Come il Titanic




S. B.



I milioni di prigionieri europei della disoccupazione hanno molti carcerieri: le banche centrali. Ma il capo dei secondini si chiama Hans Tietmeyer, "un banchiere che non va né a destra né a sinistra, ma è come il capitano del Titanic, che va avanti verso la distruzione". A pronunciare queste parole non è stato il capo di un manipolo di trotzkisti, ma il professor Robert Solow, premio Nobel per l'economia, uno dei firmatari del "Manifesto contro la disoccupazione in Europa". E Lester Turow, professore al celeberrimo Mit, ha rincarato la dose: "La Bundesbank mi pare una rana congelata in un iceberg russo". In ultima analisi, il potente numero uno della Banca centrale tedesca è visto come un uomo legato pedantemente alle regole più rigide. Neokeynesiani, o monetaristi puri, o anti-globalisti? Niente di tutto questo, ma, come riecheggia da Boston il primo firmatario del "Manifesto", e anche lui premio Nobel per l'economia, Franco Modigliani, si tratta di un gruppo di economisti che "punta sull'aumento degli investimenti privati, il cui crollo è il motivo fondamentale dell'incapacità di creare nuovi posti, attraverso la politica monetaria". Chi ha scritto il "Manifesto", insomma, è partito dalla constatazione che l'Europa di Maastricht sembra essersi chiusa in un tragico circolo, composto dalla limitazione dell'attività economica, dalla deflazione, dalla riduzione dell'attività di lavoro, e in sostanza dalla disgraziata accettazione della disoccupazione di massa; e dall'altra constatazione, non meno rilevante, secondo la quale la globalizzazione, anche se dolorosa, vuole regole, non ceppi. Modigliani e i suoi, inoltre, hanno evitato le trappole della flessibilità a tutti i costi, predicata da coloro i quali vogliono mano libera totale sui licenziamenti, un aggravamento dello squilibrio tra salariati e imprese, l'economia a più velocità. E il caso dell'Italia è servito da cartina di tornasole per l'intera Europa, perché la penisola ha una crescita più bassa, frutto di politiche deflazionistiche, con aumento di divario sociale ed economico tra regioni ricche e regioni povere, con aziende che non accettano la competizione e richiedono ancora, come sempre, la protezione pubblica contro la concorrenza.
Dunque, non si parla di "battito di farfalle" ad Hong Kong che fa crollare Wall Street, né di "visioni a incubo di profittabilità allo stato puro" che ignorano il destino di milioni di esseri umani. E nemmeno si pensa di applicare all'Europa le ricette americane, "perché altrimenti il Vecchio Continente si troverebbe con il doppio di disoccupati in pochi mesi". Modigliani, convinto com'è che "non siamo alla vigilia di una grande depressione" e che "ci sono fenomeni molto diversi da non mettere insieme tra Europa ed America", pensa ad un organismo superiore, ad una commissione politica che faccia da timoniere per la Banca centrale europea: è in quel luogo di pressione, del resto già delineato da Carlo Azeglio Ciampi, che occorre agire per ridurre i tassi di interesse, per controbattere i rigurgiti anti-mercato, per dispiegare un fuoco di sbarramento preventivo contro i signori europei del denaro.
Con ogni probabilità, il merito principale del "Manifesto" è quello di mettere in luce la complementarità tra riforme strutturali e politiche macroeconomiche. Le riforme del mercato del lavoro, vi si sostiene, rischiano di produrre effetti perversi se le condizioni macroeconomiche non sono favorevoli alla crescita e alla creazione di posti di lavoro. Liberalizzare il mercato del lavoro significa, dopo tutto, rimuovere ciò che ostruisce il canale che porta non solo dalla disoccupazione all'occupazione, ma anche dall'occupazione alla disoccupazione. Se lo si fa quando il vento è contrario, si rischia soltanto di riempire il bacino della disoccupazione, con il risultato, peraltro, di rinvigorire le resistenze al cambiamento e di rendere più difficile la continuazione delle riforme.
Un secondo merito del "Manifesto" è quello di portare il problema delle politiche contro la disoccupazione su scala europea. Questo richiamo alla responsabilità delle istituzioni europee è tutt'altro che scontato se si pensa che i comunicati dei vertici di Amsterdam e del Lussemburgo tendevano a porre il problema della disoccupazione europea come una questione tutto sommato interna ai singoli Paesi membri.
E' un richiamo, inoltre, sostanziato da precise proposte. In primis, i criteri di convergenza di Maastricht e il patto di stabilità dovrebbero riguardare unicamente le spese correnti, impedendo che l'aggiustamento fiscale continui ad avvenire soprattutto a danno degli investimenti pubblici. In secondo luogo, i fondi strutturali andrebbero rimpinguati ulteriormente. Infine, la Banca Centrale europea dovrebbe includere nella sua funzione/obiettivo non soltanto il contenimento dell'inflazione, ma anche la riduzione della disoccupazione, attuando - tanto per intenderci - politiche non da Bundesbank, ma da Federal Reserve.
Questa presa di posizione ha gettato nel panico le schiere dei dirigisti e delle famiglie industriali eternamente protette in Italia. Tanto più che nel dibattito sono intervenuti altri due big dell'economia, il monetarista Merton Miller, della School of Business di Chicago, e il keynesiano Paul Samuelson, già consigliere di Kennedy, e oggi professore emerito del Mit di Boston e uno dei maggiori economisti mondiali. Dice Miller: "I politici europei si illudono che la questione sia semplicemente di domanda. E' soprattutto una questione strutturale, che riguarda il mercato del lavoro: in Europa non è più in grado di funzionare ed è anche incapace di cercare e piazzare risorse in modo razionale. Si è arrivati al paradosso di tassare l'occupazione, mentre si sostiene con sussidi la disoccupazione. Invece di operare sull'Euro e sui tassi di cambio, gli europei dovrebbero aggredire le ragioni strutturali che rendono altissimo il numero dei disoccupati. La paga minima è troppo alta ed è costoso licenziare un dipendente. Di conseguenza, l'imprenditore non assume. Al contrario, spingerei di più il lavoro indipendente e ridurrei l'ingerenza dello Stato in materia salariale. L'intervento pubblico sclerotizza il mercato del lavoro e restringe la mobilità".
Rincara la dose Samuelson: "Attraverso una serie di regole protezionistiche e programmi di assistenza alla disoccupazione i sindacati fanno sì che il costo del lavoro non crolli. In un mondo ideale l'Europa cercherebbe di imitare gli Usa per quanto riguarda la politica del lavoro. Per il resto, in America la Federal Reserve è consapevole del pericolo imminente di una crescita economica rallentata ed è già intervenuta due volte riducendo i tassi di interesse. E' anche possibile che altri tagli avvengano nei prossimi mesi. Per l'Europa è probabile che per far fronte a una modesta recessione, il programma ideale debba essere un mix delle due strategie: stabilità monetaria guidata dalla Banca centrale europea, più alcune spese pubbliche, ma ben pensate e mirate. Ma se si torna alla politica dell'assistenza che favorisce solo l'aumento del deficit e se il governo diventa troppo tollerante nei confronti dei sindacati, allora la situazione diventerà troppo pericolosa. Ecco perché spero che l'Italia impari dagli errori del passato".


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