Trekking
nel Salento
Niente più
dell'escursionismo procura scoperte piacevolissime pur rimanendo entro
i confini del territorio di residenza, che spesso affermiamo di conoscere
soltanto perché... lo intravediamo dal finestrino dell'auto!
Questo tipo di "escursione con un lungo percorso a piedi in luoghi
difficili" (come si traduce letteralmente l'inglese trek = viaggio,
migrazione) è possibile effettuarlo anche nel Salento. Provate
a raggiungere la "piana della Lea" (Porto Selvaggio) o il
Faro di Punta Palascìa (Otranto) dopo aver calpestato l'arida
roccia carsica o superato quei calanchi di bauxite indurita dal vento!
Vi assicuro che le emozioni e le sorprese non mancano.
Dintorni di
Gallipoli
P.ta Pizzo-Serra di Castelforte - Porto Selvaggio
Il percorso, lungo una ventina di chilometri, comincia da Punta Pizzo,
una delle zone naturalistiche più interessanti della provincia
di Lecce, caratterizzata da brandelli di palude retrodunale (ideale
sosta degli uccelli migratori), di pineta e di gariga dove crescono
un'incredibile infinità di orchidee e una rara leguminosa arbustiva.
Percorrendo alvei di fiumi preistorici ormai prosciugati e colmati,
che la straordinaria laboriosità dei contadini locali rende
fertili e produttivi, si giunge nei pressi della Serra di Castelforte,
luogo incantevole, contornato da maestosi ulivi, da cui è possibile
scorgere il mare di Gallipoli. Qualche pietrafitta sopravvissuta all'incauta
distruzione, magari utilizzata per sostenere i muretti di recinzione,
è testimonianza della millenaria presenza umana, mentre un
brusio di sottofondo segnala la presenza delle vore, sprofondamenti
carsici dove si raccolgono le acque di superfici e alimentano la falda
freatica. Ecco spiegato non soltanto il sottofondo "musicale",
ma anche l'improvvisa oasi di vegetazione particolarmente verdeggiante
e rigogliosa. In alcuni tratti si devono superare dislivelli, attraversare
lacerti di antichi querceti o circuire pareti rocciose che, oltre
ad essere ripide, sono insidiosamente sdrucciolevoli. Se si richiede
un supplemento di pazienza questa viene ripagata quando si giunge
in prossimità di Porto Selvaggio. Il paesaggio è semplicemente
incantevole. E se il cielo è terso e non spira il fastidioso
scirocco si può vedere perfino l'isola di S. Andrea (di fronte
a Gallipoli), riconoscibile dalla sagoma del faro come se spuntasse
dal mare.
Per chi ancora non lo sapesse, il luogo non è soltanto natura
da ammirare o scorci da fotografare, ma è un tratto costiero
dove è stato trovato un ineguagliabile patrimonio preistorico
sedimentatosi nelle grotte di Uluzzu (nome arcaico che indica l'Asfodelo),
di Carlo Cosma e del Cavallo. I segni della frequentazione umana risalgono
alla fine del Paleolitico medio, circa 40 mila anni fa, e al Paleolitico
superiore, ossia almeno 31 mila anni fa! L'ampia "piana della
Lea", apparentemente arida e inospitale, è un importantissimo
luogo di sosta per uccelli migratori e regno di specie rupicole, alcune
"nobili", quelle piantine grasse che riescono a radicare
e a vivere nei buchetti delle rocce.
Passo dopo passo si giunge all'insenatura di Porto Selvaggio, sovrastata
dalla poderosa Torre di S. Maria dell'Alto (XVI sec.), indicata come
la "dannata", perché evoca sinistre leggende e fu
utilizzata anche come lazzaretto. In questo mare sgorgano sorgenti
di acqua dolce (provenienti dalle numerose grotte marine), si identificano
per la diversa solidità dell'acqua e ci permettono di rinfrescarci
prima di inerpicarci lungo la parete dominata dalla Torre. L'escursione
termina per i trekkisti, ma non per chi è esperto di arrampicata
libera (freekline): scalando con apposite corde la parete rocciosa
alta almeno 40 metri, proprio sotto la torre, sul lato del mare, si
può vedere l'insediamento dell'Alto, i cui reperti sono stati
datati a circa 120 mila anni fa.
Dintorni di
Otranto
Giurdignano - Giuggianello - Serra di Poggiardo Vaste - Porto Badisco
L'escursione inizia da Giurdignano, epicentro di un'area particolarmente
interessata da monumenti megalitici, i menhir, e da grotte rupestri
che sforacchiano i costoni rocciosi di delimitazione dei campi. Espressioni
di ancestrali culti pagani, i menhir furono successivamente cristianizzati
e dedicati, per esempio, a S. Vincenzo, a S. Paolo, alla Madonna di
Costantino-poli. Si incontrano improvvisamente, in aperta campagna,
e ci sorprendiamo sempre della loro salda presenza in luoghi inusitati.
Giuggianello, invece, custodisce il dolmen Stabile, alto almeno 1
metro e coperto da una lastra di pietra veramente grande. Con quale
metodo l'avranno poggiata senza romperla? E' incisa lungo il bordo
da un canaletto su cui confluiscono altre due incisioni perpendicolari
tra loro. Naturalmente le spiegazioni, le interpretazioni e le congetture
si sprecano letteralmente e ci accompagnano dinanzi a ciò che
appare veramente sorprendente!
Un enorme blocco monolitico, a forma di fungo, identificato popolarmente
come "lu furticiddhu te la ecchia e te lu Nanni" (l'arcolaio
della vecchia e di Nanni [l'orco]), è legato naturalmente ad
una leggenda.
Ma non è tutto. Poco distanti vi sono altri ciclopici monoliti
indicati, rispettivamente, con il "letto della vecchia"
per la forma di cuscino, e con il "piede di Ercole" perché
appare proprio come un enorme piede. Si tratta di massi rocciosi modellati
dagli agenti atmosferici e, soprattutto, dall'acqua piovana che, agendo
sulla calcarenite ricca di carbonato di calcio, ha dato forme puntualmente
personalizzate dalla fantasia popolare.
Tra un'osservazione scientifica e l'altra si raggiunge la Serra di
Poggiardo, interessata oltre che da una bella pineta e da un bosco
abitato da querce, lecceti e cespugli di macchia mediterranea, da
cave dismesse di bauxite (per l'estrazione dell'alluminio) con annesso
impianto industriale forse mai funzionante.
Inutile dire quanto il paesaggio appaia irreale, inospitale, duro
e fuori dal contesto paesaggistico salentino che pure si presenta
con la tipica terra rossa, il bolo, su cui vegetano bene olivi, ortaggi,
tabacco e vite. In questo tratto la superficie da calpestare è
incisa da rughe a volte indurite, a volte friabili oppure è
ingobbita da mucchi di pisoliti di bauxite che rallentano l'andatura.
A suo modo è un paesaggio suggestivo che suscita emozioni.
Al territorio di Poggiardo appartiene l'area archeologica di Vaste,
l'antica Bastae, circoscritta da imponenti mura megalitiche lunghe
oltre 3 km. Ne sono emersi reperti risalenti all'Età del Ferro
(IX-VII sec. a.C.), alla civiltà romana, bizantina e medioevale.
Una visita stimolante è l'attigua cripta dei SS. Stefani, a
tre navate, interamente affrescata da immagini di Santi orientali
e da più di un Santo Stefano da cui la denominazione del luogo
- che ebbe funzione essenzialmente funeraria. Il corredo iconografico
è giudicato uno dei documenti pittorici più alti del
Salento bizantino. Poco distante dalla cripta vi sono i resti di una
chiesa paleocristiana dotata di tre ambienti riconducibili al pronao,
al naos e al bema.
Si riprende il cammino e si attraversa un paesaggio tra i più
pittoreschi anche se austeri della fascia adriatica: da un lato distese
di roccia carsica, dall'altro scogliere a strapiombo sul mare. Eppure
questa pietraia infinita, battuta dal mare e dai venti, soltanto apparentemente
è priva di vita: ospita insediamenti di vegetali tipici, le
citate rupicole, che botanicamente ci legano alle coste dirimpettaie,
e cespugli di finocchio selvatico marino, dal forte sapore di anice.
La gente del posto raccoglie i getti teneri e, dopo averli sbollentati,
li conserva sott'olio e li gusta come contorno alla carne o al pesce
oppure come companatico. Siamo nei pressi di Torre S. Emiliano che,
dall'alto della sua posizione (51 metri s.l.m.), vigila la costa sottostante
e il fiordo di Porto Badisco. Prima di raggiungerla, una deviazione
èdoverosa per vedere un singolare fenomeno di erosione marina
costituito dalla marmitta dei giganti, un'enorme "pentola"
negli scogli in cui si trova una sfera perfetta pur'essa rocciosa,
dal diametro di almeno un metro. In particolari condizioni atmosferiche,
quando il mare è molto agitato, la sfera riesce a spostarsi
e a collocarsi in una marmitta attigua.
Per i geologi e gli storici, Porto Badisco è il "santuario
della preistoria", rappresentato dalle "Grotte dei Cervi",
cavità naturali con un complesso di pitture rupestri datato
grossomodo tra i 4.500-3.000 anni a.C., il più importante d'Europa
nel suo genere. Purtroppo non possiamo vedere le scene di caccia né
il famoso stregone danzante che hanno fatto il giro del mondo quando
nel 1970 gli speleologi scoprirono siffatta meraviglia.
Allora ci concediamo un altro po' di scarpinata raggiungendo la cresta
della serra, parallela al tratto costiero, per fermarci all'interno
della grotta degli amanti, tipica per le due aperture comunicanti
attraverso un cunicolo. La leggenda popolare vuole che vi fossero
stati rinchiusi due innamorati e che le loro copiose lacrime abbiano
prodotto le citate cavità.
rossella barletta
Farsaglia
L'epilogo della
guerra civile tra gli eserciti di Giulio Cesare e Pompeo si ebbe nell'agosto
706 di Roma, ossia a quarantotto anni dalla nascita di Cristo, nei
pressi della città di Farsaglia dove si svolse la famosa battaglia
che prese il nome da quella località. Vedremo come si giunse
al drammatico epilogo, affrettato dalla inaspettata vittoria di Pompeo
nello scontro di Durazzo il cui porto Cesare aveva destinato a propria
base navale per i rifornimenti provenienti da Brindisi.
Pompeo a Durazzo aveva vinto e spettava a lui prendere l'iniziativa
delle operazioni e a ciò egli era deciso. Cesare, quindi, era
praticamente tagliato fuori dalle sue basi, anche in seguito alla
distruzione della flotta che le riforniva attraverso l'Adriatico ad
opera del magistrale colpo di mano di Gneo, figlio maggiore di Pompeo.
E' pur vero che nella battaglia Pompeo non aveva gettato tutte le
sue forze a causa della asperità del terreno ed è pure
vero che le legioni di Cesare avevano perduto soltanto mille uomini,
i migliori, ma le conseguenze del fatto d'arme causarono lo scompiglio
dei suoi piani e la perdita del naviglio lo mise in gravi difficoltà
logistiche. Infatti il controllo delle rotte per Brindisi in quella
campagna si dimostrò decisivo per l'ulteriore proseguimento
della guerra. Fino a quel momento Pompeo aveva condotto le azioni
belliche senza un piano prestabilito, sfruttando l'ipotesi del logoramento
delle forze dell'avversario privo delle fonti di rifornimento. Egli
ben conosceva la situazione tattica e strategica del suo avversario,
e conscio dei mezzi di cui disponeva tirava alla lunga contando sull'ammutinamento
e dissoluzione dei soldati di Cesare. Ma le vedute di Pompeo ebbero
una smentita dai fatti. La grande energia militare dei veterani di
Cesare impedì che l'esercito fosse ridotto dalla fame e dalle
sommosse ad una massa di legionari pronti ad arrendersi.
All'indomani della vittoria di Durazzo, Pompeo poteva scegliere due
vie: la prima e la più semplice era quella di non perdere di
vista l'esercito vinto e di mettersi in marcia per inseguirlo; poteva
inoltre lasciare nella zona Cesare col fiore delle sue truppe e passare,
come da lungo tempo ne aveva il pensiero, col grosso delle sue truppe
in Italia e qui tentare, mercé lo scontento ormai dilagante,
di distruggere il potere politico e militare del suo nemico. Cesare
invece non aveva possibilità di scelta e risolse di ritirarsi
nell'interno del Paese e attendere i rinforzi costituiti da due legioni
comandate dal Console Quinto Cornificio. Così, dopo estenuanti
marce forzate, si acquartierò in Tessaglia e in queste regioni
prese a riordinare le sue forze.
Nel frattempo Pompeo, che non poté seguire col suo pesante
esercito le leggere truppe nemiche, rimase a cullarsi sulla vittoria
riportata a Durazzo e a lasciarsi convincere dai suoi miopi consiglieri
che la sorte di Cesare fosse ormai segnata. Presto però ogni
illusione cadde e Pompeo dovette decidere di venire a battaglia campale
con l'avversario e a tal'uopo mosse il grosso dell'armata incontro
al nemico attestato nella zona di Farsaglia (oggi Farsalo) e precisamente
a sud di Larissa, nel piano che si allarga tra le colline di Cinocefale
e il monte Orri, sulla sponda sinistra del fiume Enipeo.
Pompeo, quindi, prese posizione sulla sponda destra dello stesso fiume
sul pendio delle alture di Cinocefale. L'esercito di Pompeo era in
ordine; Cesare per contro stava attendendo altre due legioni che aveva
inviato nell'Etolia al comando di Quinto Furio Galeno oltre a quelle
di Cornificio. Pompeo disponeva di undici legioni per complessivi
47.000 uomini e 7.000 cavalieri contro i 22.000 del suo avversario,
cioè più del doppio di forze combattenti.
Tutta la situazione militare consigliava a Pompeo di non indugiare
troppo a venire ad una battaglia decisiva, e più di questo
motivo valse nel consiglio di guerra l'impazienza dei tanti ufficiali
nobili fuggiti da Roma insieme ai politici e altri già compromessi
nella corruttela affaristica. Questi erano da tempo convinti che il
loro partito avesse ormai vinto la contesa; già divisavano
di tornare a Roma e scrivevano alla capitale per prendere in fitto
delle case sul foro per le prossime elezioni.
Pompeo tentenna
Pompeo, forse presago della sconfitta, non si decideva a passare il
fiume e lo fece solo a seguito delle forti pressioni e del malumore
dei suoi numerosi consolari e pretori.
Cesare intanto, che aveva capito come nel campo avverso si fosse riluttanti
ad ingaggiare battaglia, aveva ideato il piano di aggirare l'esercito
nemico, ed era a questo effetto in procinto di muovere, quando ordinò
lo schieramento delle sue legioni per la battaglia, dal momento che
i Pompeiani gliela offrivano sulle rive del fiume da loro occupate.
La battaglia
Era il 9 agosto 706 (a.C.). Pompeo appoggiò la sua ala destra
all'Enipeo; Cesare, a lui di fronte, la sua sinistra sul terreno rotto
che si estendeva dinanzi allo stesso fiume; le altre due ali occupavano
il piano, entrambe coperte dalla cavalleria e da truppe leggere.
Era intenzione di Pompeo di tenere riservata la sua fanteria per la
difesa, di sbaragliare con la sua la debole schiera di cavalleria,
che alla maniera germanica mista con fanteria leggera le faceva fronte,
e di assalire poi alle spalle l'ala destra di Cesare le cui forze,
appiedate, sostennero con coraggio il primo urto dell'ondata nemica.
Qui il combattimento si fermò.
Il console pompeiano Labieno sbaragliò da parte sua la cavalleria
nemica dopo una valorosa sua resistenza. Ma Cesare, da quel condottiero
che i fatti avevano dimostrato che egli fosse, prevedendo la sconfitta
della sua cavalleria, aveva schierato dietro la medesima sul fianco
minacciato della sua destra, circa duemila dei suoi migliori legionari.
Mentre la cavalleria di Pompeo, sbaragliata quella nemica, effettuava
il movimento di diversione per aggirare e prendere alle spalle l'avversario,
i legionari di Cesare balzarono improvvisamente all'attacco.
I cavalieri, assaliti in piena crisi di movimento, con le fila sconvolte
dal terribile attacco, fuggirono dal campo in rotta completa. A loro
volta i frombolieri, che seguivano la cavalleria di Pompeo con il
compito di distruggere le forze nemiche situate in quel settore del
campo di battaglia, furono fatti a pezzi. Quindi tutta la destra delle
forze di Cesare, facendo perno su se stessa, si mosse avviluppando
la sinistra di Pompeo. Al tempo stesso si spinse avanti su tutta la
linea la terza divisione di Cesare, completando l'aggiramento dell'avversario.
Il cedimento dell'esercito pompeiano aumentò il coraggio delle
forze nemiche, le quali completarono la loro offensiva costringendo
alla ritirata l'avversario.
Quando Pompeo vide il crollo delle sue forze migliori si ritirò
dal campo di battaglia senza nemmeno attendere la fine dell'attacco
generale ordinato da Cesare. La giornata era dunque perduta.
L'esercito di Pompeo però si trovava ancora con il grosso quasi
intatto e la sua posizione era ancora in quel momento di gran lunga
meno scabrosa di quella di Cesare all'indomani della battaglia di
Durazzo. Epperò, Pompeo, che aveva conosciuto fino allora la
fortuna, si sentì comunque perduto, a differenza di Cesare
che nell'avversa sorta sviluppava nella sua personalità reazioni
sempre più forti.
Pompeo soggiacque allo scoramento e cadde nell'abisso della disperazione.
Il suo esercito, avvilito e senza guida, sperava di trovare asilo
dietro i ripari del campo trincerato, ma Cesare non gli concesse un
attimo di riposo; l'ostinata difesa dei soldati fu vinta con la celerità
del lampo, e la massa fu costretta a salire in disordine le alture
ai piedi delle quali era piantato il campo. Muovendo su questi colli
tentò di ricondursi a Larissa, ma le truppe di Cesare non curando
né il bottino né la stanchezza e procedendo su strade
migliori nella pianura tagliarono la ritirata agli avversari, e quando
costoro a tarda sera si fermarono, gli inseguitori ebbero la forza
di costruire una linea di trincea per togliere ai fuggiaschi il sollievo
dell'acqua che scorreva da un ruscello che si trovava in quella vicinanza.
Così ebbe termine la battaglia di Farsaglia.
L'esercito di Pompeo non fu solamente sconfitto, fu distrutto. Quindicimila
nemici tra morti e feriti coprirono il campo di battaglia, mentre
Cesare non ne aveva perduti che duecento. Il rimanente delle forze
di Pompeo, circa ventimila uomini, consegnò le armi.
La mattina dopo i distaccamenti nemici isolati al comando dei quali
si trovavano i più ragguardevoli ufficiali tentarono di salvarsi
attraverso le montagne; delle tredici aquile romane, supreme insegne
delle undici legioni, nove furono consegnate a Cesare. I soldati semplici
furono inquadrati nell'esercito vincitore, ai gradi intermedi furono
inflitte pene pecuniarie e confisca dei beni. I senatori fatti prigionieri
e i cavalieri di grado elevato furono condannati alla pena di morte.
Con la giornata di Farsaglia finì praticamente la guerra civile,
perché con la sconfitta era caduto anche il mito di Pompeo,
della sua invincibilità, della sua potenza politica. Gravi
furono le conseguenze del fatto d'arme. Esse si ripercossero in tutto
l'Oriente, che si sottomise rapidamente a Cesare, ormai libero da
ogni contrasto interno che potesse ritardare la sua marcia verso l'Impero
di Roma.
fulvio summaria
La prigione
dei favoni
In questa "prigione"
di Pino Mariano - e per involontario contrasto - aleggia lo spirito
del nativo Mediterraneo: in simbologie discrete iscritte nel culto,
scontato quasi, di coesistenze pacifiche, di meticciati razziali e
culturali. Non è, a scanso di equivoci, la semplice volontà
di riportare all'ovile del paese natale nel suo contesto meridionale,
nel Salento, la classica pecora smarrita nel labirinto dei corridoi
freddi delle Comunità Europee. E' piuttosto -e prima di tutto
- un tentativo di organizzare, all'interno della sua più intima
esperienza poetica e di uno slancio lirico, al limite del sacro, una
fusione armonica fra eredità greca, se non proprio pagano-ellenica,
e un cristianesimo ricondotto alla dolcezza delle sue antiche radici,
spesso ridotte nel nostro mondo a impalpabili reliquie. A rapidi tratti
introduce se stesso e la sua famiglia in questa visione. Fra la canicola
d'un paesaggio salentino, in fondo africano, della Terra d'Otranto
e lo splendore di una Cipro leggendaria il Poeta evoca e convoca ogni
apporto, ogni contributo: semitico, arabo, romano, fino all'"occidentale"
più vicino, attuale e cruciale.
Le allusioni ai fatti storici - l'Impero bizantino, l'invasione turca
- servono da scenario ad una volontà di appartenenza che, secondo
l'immagine poetica, rischia di perdere la vela, mentre è in
navigazione spirituale tra "le due sponde", separate dal
sangue versato in battaglie forse più isteriche che storiche.
La stupidità politica è l'argomento "source"
inevitabile, il supporto dell'ispirazione poetica. Ma l'ipocrisia
dell'ambiente, più dura da accettare, spinge contemporaneamente
il Poeta, cantore di oppressioni, verso l'annotazione personale di
un esilio soffocante, consolidato; incarnato dalla torre abbandonata
sul mare delle schiume e degli abissi: "giacciono nel blu / i
frammenti del nostro antico cuore... / l'abisso profondo e blu è
vapore di lacrime / e tu te ne disseti o torre / che guardi di qua
e di là dal promontorio ... ".
Questa poesia comunica un'impressione prepotente d'esclusione, la
ridondanza inesorabile di un ritorno che non avviene mai, in cui il
Poeta, l'uomo, è disorientato dal continuo cambiare dei venti,
e degli eventi, cui non contribuisce certo la marcia trionfale a ritroso
nel tempo. Nello spazio: che si tratti dell'ultimo ambiente lussemburghese,
del precedente soggiorno svizzero o dell'attuale dimora salentina,
il Poeta non può che annotarne la sua estraneità. Tutto
sembra convergere verso un deserto categoriale. Il profumo degli aranceti,
dopo un viaggio in Palestina, la stessa attrazione per la Terrasanta,
sono immersi in un silenzio, in un'amarezza ineluttabile, attonita.
La vita - e la scrittura - ridotti, in questo contesto, ad una specie
di gioco a dadi: "la mano più non crede / di sognare fra
le acque / è freddo il verso / nude le parole, / è riluttante
il cuore ... ".
Ma bisognerà andare oltre il disprezzo maturato nei confronti
della gentilezza apparente dei consanguinei italiani, "popol
gentile". Solo la lotta allora - con tutti i suoi oggetti, soggetti
e progetti - conta per il Poeta, così come per il gabbiano
dopo la lunga caccia in mare: una lotta unica, un unico eterno ritornare.
Una lotta categoriale per uscire dalla prigione, esilio metafisico
che porta le sembianze della terra natale. C'è uno strano,
curioso splendore medioevale in questa concezione quasi cavalleresca
dell'esistenza: "la lotta per il continuo ritorno / la lotta
continua al ritorno / il ritorno alla lotta continua / continuamente
ritorna la lotta / lottare per continuare il ritorno ... ": e
il tono che l'accompagna è saggio e, malgrado tutto, sereno,
tipico delle "berceuses" popolari.
..
non ci fu casa come dite l'Europa
noi espulsi settimini
dal tenero grembo del sud
ci fu casa
il treno
che corre da casa a casa
casa fu
il tetto dei grigi cieli delle Ardenne
e la prigione dei favoni
tu credi italo
idiota
avezzo a ben altre apparenti libertà
che fu ricchezza la nostra
o malattia
vi si chiede
di cambiare la vostra ipocrisia
con sospetto richiedete
se non avrete
qualcosa in cambio
e così sia
Pino Mariano
Questi canti di
Ombre e di venti, che richiamano il silenzio delle "assurde nozze"
in Camus, pongono talvolta dei punti fermi, delle aree di riferimento
provvisorie. Tutto, è vero, subisce il fardello del dubbio,
tutto subisce l'eco lugubre, lo scherno del destino in questa ricerca
di identità: perché La prigione dei favoni esprime in
fondo la nostra malattia della libertà.
In una di queste aree ci sono le "nozze reali", la sposa,
i segnali luminosi sul cammino ancora da percorrere. Il dubbio, persistente
come la lotta, infinito come il ritorno, perde la sua ferocia: la
donna, la sposa, è un'oasi, il rifugio, la vera salvezza: "tu
sola è certo mi redimi... / è vero tu emergi dal paesaggio
all'improvviso e ridi... / tu metti ordine al tempo / dai una famiglia
ai miei pensieri".
myo kapetanovich
Lo spirito
del mondo
"Chi conosceva
la storia di Jézabel, terrore del profeta Elia? Chi conosceva
la storia di Elissa, fondatrice di Cartagine? O quella di Athalia,
regina di Gerusalemme? Chi di noi ha letto i canti di Ezechiele sull'impero
di Tiro? Chi di noi ha studiato i rapporti di questa città
con Nabuccodonosor, prima; con Alessandro, poi, fino a Cleopatra e
all'epoca di Augusto? ... ".
Poche righe di Florio Santini (E trovai lo spirito del mondo, Congedo
Editore) sul Libano: una tranche che ho ripreso per focalizzare emblematicamente
un aspetto dei suoi interessi "di scrittura", altri e numerosi
essendoci in questo e in altri suoi lavori, di straordinaria duttilità
espressiva e di complessa (e a modo suo urgente) polivalenza di segnali
culturali che mai si concludono in se stessi, perché generati
da esperienze perentorie, totalizzanti.
Bisogna aver levato le ancore dai nostri porti stagnanti ad ogni alba,
aver percorso direttrici solo in parte progettabili e in più
gran parte esplorate per istinto e vocazione, aver messo in moto i
meccanismi profondi e sensibili dell'attrazione per i luoghi magnetici,
per i linguaggi ignoti, per le civiltà ignorate, per realizzare
l'attraversamento - però alla luce di una personalissima coscienza
estetica - delle storie e dei luoghi, cioè dei miti e dei sogni,
delle realtà e delle metafore. Ciò pone necessariamente
Santini in una condizione di centralità rispetto a tutti gli
scenari d'azione, senza che vada perduto il rapporto di reciprocità
tra questi e l'autore.
Perciò si leggono queste pagine dense, intriganti, persino
provocatorie, e si è contagiati dal panico espressivo, dalle
tensioni spirituali, dalle nervature intellettuali che esplicitano
o sottendono. E chissà perché (forse per affinità
elettiva, o ideale, o virtuale) viene in mente Le sang d'un poète,
di Jean Cocteau, in cui la statua dice allo scrittore: "Ti resta
una via d'uscita, entrare nello specchio e passare al di là
... ". Ad ogni ancora levata, un attraversamento che salda conoscenza,
memoria, scrittura. Sigillo: il cuore del poeta, che non brucia mai.
a. b.
Restauro a
Galatina
"La soluzione
vivamente raccomandata per la collocazione della riserva eucaristica
è una cappella apposita, facilmente identificabile e accessibile,
assai dignitosa e adatta per la preghiera e per l'adorazione. In essa
sarà ospitato il tabernacolo che, tuttavia, non deve mai essere
posto sulla mensa dell'altare, ma piuttosto collocato al muro su colonna
o su mensola".
Queste raccomandazioni espresse al punto 20 del Il capitolo dell'ultimo
documento della CEI, Adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica
(maggio 1996) ha rappresentato un riferimento continuo nella progettazione
di sistemazione della cappella laterale sinistra della chiesa di Santa
Caterina d'Alessandria di Galatina.
Infatti la richiesta di sistemazione del ciborio ligneo del XVII secolo
scaturiva da una duplice necessità:
a) trovare nella chiesa una collocazione adeguata per rendere funzionale
e visibile il ciborio come custodia per l'Eucarestia, per l'esposizione
del Santissimo, e garantire nello stesso tempo un uso liturgico corretto;
b) apprezzare le sue qualità intrinseche recuperate ed esaltate
dalle tecniche di restauro magistralmente adottate dalla restauratrice
Maria Prato e dal suo collaboratore Antonio Congedo.
Per soddisfare tali necessità si è ipotizzato di utilizzare
la "cappella" di fondo alla navata laterale sinistra, già
adibita per la conservazione dell'eucarestia in un tabernacolo appoggiato
sulla parete di fondo.
Davanti al tabernacolo era collocato, su un basamento di 160x60 cm.,
un ingombrante altare in pietra leccese (cm. 200x80), realizzato e
collocato a seguito delle nuove disposizioni conciliari (1963), ed
utilizzato per la celebrazione eucaristica nei giorni feriali. Sul
fondo della parete, sopra al tabernacolo, era posta, in una nicchia
illuminata con neon, una statua della Madonna.
Così come si presentava, questo spazio appariva disarticolato
ed estraneo alla monumentalità e al prestigio della chiesa.
Le sovrapposizioni dei "segni" (Madonna ed Eucarestia),
la modestia dei materiali, la casualità degli arredi e la mancanza
di un'illuminazione adeguata incoraggiavano la scelta di un intervento
di riqualificazione.
Ferme restando le dimensioni degli spazi attuali si è spostato
l'altare in pietra leccese in un luogo più idoneo, si sono
rimossi i gradini in pietra calcarea esistenti per consentire il rifacimento
di un piano di appoggio più adeguato alla consistente dimensione
del ciborio ligneo (3.50x1.70x1.00), e alla sua visibilità
da parte dell'assemblea. A tale scopo si è realizzato in legno
lo sportellino mancante che chiudeva la custodia.
A queste motivazioni si è aggiunta la necessità di dover
intervenire periodicamente a trattare il legno così da impedire
nuovi attacchi di insetti xilofagi (tarli).
Per questo motivo il ciborio è stato collocato su una pedana
in legno, distanziata dalla parete di fondo, scorrevole su guide per
consentire facilmente il suo spostamento da effettuare in occasione
dell'accesso al retro per interventi di manutenzione.
Davanti ad esso, in sostituzione dell'altare in pietra leccese, un
nuovo altare più sobrio e "trasparente", che, pur
svolgendo al meglio la sua funzione di mensa per le sole messe dei
giorni feriali, consenta la vista del ciborio e l'adorazione dell'Eucarestia.
A questo scopo, per meglio esprimere il concetto di unicità
dell'altare, quando non si celebra questo della cappella feriale deve
rimanere spoglio e privo di tovaglia; ciò consentirà
anche di valorizzare ancor più la "presenza" del
ciborio e la sua funzione per l'adorazione del Santissimo.
L'altare con la sua base in travertino, "segnata" con tratti
che ricordano i frammenti degli affreschi, con scolpiti i simboli
eucaristici in bronzo che lo impreziosiscono, va ad integrarsi con
il resto dello spazio.
I nuovi gradini in pietra calcarea sono stati sovrapposti (compatibilmente
con le esigenze strutturali della base di appoggio del tabernacolo)
alla pavimentazione esistente, tenendo conto di quel concetto di reversibilità
degli interventi propri del restauro.
Il sistema di illuminazione è costituito da due lampade a parete
in marmo statuario per illuminare il ciborio e una terza a testimoniare
la presenza del Cristo (lampada del Santissimo), mentre una luce centrale,
tesa su un filo, sarà usata, quando serve, per illuminare l'altare
durante le celebrazioni.
rosario scrimieri
PRECISAZIONE
A parziale rettifica e a completamento dell'articolo "Restauro
a Galatina", a firma di Rosario Scrimieri, pubblicato sul n.
3, Settembre 1998, si riporta la scheda con le precisazioni dell'intervento.
Restauro a Galatina:
Sistemazione della Cappellina feriale e ricollocazione del ciborio
ligneo del XVII secolo nella chiesa di Santa Caterina di Alessandria.
Committente:
Parrocchia di Santa Caterina di Alessandria a Galatina (Lecce).
Coordinamento:
Centro per l'Arte SIGNUM - Roma.
Progettazione e direzione dei lavori:
Arch. Rosario Scrimieri.
Scultore:
Armando Marrocco.
Restauro del ciborio ligneo:
Maria Prato con la direzione dei lavori della dott.ssa Tina Piccolo
della Soprintendenza di Bari.
Opere di falegnameria:
Rossetti Arredamenti - Galatina (Le).
Foto:
Francesco Congedo - Milano.
L'infanzia negata
Bambini di
ambienti depressi
La povertà che nei Paesi in via di sviluppo, e in passato anche
da noi, affliggeva buona parte della popolazione, si è ora
ridotta relativamente a pochi gruppi e ambienti, ma laddove permane
si presenta sempre con connotati gravi.
Definendo povero un nucleo familiare che gode di un reddito inferiore
alla metà di quello medio nazionale, i poveri sarebbero circa
il 10% della popolazione e il 70% di essi sarebbe concentrato nel
Sud.
Non si tratta solo di disagio economico, ma anche di crisi e di insoddisfazione
familiare legata alla disoccupazione, all'isolamento sociale e culturale.
Il bambino si trova spesso esposto all'evasione dall'obbligo scolastico,
alla delinquenza da strada e al lavoro clandestino. Si pensi che solo
a partire dal 1841, Austria e Francia per prime regolarono il lavoro
minorile ad un massimo di 8 ore al giorno e non prima degli otto anni.
Tali norme, che ci sembrano assurde oggi che le leggi ammettono il
lavoro solo dall'età di 15 anni, con tendenza all'ulteriore
innalzamento dell'età, non sono ancora rispettate in certi
ambienti.
Spesso la povertà si associa oggi alla tossicodipendenza e
all'alcoolismo dei genitori, al degrado dei rapporti familiari, alla
promiscuità, alle madri sole e senza appoggi, alla scarsa sorveglianza
del bambino e agli incidenti domestici.
Bambini di
aree depresse
Con il miglioramento sia economico sia delle strutture sociali e sanitarie
di tre zone povere del Nord (la campagna veneta, la Bassa Ferrarese
e l'hinterland torinese, quest'ultimo comunque popolato da meridionali),
le zone a rischio in Italia per i bambini sono dislocate quasi esclusivamente
nel Sud. I bambini di zone depresse italiane hanno mortalità
infantile e perinatale 2-3 volte superiore a quelle di altre regioni:
Vedendo però l'andamento negli anni della mortalità
infantile e perinatale si nota un progressivo miglioramento. Val la
pena di ricordare che in Italia la mortalità infantile nel
1946 era del 90 per mille e che oggi è del 7 per mille, così
come val la pena sottolineare che pur rimanendo le regioni del Sud
indietro, specie rispetto a quelle del Nord Est, alla Toscana e all'Umbria,
il loro "gap", che era rispetto a queste regioni di circa
15 anni, si è ora ridotto a meno di 5 ed è pertanto
destinato ad annullarsi.
Vi è però un altro fenomeno, non meno inquietante: nel
Mezzogiorno è presente una mortalità del lattante a
domicilio (Menichella e coll.) quattro volte più elevata che
nel Centro Nord, rappresentando il 16,91% della mortalità infantile
dell'area contro il 4,33% nel Centro Nord. Il fenomeno è dovuto
a due componenti: i bambini non portati in ospedale, nonostante la
gravità dei casi, e i bambini riportati moribondi a casa, per
non farli morire in ospedale. Esaminando però le diagnosi di
morte, in genere banali, risulta chiaro che un alto grado di trascuratezza
esiste e molti bambini a causa di questa non raggiungono l'ospedale
(Tab. 2).
Oltre al fenomeno della mortalità domiciliare e dello scarso
uso dell'ospedale, vi è quello della migrazione Sud-Nord in
campo ospedaliero. E' calcolato che almeno un ricovero su dieci di
bambini del Sud avviene in ospedali del Nord (Greco) e se si tiene
conto che molti ricoveri sono urgenti e non consentono simili trasferimenti
e che altri sono per cause lievi e diagnosi banali, la percentuale
di affezioni di bambini del Sud curati al Nord diviene molto più
elevata. Se poi si considerano alcune regioni, come la Calabria, che,
anche senza tali delimitazioni, ricovera oltre il 35% dei casi pediatrici
al Nord, si vede che in tali regioni la maggioranza dei casi importanti
emigra.
Ma il danno per questi bambini viene anche dal fenomeno "migrazione".
I ricoveri Sud-Nord, secondo Greco, hanno quattro origini: ricoveri
della speranza, che spesso vengono consigliati dalla stessa istituzione
ospedaliera del Sud, ricoveri di comodo e ricoveri di ignoranza, legati
alla scarsa conoscenza delle strutture nella propria regione, ricoveri
di insoddisfazione, dovuti ad esperienza negativa fatta negli ospedali
della propria zona.
Tale inutile migrazione, oltre a depauperare i propri ospedali di
attività e di esperienze, costringe anche a frequenti viaggi,
perché ogni bambino, una volta dimesso, deve essere seguito
e gli stessi ospedali del Nord nel 95% dei casi consigliano il controllo
nella propria struttura.
In sintesi, nel Sud vi sono buoni ospedali, anche se non tutti lo
sono, ma sono poco conosciuti; più che una migrazione Sud-Nord
potrebbe essere a volte necessaria una migrazione Sud-Sud.
Poco validi nel Sud sono spesso i servizi territoriali e il coordinamento
tra questi ultimi e gli ospedali. In conclusione (Borrone), solo una
minima parte dei ricoveri di bambini al Nord è realmente utile.
Quasi la metà del fenomeno migratorio è poi diretto
al "Gaslini" di Genova con la creazione di problemi organizzativi
e finanziari in tale sede. Bisogna infine dire che migrano in Francia,
per ricoveri, molti bambini italiani e che, perciò, il fenomeno
non è circoscritto soltanto al Sud.
Il problema non è quindi solo di migliorare le strutture del
Sud, ma di svolgere un'adeguata educazione sanitaria sulla popolazione
e anche a livello dei medici di base; spesso i medici danno il consiglio
di emigrare, senza poi accompagnare il paziente con notizie cliniche,
anche per non esporsi di fronte ai colleghi ospedalieri della zona.
Figli di alcoolisti
e di tossicodipendenti
I figli di alcoolisti possono essere danneggiati dai genitori sia
per le carenze educative e la violenza familiare, legata all'alcool,
sia per il danno diretto dell'alcool sul feto e sul bambino.
La violenza da parte di un genitore alcoolista è nota da sempre:
l'alcoolismo del sabato sera rappresenta un terribile appuntamento
settimanale della famiglia, ma può consentire una vita accettabile
durante gli altri giorni; rimane per il bambino il segno della violenza
subita o di quella alla quale si è assistito contro la madre
e si determina la svalutazione di se stesso per l'inevitabile identificazione
del bambino con il proprio padre, che rappresenta un modello negativo,
sia quando è violento, sia quando è in stato di incoscienza
o di sopore. L'alcoolismo di tutti i giorni si accompagna spesso a
miserie del nucleo per incapacità lavorativa del capo famiglia.
Situazione più grave si ha per alcoolismo anche della madre.
Il figlio perciò subisce il danno dal disaccordo e la violenza
tra i genitori e spesso lui stesso è oggetto di violenza fisica,
scarso soddisfacimento delle sue necessità materiali per miseria,
deficienza dei modelli pedagogici e una certa facilitazione ad iniziare
anche lui un consumo di alcool, come avviene in alcune regioni, dove
sono stati descritti stati di etilismo in bambini di 7-9 anni.
Studi recentissimi (Allnutt e Braford et al., 1996) hanno poi messo
in evidenza la frequenza di alcoolisti tra i pedofili, gli autori
di incesti, gli esibizionisti e i feticisti, ma specialmente tra i
sadici: gli alcoolisti sono tra questi ultimi oltre il 50%. Viceversa
(Green, 1995), le vittime di pedofili e comunque di violenza sessuale
divengono facilmente tossico e alcool dipendenti per l'azione ansiolitica
e antidepressiva di queste droghe.
Veniamo a parlare ora della sindrome feto alcoolica. Il problema dei
figli di alcoolisti diviene sempre più grave con l'aumento
del consumo di alcool in Italia, rispetto ad altri Paesi e nelle donne
rispetto agli uomini; il rapporto maschi/femmine è passato
da 1/9 a 1/4 negli ultimi trent'anni (Eibenstein, 1994) con larga
probabilità di una sottovalutazione per le donne. La sindrome
feto alcoolica, conclamata o frusta, è la terza causa di handicap
mentale dei bambini, dopo la sindrome di Down e i difetti del tubo
neurale. Per i figli di tossicodipendenti è nota la frequenza
dell'epatite B e C, dell'HIV e la facilità di malnutrizione
è legata a trascuratezza dei genitori.
L'HIV del bambino è proporzionalmente molto frequente in Italia,
dove l'HIV è particolarmente legato alle tossicodipendenze
e perciò anche alle pazienti di sesso femminile. Gli operatori
sociali tendenzialmente, di fronte a propositi e manifestazioni di
affetto, vorrebbero, per favorire il recupero della madre e a volte
anche del padre, affidare loro il bambino.
Non abbiamo grande esperienza al riguardo, ma abbiamo spesso dovuto
contrastare tale tendenza in caso di alcooliste o di psicotiche: sono
stati bambini esposti a grave rischio con risultati il più
delle volte nulli per la madre.
Studi (Ripple, Luther, 1996) sono stati recentemente condotti sui
fattori familiari nell'infanzia tossico e alcool dipendenti e in particolare
sono interessanti gli studi di Risser, Bonsch e Schneider sull'infanzia
di tossicodipendenti morti (Vienna 1996), che constatarono come l'80%
di questi soggetti avesse subito gravi eventi traumatici familiari
(morte di un genitore, divorzio, alcoolismo specie del padre e violenza
sempre da parte paterna; tra le madri vi era un elevato numero di
psicotiche).
Bisogna però anche citare le esperienze di Yater e coll. (1996)
che in soggetti figli di alcoolisti e tossicodipendenti adottati precocemente
e immessi in famiglie normali hanno riscontrato un'incidenza abbastanza
elevata di tossicodipendenze e di alcool dipendenze, confermando precedenti
autori che avevano trovato un'influenza genetica dei disturbi.
Figli di immigrati
Studi recenti (Salvioli, Bertollini, Di Lallo) sono stati compiuti,
anche in Italia, sui figli di immigrati. li problema in Italia è
meno grave che in altri Paesi, ma è in rapido aumento sia per
i bambini di immigrati nati in Italia, sia per quelli entrati in Italia
soli o con la famiglia.
Un primo problema è quello del basso peso alla nascita (inferiore
a kg. 2,500) e ciò specialmente tra i nomadi (18,4% contro
il 5,5% degli italiani), correlativamente vi è una più
alta mortalità perinatale.
Per quanto riguarda i ricoveri ospedalieri, risultano molto più
frequenti tra gli immigrati quelli per malattie dell'apparato digerente
e respiratorio nei primi anni di vita, in particolare da 0 a 14 anni,
quelli per traumi dovuti in parte a violenza familiare ed extrafamiliare
e in parte a mancata sorveglianza.
Per quel che riguarda le malattie infettive si può affermare
errata l'opinione che gli immigrati abbiano prodotto una diffusione
di malattie infettive e particolarmente di tubercolosi, malaria, parassitosi
intestinali, Leishmaniosi, echinococcosi, tripanosomiasi, etc. nella
nostra popolazione. Questo non esclude che il pericolo possa in futuro
esserci per i bambini italiani, specie quando si sarà ristretto
lo stato di segregazione in cui vivono gli immigrati.
Risulta invece, ad esempio per la tubercolosi, che le condizioni di
sovraffollamento, le tossicodipendenze, la difficoltà di accesso
ai servizi sanitari creano nell'immigrato un rischio di malattia superiore
a quello dei suoi coetanei rimasti in patria. L'immigrato rischia
più per le malattie che può contrarre nelle sue condizioni
di miseria, che per la patologia da importazione.
Da ricordare che affezioni ereditarie la drepanocitosi, la talassemia,
il deficit di G6PD.
Non bisogna fidarsi delle vaccinazioni eseguite nel luogo di origine,
sia per la non attendibilità delle registrazioni, sia per la
poca affidabilità nella conservazione dei vaccini in Paesi
sottosviluppati. Affezioni nutrizionali gravi, come il marasma o il
kwashiorkor sono rare tra gli immigrati, frequenti sono invece il
deficit di accrescimento staturale e specie ponderale, il rachitismo
e la sideropenia (Salvioli).
Una patologia da non sottovalutare è quella della sfera psico-comportamentale,
legata a condizioni socio-economiche, a difficoltà di comunicazione
linguistica, all'insuccesso scolastico o alla ascolarità e,
in particolare presso i nomadi, ai maltrattamenti, all'accattonaggio,
al rifiuto dei servizi e all'apprendistato di attività asociali.
Figli di nomadi
Non si può ridurre il problema dei nomadi ad un'unica dimensione,
perché si tratta di popolazioni diverse, con diverso grado
di assimilazione della nostra civiltà.
In Italia dovrebbero esserci poco meno di 100.000 zingari, di etnia
Sinti, provenienti nei secoli passati sia dai Balcani sia dai territori
slavi, ungheresi o montenegrini; di questi gli ultimi arrivarono dopo
la prima guerra mondiale. Si tratta di popolazioni in parte integrate,
viventi in larga misura in abitazioni fisse.
Dal 1960 si è sviluppata invece un'emigrazione in Italia di
nomadi Rom, di origine iugoslava, che raggiungono le 10.000-15.000
unità, che vivono nei campi e che, essendo venuti meno i mestieri
tradizionali, come l'allevamento dei cavalli, l'artigianato del rame,
la musica nei locali e anche, il più nuovo, quello delle giostre,
si sono trovati in condizioni precarie, non sapendo trovare immediate
alternative occupazionali.
Una delle caratteristiche di queste popolazioni è l'enorme
incremento demografico, come da Terzo mondo; si accompagnano alla
natalità un insieme di matrimoni precocissimi e una vita media
molto bassa, cosicché ben il 70%, in uno studio torinese, aveva
meno di 20 anni e solo un 3% aveva più di 50 anni. Ora che
i Rom cominciano a sapersi servire dei servizi sanitari pubblici e
che sta crollando la mortalità infantile, nascono i problemi
di assistenza, di scolarizzazione e di prevenzione della devianza.
I problemi economici sono aggravati proprio dal fatto che le comunità
di Rom venivano mantenute dal lavoro dei bambini e delle donne: i
bambini sono a tal punto ricchezza che altri ne vengono comprati o
rubati, spesso in Iugoslavia, i cosiddetti "argati", per
essere utilizzati nel furto o nel "menghel", cioè
nell'accattonaggio. Sono le donne e i bambini che reggono la comunità,
e in particolare i bambini, senza documenti, dichiarati sempre infraquattordicenni,
al riparo del nostro Codice penale. Specialmente negli anni Ottanta
sono stati sistematicamente adibiti al furto. Si immagini l'aggravamento
per la comunità se vietiamo anche il lavoro minorile e pretendiamo
un certo obbligo scolastico!
I loro problemi sanitari sono numerosissimi: peso alla nascita molto
basso, percentuale di immaturità quattro volte quella della
restante popolazione; broncopolmoniti gravi e ripetute, gastroenteriti
con esito in grave disidratazione: uno di noi, primario pediatra nella
provincia di Roma, ritiene di aver avuto casi gravi, nel suo reparto,
più tra i Rom che rispetto a tutto il resto della popolazione.
Le madri trattenute a curare i figli in ospedale lo fanno con affetto,
anche se vengono, in genere, richiamate dalla comunità che
ha bisogno di loro. Spesso il bambino non viene ritirato al momento
della dimissione, ma non si tratta di abbandono: sono proprio le condizioni
di precarietà in cui vivono a consigliare le madri a lasciare
il bambino in ospedale, dove sta sicuramente meglio, più tempo
possibile.
Un fenomeno analogo succede per donne in stato di detenzione per piccoli
furti: a volte preferiscono non uscire, per non tornare ad essere
picchiate sistematicamente dai mariti.
Altro motivo di ricoveri tra i bambini nomadi sono le lesioni da incidenti
domestici, specie ustioni, frequentissime per la mancata sorveglianza
e per le precarie condizioni delle abitazioni.
Morte dei genitori
Le difficoltà e i disturbi che un bambino può incontrare
in seguito alla morte dei genitori sono in rapporto all'età
del bambino, alle circostanze del decesso, alla qualità dei
rapporti tra il defunto e il bambino e a quella che si riesce ad instaurare,
il senso vicario, con altri membri della famiglia e anche al modo
in cui la famiglia affronta l'evento e il successivo lutto. In condizioni
di vantaggio si trova spesso un nucleo con una religiosità
di base che aiuta ad affrontare meglio il lutto; negativa è
invece la tendenza a tenere segreto il lutto come un problema che
non deve andare al di fuori della famiglia e altrettanto negativo
è non affrontare con il bambino, apertamente, il lutto: si
è riferito a tale atteggiamento l'insorgere in giovani orfani
di alcuni casi di schizofrenia e di asocialità.
L'età è naturalmente fondamentale: il lattante perde
le cure in senso quantitativo e specie le cure individualizzate, se
a scomparire è stata la madre, mentre nel secondo anno di vita
si ha principalmente una sindrome depressiva analoga alla sindrome
abbandonica, secondo Spitz.
Ma nel terzo e quarto anno il bambino tende ad interpretare la scomparsa
di un genitore come legata anche al comportamento colpevole del bambino
stesso, fino a giungere, tra i 4 e i 6 anni, nel caso di morte di
un genitore dello stesso sesso del bambino, a farlo ritenere responsabile
dell'evento, come legato alle fantasie conflittuali di natura edipica.
Il senso di colpa non sparisce mai completamente, anche nel l'adolescenza,
come del resto avviene in caso di separazione tra i genitori, che
il bambino addebita a sua colpa.
Ugualmente a propria colpa il bambino tende ad interpretare la morte
di un fratello, specie se vi erano condizioni di gelosia: sconvolgente
può essere la morte improvvisa, sia per AIDS che per incidente.
Il bambino percepisce la morte come un evento permanente solo intorno
ai 10 anni, anche se il dolore e il senso di abbandono precedono di
molto tale età. I familiari, eventualmente aiutati da psichiatri,
debbono spiegare al bambino la causa della morte del genitore: assicurarlo
che non ha alcuna colpa, consentirgli di piangere apertamente la perdita
e di parlarne.
Il suicidio di un genitore va spiegato nel senso di una sua malattia,
senza caricare l'evento di un senso di colpa, sia sul suicida, che
sui familiari.
I casi di psicosi più o meno larvate sono spesso l'esito di
un lutto che si sovrappone a precedenti disturbi della sfera emotiva
con limitate capacità di adattamento.
Malattia mentale
dei genitori
L'influenza di malattie mentali dei genitori in senso ereditario è
stata sopravvalutata, ma non si può negare; molto importanti
invece, anche perché su di esse si' può agire, sono
le distorsioni che si creano nei rapporti di un genitore psicotico
con il figlio.
Una madre depressa può determinare Una carenza di cure, se
non vi sono altri parenti in grado di supplire, con esito nel bambino
di un ritardo di sviluppo. Alcune volte le pazienti depresse si aggrappano
al figlio per trovare un aiuto e tentano di fare in modo che anche
il piccolo si aggrappi a loro. Genitori, e specie madri con sindromi
depressive, possono determinare nei figli crisi di depressione, sbalzi
nell'umore e nella affettività. In figli di donne schizofreniche
si sono osservati anche disturbi del linguaggio.
In figli di psicotici sono abbastanza comuni disturbi emotivi e del
comportamento. In alcuni bambini vi è un senso di colpa nella
convinzione di aver contribuito essi stessi alla malattia dei genitori.
Nei casi di ospedalizzazione della madre la reazione, se vi era stato
un lungo periodo di gravi disturbi, può essere di miglioramento
della situazione. In casi in cui il ricovero avviene in un periodo
di relativa tranquillità, l'ospedalizzazione è invece
vissuta come la perdita del genitore.
E' molto frequente che un genitore fortemente disturbato sia convinto
che è il figlio ad avere delle reazioni anormali; vi è
spesso, anzi, la tendenza a riempire il figlio di medicine, rappresentando
la cura del figlio un modo di scaricare la tensione della madre.
Figli di madri subnormali dovrebbero giovarsi di servizi di aiuto
familiare, di scuole materne e di scuole ad orario prolungato.
Rifiuto di
cure - Eccesso di cure
Passando ai bambini in difficoltà per rifiuto di cure essenziali
da parte dei genitori o per trattamenti anomali, empirici e dannosi,
dobbiamo citare innanzitutto il caso di sottrazione del bambino ad
un centro immaturi o ad un intervento chirurgico.
li rifiuto di trasfusioni può avere carattere religioso (testimoni
di Geova). Vi sono stati casi seguiti da processi penali per la morte
del bambino. In casi del genere il medico deve agire in senso preventivo;
deve, cioè, rivolgendosi al Tribunale per i Minorenni, far
eseguire coattivamente il ricovero o l'intervento, non, invece, far
condannare, dopo il decesso, i responsabili, specie nel caso di omissioni
per motivi religiosi. Vi sono problemi a far condannare qualcuno per
la propria fede, ma si deve essere decisi nel far praticare gli interventi
essenziali, a vantaggio di minori.
Pratiche di medicine alternative sono dannose perché si trascura
la diagnosi e la cura corretta. Per quanto riguarda pratiche crudeli,
come l'infibulazione, il medico deve opporsi, nonostante il rispetto
dovuto alla varie culture e religioni.
Un aspetto a sé riguarda il rifiuto di vaccinare i figli, diritto
rivendicato da privati e associazioni sulla base che nel nostro ordinamento
costituzionale, di tipo personalistico, il trattamento coattivo non
dovrebbe essere ammesso. A far chiarezza era intervenuta la Corte
Costituzionale che con sentenza n. 307 del 1990, facendo riferimento
al concetto di salute (Costituzione, art. 31) non solo come diritto
del singolo ma anche come interesse della collettività, aveva
sancito la legittimità delle vaccinazioni obbligatorie in quanto
finalizzate a preservare la salute del vaccinato e della collettività.
Infatti, salvo che per la vaccinazione antitetanica, la copertura
con la vaccinazione di larga parte della popolazione (80-90%) elimina
la circolazione dell'agente morboso (Andersen) e perciò viene
assicurata anche la protezione della comunità.
Ma una recentissima sentenza della Cassazione (1997) ha mandato assolti
dei genitori che si erano rifiutati di vaccinare i figli, sul principio
appunto che in Italia non sono ammesse cure coatte. Non conosciamo
le motivazioni della sentenza, ma vi è da osservare che, nell'applicazione
di un principio di libertà, se ne calpesta un altro, che sembrava
una conquista della civiltà e cioè che il diritto di
patria potestà non è assoluto, ma è subordinato
agli interessi del figlio. Se il rischio da vaccinazione è
inferiore a quello delle malattie contro cui ci si vaccina, il genitore
non dovrebbe avere il diritto di non vaccinare il figlio; la libertà
di non curarsi è per sé, non per i figli.
L'assurdo nella lotta alle vaccinazioni è che si calcola il
rischio delle vaccinazioni in confronto con quello della malattia
in una popolazione di vaccinati ove la malattia è sparita (vedi
il caso della poliomielite) proprio grazie alla vaccinazione. Quanto
ai farmaci inutili o dannosi vi è un abuso senza limiti. I
ricostituenti negli anni '50-'80 erano prescritti sempre, specie dai
medici degli enti mutualistici, perché la mancata prescrizione
veniva interpretata come un asservimento del medico all'ente di assistenza,
per esigenze di risparmio di quest'ultimo. Spesso rimanevano negli
armadi, ma a volte, purtroppo, venivano usati.
Dannosi sono stati particolarmente i preparati di vitamina D a dosi
urto, che, in seguito a relazioni autorevoli, non avrebbero avuto
più diritto di cittadinanza, per nessuna diagnosi in pediatria,
già dal 1952 (Frontali), perché pericolosi e che invece
tuttora vengono usati; dannosi senz'altro anche i preparati anabolizzanti
ormonali, usati nell'illusione di avere figli più grossi e
più forti; inutili i prodotti per stimolare l'appetito e gli
antianemici, salvo in casi di accertata diagnosi di anemia, specie
con iposideremia.
L'uso degli antibiotici, senza la prescrizione medica, o prescritti
in seguito a sollecitazioni pressanti, è un altro capitolo
degli abusi che tuttora persistono.
Ma forse l'abuso più documentato, specie negli Stati Uniti,
è quello degli psicofarmaci, sia in caso di bambino iperattivo
sia in caso di bambino ipoattivo, sia in caso di difficoltà
scolastiche. Circa un milione di bambini ogni anno in America ingerisce
psicofarmaci (Schrag, Divory, 1980), così da essere farmacologicamente
"controllato". Un'altra esigenza è che il bambino
dorma e naturalmente il sonno, se non viene, bisogna provocarlo.
Passando alla trascuratezza alimentare, risulta chiaro che la ipoalimentazione
è molto ridotta nelle nostre popolazioni; i pochi casi sono
però in prevalenza dovuti non tanto a povertà quanto
a disordine e inerzia (ad es., figli di alcoolisti e di tossicodipendenti).
Una pratica incongrua è la somministrazione di alcool (in genere
vino). Marchi a Trieste e Gorizia, nel 1997, ha trovato che era abbastanza
comune il consumo di vino a 8-10 anni e quello di superalcoolici a
12 anni.
Una forma di trascuratezza alimentare è quella di accettare,
per evitare contrasti e per semplificare il proprio compito, un'alimentazione
unilaterale, e perciò cadenzata su gusto e scelta del bambino.
Frequentissima è l'alimentazione al biberon, per 3-4 anni,
con latte, biscotti e zucchero.
E' trascuratezza anche l'eccesso. Fomon riporta che il 92% dei bambini
americani di 2-3 anni assume più di 2-3 volte il fabbisogno
in proteine. Da noi la situazione ci risulta analoga.
La trascuratezza in campo di istruzione si verifica nella maniera
più evidente con l'evasione dell'obbligo scolastico, che coincide
spesso con l'invio del bambino al lavoro in età non ammessa
o con l'uso dello stesso per accattonaggio o per attività asociali
(es. furto). Trattandosi spesso di famiglie in condizioni socio-culturali
precarie o di nomadi, si può concedere un'assistenza contro
certificato di effettiva frequenza scolastica.
Figli di divorziati
Lo studio dei figli di divorziati è stato, in passato, fatto
su campione di bambini a divorzio già avvenuto, confondendo
perciò l'effetto del divorzio con quello delle condizioni che
avevano dato luogo allo stesso e assumendo il divorzio come un atto
e non come l'esito di un processo, più o meno lungo, di difficoltà
familiari. Si partì anzi dalla raccolta, in un'unica categoria,
nell'immediato dopoguerra, dei figli di tutte le famiglie disgregate
e si affermò (Heuyer) che tra essi si trova il 90% di adolescenti
devianti; sulla stessa linea la rivista Pediatrie, che ancora nel
1981 affermava che i figli di divorziati erano numerosi tra i devianti.
La descrizione di tutti gli autori (es., Le Moal) fa perno su disturbi
della psiche dei figli, che sarebbero anoressici, con personalità
solitarie, ansiosi e depressi, con frequenza di "pavor nocturnus".
Farebbero riscontro una certa ipermaturità e precocità
intellettiva. Negli stessi studi i genitori appaiono emotivamente
immaturi nell'insieme di un evento, il divorzio, che rompe il quadro
della famiglia intesa come base della società. In questi studi
vi è spesso una concezione manichea, il coniuge buono è
quello che vive secondo la morale del gruppo, il cattivo, l'altro
che rompe doveri e consuetudini.
Circa vent'anni fa si cominciò finalmente a studiare il divorzio
sia durante il processo di crisi familiare che porta ad esso, sia
longitudinalmente, negli anni successivi al divorzio stesso.
Nel Journal of divorze del 1981 si afferma che gli stessi bambini
chiariscono che dopo il divorzio non aumentano i loro disturbi, già
evidenti nel periodo della vita familiare conflittuale. Hetherington,
con studi su bambini piccoli, dimostrò invece che i maggiori
disturbi si avevano entro il primo anno dopo il divorzio, forse anche
per le maggiori difficoltà dei genitori, che si mostravano
più turbati dei figli. Si può affermare, in sintesi,
che in un periodo di due anni si raggiunge un certo equilibrio, sia
per i genitori che per i Figli, pur rimanendo per alcuni bambini una
situazione difficile, che spesso riappare dopo anni di apparente adattamento.
La situazione conflittuale porta a violenza fisica tra i genitori
e spesso sul bambino spesso; comunque i bambini più grandi
vivono questo clima di violenza, mentre per i più piccoli può
essere una sorpresa che uno dei genitori abbandoni la casa, creando
naturalmente una brusca variazione degli schemi della loro vita.
Essendosi verificato con la separazione non solo il peggioramento
della situazione economica, per una deficienza di contributi da parte
del padre separato e per le difficoltà di lavoro della madre
che, non avendo prima lavorato, non riesce ad assumere un posto ben
retribuito, ma anche un danno per il bambino dal cambiamento di abitazione,
la magistratura si è orientata in modo da lasciare nella loro
casa i bambini e, naturalmente, il genitore al quale sono affidati,
di chiunque sia la proprietà.
Dopo 1-2 anni si ha di solito un buon adattamento, ma altri problemi
sorgono con la presenza di nuovi-partners dei genitori.
Da Wallenstein sono descritti i più comuni disturbi e atteggiamenti
dei bambini in rapporto all'età in cui si è avuta la
separazione dei genitori.
In sintesi, è difficile evidenziare i disturbi dei bambini
al di sotto dei due anni, disturbi che in genere coincidono con crisi
abbandoniche, se è la madre a sparire, e che sono meno evidenti
per il padre.
Dai due ai 5 anni si può avere regressione, disturbi del sonno,
irritabilità, ansia di separazione con richiesta di contatto
fisico, riduzione dell'attività ludica, paura dell'abbandono
anche da parte dell'altro genitore e senso di colpa per la separazione.
Tra i 5 e gli 8 anni la reazione è apparentemente più
grave: vi possono essere il rifiuto della nuova situazione e un'aperta
afflizione. Si accompagnano spesso un desiderio per il genitore che
è andato via e fantasia su un suo ritorno. Grave è la
paura di essere "gettati via", nei ragazzi lasciati dal
padre. Vi è un declino delle prestazioni scolastiche e un deterioramento
dei rapporti sociali con i coetanei, disturbi che sono vivi anche
nelle età successive.
Tra i 9 e i 12 anni il ragazzo finge noncuranza per il problema familiare
e di cui non vuole parlare, ma accompagnata a rabbia intensa contro
uno o entrambi i genitori. In tale età viene facilmente eletto
come alleato da parte di un genitore, spesso la madre, perché
il padre viene accusato di essere stato la causa dell'abbandono, anche
se alla stessa madre si rimprovera di non essere stata capace di conservargli
il padre.
Dopo cinque anni di divorzio, in età adolescenziale, un terzo
dei soggetti presenta angosce e turbe psichiche e il sintomo più
frequente è la depressione. Non vi è rapporto tra l'adattamento
alla nuova situazione, che si realizza, come si è detto, spesso
entro due anni dalla separazione e la possibilità di questi
danni permanenti in una, non irrisoria minoranza dei soggetti. Naturalmente
gli adattamenti sono peggiori quando i bambini sono affidati ad una
madre depressa o quando i contrasti tra i genitori continuano. Il
trattamento dei figli di divorziati esige:
- che i bambini vengano rassicurati che la loro vita familiare non
subirà altre perdite; perciò molto dannose sono le incertezze
delle decisioni dei genitori sulla separazione: la nuova situazione
deve essere ritenuta stabile;
- che vengano rassicurati che la separazione non ècolpa del
bambino e che lui non può far niente per raddrizzare la situazione;
- che vengano edotti delle nuove abitudini di vita e di visita da
parte dell'altro genitore;
- che si spieghi loro il perché della separazione, ammesso
che sia possibile, rassicurandoli che potranno vedere ed amare entrambi
i genitori;
- che non ci si aspetta da loro una presa di posizione a favore dell'uno
o dell'altro genitore;
- che potranno esprimere anche le proprie posizioni di disappunto
e di dolore.
Un ruolo particolare è quello dei nonni: i genitori della madre
sono spesso chiamati ad aiutarla, creando dei ruoli vicari con reazioni
a volte conflittuali con la propria figlia e immagini sovrapposte
a quelle dei genitori. I genitori del coniuge che non ha i figli,
sentendosi spesso declassati, sono i più impegnati a cercare
di ottenere i favori dei nipoti e a trasformarsi in befane. Non deve
avvenire che i nonni si facciano portavoce dei dissapori familiari,
ponendo il bambino in una difficile situazione di arbitro di una condizione
anomala. I figli di separati, a parte i danni legati alla loro condizione,
vengono spesso danneggiati anche da provvedimenti incongrui dovuti
alla necessità di garantire i diritti degli adulti, come l'affidamento
un week-end al padre e uno alla madre, creandosi perciò una
doppia casa, un doppio letto, un doppio insieme di rapporti e di abitudini.
A volte al ritorno dal weekend con il padre, le madri, cui sono affidati
nel 90% dei casi, portano i bambini in ambulatorio (in ospedale è
classico l'ambulatorio del lunedì dei figli di separati) per
farli esaminare sullo stato di salute e su eventuali abusi subiti
dal piccolo e l'ambulatorio del sabato con le madri che portano i
figli in ospedale per farli risultare malati e non darli ai padri
per i week-end. Sarebbe opportuno che si creasse, come da alcune proposte
di legge, il Tribunale della Famiglia che assorba i compiti del Tribunale
per i Minorenni e quelli del Giudice Civile oggi competente per le
separazioni, facendo in modo che un organo tecnico, come già
è, in parte, il Tribunale per i minorenni, assolva anche i
delicati compiti per l'affidamento nei casi di separazione o di divorzio.
Le decisioni dovrebbero essere prese nell'esclusivo interesse del
bambino, prescindendo da diritti, colpe e meriti degli adulti.
Lavoro delle
madri - Bambini dei nidi
Per quanto riguarda i bambini dei nidi, non vogliamo qui affrontare
gli aspetti psicologici; possono esservi danni da separazione e vantaggi
da socializzazione precoce: dipende dall'età del bambino e
dalla validità della istituzione. Certo, comunque, non vi può
essere una socializzazione tra le culle: il nido per lattanti è
dunque solo dannoso.
Vogliamo, invece, porre l'accento sulla patologia dei nidi, molto
vicina a quella dei brefotrofi, con affezioni "banali" respiratorie
3-4 volte più frequenti che negli altri bambini, cori infezioni
da hemophilus e da VRS anche dieci volte più frequenti, con
elevato contagio per giardiasi e per citomegalovirus (Assenzio e coll.,
Menichella e Ricci, Pass e coll., Seal, Goodman, Osterholm, Loda).
I giorni di assenza dei bambini dal nido sono intorno al 50% dei giorni
di apertura dei nidi (90-120 giorni contro circa 200). I bambini dei
nidi sono spesso destinati ad essere dei bronchitici cronici, degli
affetti da adenoidismo e da otiti ricorrenti.
L'invio al nido è, a volte, una necessità per la famiglia,
mai per la comunità, che con qualunque forma di assistenza
alla famiglia spenderebbe molto meno che con i nidi. Il costo di un
giorno di presenza del bambino supera il valore di una giornata lavorativa
della madre. A Roma il costo è stato (1993) di 1.700.000 al
mese a bambino iscritto.
A volte, però, l'invio al nido non è una necessità,
ma è una scelta per evitare di affidare i bambini a prenti,
a nonni o bambinaie e per la propaganda che viene fatta alla liberazione
della lavoratrice e ai servizi di comunità. Bisogna però
chiarire che l'interesse del bambino è innanzitutto quello
di non ammalarsi.
La soluzione per la comunità è quella di dare assegni
alle madri, per permettere loro di assistere direttamente i figli
piccoli, al disotto di 2-3 anni. Naturalmente, è tutta una
politica assistenziale che va rivista; bisogna favorire il part time,
come in Olanda e in Inghilterra, dove oltre la metà delle donne,
e quasi tutte le madri, hanno orari di 16-18 ore settimanali, e favorire
le famiglie monoreddito, perché una madre operi, in piena libertà,
una scelta.
vincenzo e giovanna menichella
(2-continua)