Un modello da rivedere




Duilio Pressburger



Non c'è capitalismo senza industria finanziaria, ma non c'è industria finanziaria a prova di scompensi e con regole tali da garantire del tutto contro i suoi difetti di funzionamento. Questo è vero anche per gli anni Novanta, epoca d'oro del "risparmio gestito". Tale risparmio (fondi comuni, polizze assicurative e gestioni individuali) vale più di 24 mila miliardi di dollari. Nell'ultimo decennio il suo valore è triplicato negli Stati Uniti (13 mila miliardi) e una forte accelerazione si è verificata in Europa. In Italia, dove ancora non raggiunge il 20 per cento delle attività finanziarie delle famiglie, dovrebbe raddoppiare entro il Duemila.
Del risparmio gestito non si è mai cessato di tessere le lodi, che presentano un fondo di sostanziale verità: il risparmio gestito promuove il "capitalismo diffuso"; consente di amministrare professionalmente portafogli anche piccoli, rendendoli più diversificati e quindi meno rischiosi rispetto al portafogli "fai da te"; permette acquisti in mercati altrimenti troppo onerosi per il singolo risparmiatore; favorisce, infine, l'acquisto di azioni, indirizzando risorse finanziarie verso le imprese, piuttosto che verso il finanziamento dei deficit pubblici.
La medaglia, però, ha sempre due facce, come dimostrano gli avvenimenti di questi ultimi mesi. Non tanto per le vicende degli hedge funds, caratterizzati da performances vertiginose e da rischi altrettanto vertiginosi, ma in genere diffusi tra grandi operatori, quanto per lo stesso "modello operativo" dei fondi di investimento. Questo modello presenta tre "difetti" nell'ottica del funzionamento del mercato.
Primo: l'obbligatorietà delle scelte. I fondi sono costretti ad entrare sul mercato quando la raccolta supera i riscatti, e sono costretti ad uscirne se sono i riscatti a superare la raccolta, quale che sia il livello dei corsi. C'è un'elevata correlazione statistica tra prezzi di Borsa e raccolta netta di fondi, sicché i gestori finiscono, ad ogni ciclo di Borsa, con il comprare a prezzi relativamente alti o a vendere a prezzi relativamente bassi. Il che, oltre a frustrare la professionalità dei gestori, danneggia il mercato, perché ne eccita la volatilità e accresce la durata fisiologica delle "correzioni tecniche".
Secondo: l'eccessiva specializzazione. I fondi sono sempre più minutamente specializzati, per area geografica, strumento finanziario, settore industriale, dimensione degli emittenti; ma la specializzazione non fa sempre bene al mercato. Il risparmiatore, infatti, deve operare scelte, come quella del settore d'investimento, per le quali spesso non ha competenza sufficiente a individuare l'opzione più coerente rispetto ai propri obiettivi. I fondi settoriali tendono poi a settorializzare il mercato, e, in fasi di elevata volatilità, ampliano l'effetto di uscita "a qualunque prezzo" dai mercati in caduta, o di entrata "a qualunque prezzo" su quelli in pieno "toro". Se la maggior parte dei fondi gestiti fosse "globale", forse dal Brasile non sarebbero usciti i trenta miliardi di dollari di investimenti in poche settimane che hanno richiamato l'attenzione delle autorità monetarie americane e del Fondo monetario internazionale, e forse, allora, anche la caduta del mercato brasiliano sarebbe stata minore, e meno gravi gli effetti reali su quell'economia.
Terzo: l'uso dei benchmarks. Così come attraverso i fondi settoriali i gestori vengono deresponsabilizzati e costretti a dibattersi in recinti ad elevata volatilità, con il diffondersi dell'uso dei benchmarks i gestori vengono deresponsabilizzati nella delicata fase dello stock-picking, vale a dire della scelta dei titoli. Infatti, se per soddisfare i risparmiatori il fondo replica l'andamento dell'indice assunto come benchmark, la politica del gestore sarà sempre sub-ottimale. Ben difficilmente un gestore, nel corso di una fase espansiva, acquista delle opzioni (put, in termine tecnico) per proteggersi da inattese inversioni di tendenza, rischiando così di ottenere risultati inferiori al benchmark. Intento a "replicare" l'andamento dell'indice, costretto a vendere nelle fasi di caduta per la pressione dei riscatti, butta sul mercato titoli buoni e meno buoni, con la sola preoccupazione che le vendite replichino la composizione dell'indice e così escludendo la possibilità di fare peggio, ma anche meglio, dell'indice stesso. E' dubbio che tutto ciò sia nell'interesse di chi ha conferito il risparmio nelle gestioni collettive.
Tutto da rifare, allora? No di certo, ma è senza dubbio possibile introdurre alcuni miglioramenti. Vediamo quali.
Riformare il sistema delle commissioni. Con i cosiddetti fondi noload, la concorrenza ha ridotto, fino ad annullarle, le commissioni di entrata, uscita e trasferimento, sostituite da commissioni di gestione e incentivo, assai meno percepibili dal risparmiatore. Adatto per gli impieghi di breve termine, il sistema snatura gli investimenti azionari che dovrebbero essere acquistati (e mantenuti) in un'ottica di lungo periodo e vengono invece trattati come impieghi pressoché liquidi. Occorrerebbe auto-regolamentare la struttura delle commissioni, scoraggiando, per i fondi azionari, entrate e uscite frequenti, tanto più se i fondi sono settorialmente o geograficamente specializzati; si dovrebbe parallelamente limitare la vendita dei fondi più specializzati e rischiosi ai soli "piani di accumulo" che, permettendo al risparmiatore di programmare l'ingresso in un mercato volatile a un prezzo medio, su un apprezzabile arco di tempo, ne scoraggiano comportamenti emotivi nel caso di brusche variazioni dei corsi.
Modificare le classificazioni. Per quanto detto fin qui, i fondi destinati al largo pubblico non professionale dovrebbero quindi essere classificati non secondo specializzazioni settoriali, ma secondo livelli di esposizione al rischio di mercato. All'interno di una massima perdita accettabile in un intervallo definito di tempo, il gestore dovrebbe essere incoraggiato a muoversi tra i diversi strumenti e mercati con estrema libertà. Si distinguerebbe così, tra l'altro, chi possiede vera professionalità da chi è solo in grado di seguire un benchmark.
Incoraggiare i fondi pensione. Simili nelle fasi di rialzo, le Borse si differenziano in quelle di ribasso, che in certi mercati portano le quotazioni a livelli irrealistici, mentre in altri si fermano prima, con minori distruzioni della ricchezza finanziaria e minori effetti sull'economia reale.
Da dove deriva la differenza? In buona misura, dalla presenza, più o meno rilevante, di operatori dotati di un orizzonte di lunghissimo periodo e con dinamiche di raccolta prevedibilissime, la cui politica di acquisto è pressoché esclusivamente legata ai valori fondamentali dei titoli. Questi operatori sono i "fondi pensione" (negli Stati Uniti, dove negli ultimi anni le fluttuazioni sono state mediamente inferiori, il loro patrimonio è all'incirca il triplo di quello dei fondi comuni). I fondi pensione comprano quando le vendite dei fondi comuni, pressati dai riscatti, fanno scendere le quotazioni; contrastano così irrazionali comportamenti di panic selling a qualunque prezzo. Sono perciò preziosi stabilizzatori automatici dei mercati. La loro mancanza in Italia contribuisce a spiegare la lunga durata delle fasi depressive e le brusche cadute. Auguriamoci dunque che siano presto operativi anche da noi, e con regole che non ne limitino l'orizzonte temporale, vanificandone la funzione di ammortizzatore.


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