Addio al monologo del dollaro




Mario Deaglio



Gli Stati Uniti sono ancora sicuramente un "fratello maggiore", ma, per il momento almeno, non sono più un "grande fratello" in grado di esercitare un'egemonia finanziaria su tutti gli altri Paesi. E' questo il risultato dell'ingresso dell'euro sulla scena monetaria mondiale, avvenuto non certo in tono minore. Quale che sia la forza effettiva della nuova moneta - e pur rimanendo giustificato il sospetto di una sua fragilità di fondo - occorre constatare che i mercati hanno immediatamente posto l'euro in rapporto dialettico con il dollaro e non già in posizione subordinata, modificando così radicalmente il panorama dell'economia mondiale.
Il lungo monologo del dollaro, che durava dai tempi della seconda guerra mondiale, è pertanto, almeno temporaneamente, terminato e in questo momento sono due i poli della finanza internazionale. Tra di essi si apre un incerto periodo di confronto che potrebbe trasformarsi in aperto scontro; tale confronto sostituisce la precedente necessità delle monete nazionali di cercare - a proprie spese - un "corretto" cambio con la moneta americana, mentre quest'ultima poteva guardare al resto del mondo con quella che veniva definita una benevola disattenzione.
Un simile cambiamento strutturale fa acquistare alla finanza internazionale una dimensione "politica" e questo non certo perché una serie di regimi, notoriamente ostili agli Stati Uniti, si sono affrettati ad annunciare il passaggio dal dollaro all'euro come moneta di riserva, ma perché gli Stati Uniti non sono più in grado oggi di effettuare una politica monetaria priva di costi internazionali. Per decenni il Giappone, pur di vendere i suoi prodotti negli Stati Uniti, non ha avuto altra alternativa che accumulare saldi attivi detenuti in dollari e non è certamente un caso che il governo giapponese abbia scelto proprio il giorno del lancio dell'euro per accusare gli americani di distorcere a proprio favore le regole del mercato.
La competizione per il delicatissimo (e vantaggioso) ruolo di intermediario dei capitali mondiali forse oggi è davvero incominciata e il vecchio detto di un grande economista americano, Milton Friedman, secondo cui "nessun pasto è gratis", comincia ad applicarsi, dal punto di vista finanziario, anche agli Stati Uniti d'America. Finora, infatti, le autorità di Washington hanno goduto di tutti i vantaggi che possono derivare dall'emettere quella che è stata la vera moneta mondiale, senza doverne sopportare che pochissimi costi; di qui in avanti, tanto per fare un esempio, un'eventuale riduzione del costo del denaro, decisa dalle autorità monetarie di Washington, potrà provocare fughe valutarie dal dollaro ben più rilevanti di quelle del passato, in quanto diventerà più facile per gli investitori trovare sul mercato strumenti finanziari alternativi in quantità sufficiente.
Fino ad alcuni mesi fa, le autorità finanziarie americane ritenevano che il carattere più evoluto dei loro mercati, dotato di strumenti eccezionalmente sofisticati e assai redditizi, avrebbe rappresentato una difesa sufficiente almeno per qualche anno nei confronti dell'euro. Le vicende del Fondo Ltcm, che ha rischiato, l'ottobre dello scorso anno, di provocare il collasso di Wall Street, hanno invece posto in luce la vulnerabilità di questi strumenti, attenuando così tale vantaggio. E' significativo che, quasi subito dopo, si sia verificata una netta caduta nei prezzi dei Buoni Trentennali del Tesoro americano. Dal canto loro, i Paesi dell'euro hanno tutto l'interesse a pagare nella propria moneta i prodotti che acquistano dal resto del mondo, e in particolare il petrolio e le materie prime, senza dover più passare per il dollaro; i Paesi che commerciano con l'Europa possono, a loro volta, avere interesse a detenere una parte delle loro riserve in Europa per diversificare il rischio rappresentato da una sola moneta. La competizione si sposta in questo modo sul terreno della grande strategia economica mondiale, dove Europa e Stati Uniti, pur avendo moltissimi interessi in comune, risultano talora nettamente in contrasto, come mostra, fra l'altro, il duro contenzioso della "guerra delle banane", che rischia di far compiere un importante passo indietro alla libertà dei commerci.
Perché il confronto non si trasformi in scontro, è necessario un atteggiamento nuovo che trascenda la tradizionale cooperazione e che comporti la rinuncia, da parte americana, a una sorta di "naturale" superiorità nelle questioni monetarie. Si tratta, in primo luogo, di un modo di pensare, avvertibile, tra l'altro, nel tono predicatorio dei brevi commenti di alcuni economisti statunitensi. Tale tono deve essere abbandonato: abbiamo un ordine monetario internazionale, mondiale, da consolidare rapidamente, prima che l'economia del pianeta scivoli definitivamente in una recessione assai pericolosa. Per evitarla, la buona volontà reciproca deve sostituirsi al senso di superiorità.


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