud e la crescente insofferenza del Nord.
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