L'INCOGNITA SFIDUCIA




Giuseppe De Rita



L'inizio di settembre è stato da sempre il momento in cui un po' tutti ci esercitiamo negli scenari e nelle previsioni su come andranno le cose nell'anno di lavoro che comincia. Questa volta ho avuto l'impressione che l'esercizio sia stato più difficile che nel passato, anzi che non è stato neppure tentato, presi come siamo stati dalla necessità di galleggiare sulle convulsioni finanziarie e monetarie che hanno angosciato il mondo, nelle nuove economie asiatiche come in Giappone, a Wall Street come a Mosca, in America Latina come nelle Borse europee. Una situazione nella quale fare previsioni era impossibile e fare scenari a medio periodo poteva addirittura indurre al sorriso ironico.
Eppure, ogni operatore che si rispetti, sia esso un imprenditore o un responsabile di governo, ha bisogno di qualche riferimento per impostare la sua azione, al limite anche per galleggiare nella tempesta. E tale bisogno è ancor più evidente in un sistema come quello italiano che è connotato da due caratteristiche strutturali (il suo carattere imprenditorialmente e territorialmente diffuso, e il suo attaccamento all'economia reale più che a quella finanziaria) che da molti e a lungo sono state considerate incoerenti con le magnifiche sorti progressive della finanziarizzazione e della globalizzazione. Oggi che quest'ultima è in crisi, cosa fa l'economia italiana? Subisce senza reazioni una crisi non sua, oppure usa la sua antica capacità di adattamento, oppure trova addirittura spazi per riproporre il suo giuoco basato sullo sviluppo diffuso e sull'economia reale?
A queste domande praticamente non bada, e me ne spiace, il dibattito in corso nei convegni e sui giornali di questi tempi, dominato ancora e sempre dagli apprendisti stregoni della finanziarizzazione e della globalizzazione, fra l'altro sempre più restii, sembra, a compiere una verifica autocritica del verbo che ci hanno predicato nell'ultima dozzina di anni. Vale la pena, quindi, andare un po' in controtendenza e riflettere sulle prospettive italiane per i prossimi mesi: capire, cioè, se c'è motivazione collettiva a ri-sfidarsi; se ci sono poteri in grado di captare e alimentare tale motivazione; se ci sono mondi vitali capaci di trainare un'eventuale nuova fase di impegno di sviluppo. E' difficile, specialmente ad inizio d'anno, capire se nell'attuale società italiana vanno maturando meccanismi di sfida paragonabili a quella straordinaria reazione vitale con cui uscimmo dall'ultima nostra violenta crisi, quella dell'inverno '92-'93 (quando ci rimettemmo tutti "sotto sforzo").
Dovessimo dar retta alle sensazioni dei mesi scorsi dovremmo dire che questa è una società abbastanza demotivata, con serpeggiante sfiducia verso i meccanismi automatici del mercato, verso le politiche pubbliche, verso le strutture di rappresentanza collettiva, forse verso la stessa possibilità di farcela contando sul "far da sé". Scontiamo, in questa prospettiva, diversi fenomeni: la ripresa avviata negli ultimi mesi del '97 non ha poi innescato effetti moltiplicativi nei comportamenti individuali e collettivi (di rilancio imprenditoriale come di ripresa dei consumi); l'entrata nell'Euro ha fatto scattare un appagamento misto a estraneità, e non forti spiriti competitivi; gli stessi soggetti ancora con voglie competitive, cioè le piccole e medie imprese, scelgono sempre più spesso di investire e produrre all'estero, con l'immaginabile svuotamento di energie e di speranze delle proprie comunità locali; le famiglie vivono nella paura per un futuro da molti predetto come regressivo nella povertà, nella mancanza di lavoro per i figli, nella solitudine non assistita degli anziani; le pulsioni associative così ricche nel passato sembrano declinanti, con sempre maggiori difficoltà di mobilitazione collettiva (di sindacato, di movimento, di partito che sia); la lunga discontinuità politico-istituzionale degli anni '90 sta cominciando a creare stanchezza e indifferenza, fino al limite dell'astensionismo elettorale. Tutto, in sintesi, concorre a far circolare nelle fibre del Paese un atteggiamento di scarsa voglia e scarsa motivazione a ri-sfidarsi, quasi che non si creda più a quello straordinario sviluppo di popolo che ha fatto grande l'Italia democratica, dal dopoguerra ad oggi.
In questa situazione è naturalmente difficile che ci siano poteri, essenzialmente politici, capaci di stanare e alimentare una collettiva motivazione a rimettersi sotto sforzo. Anzi, il Paese sembra inclinato ad allontanarsi dallo sviluppo diffuso (e dalla diffusa articolazione delle responsabilità) e affidarsi a poteri di tipo oligarchico: l'internazionalizzazione economica (finanziarizzazione, import-export, investimenti all'estero) avviene sulle gambe di gruppi professionali e di potere molto ristretti; la crescente complessità dei molti problemi di azione pubblica (dall'integrazione europea allo sviluppo del Mezzogiorno) impone professionalità crescentemente complesse, che vanno a condensarsi in nuclei decisionali di provenienza tecnocratica; lo svuotamento delle responsabilità gerarchiche nei livelli medio-alti delle strutture pubbliche e industriali porta alla concentrazione in poche persone e circuiti delle funzioni dirigenti; la crisi delle strutture associative porta a una distillazione dei poteri negli esponenti di vertice, a scapito dei processi di partecipazione e di ricambio; le classi alte, e i loro circuiti di coesione più o meno espliciti, tendono a investire in processi di avanzamento (università private e straniere, passaggio in organismi internazionali, società di consulenza) molto esclusivi e di stampo volutamente elitario e congregazionale.
Se la società italiana è al tempo stesso demotivata e oligarchica (è del resto banale verità che i due fenomeni vivono in costante reciprocità di causa ed effetto) quali speranze di vitalità possono essere coltivate nel prossimo futuro e nell'immediato svolgersi delle difficoltà che ci aspettano nei prossimi mesi?
La risposta a tale domanda è articolabile, almeno nelle speranze personali, se non nelle previsioni professionali, su tre grandi ipotesi. La prima è che "ci salveranno le vecchie zie", cioè i tradizionali distretti industriali del Centro-Italia e del Nord-Est, dove si comincia a fare un mix fra i riferimenti strategici degli ultimi anni (espansione nei Paesi ex comunisti anche attraverso investimenti diretti nei settori di largo consumo) e l'attenzione per una strategia più elastica, magari di riesame del mercato americano (lo farebbero pensare alcune voci del profondo Nord-Est).
La seconda ipotesi è che la vitalità per le nuove sfide ci verrà da un Mezzogiorno, che vuole diventare ex povero, vista l'intensità crescente della propensione individuale a fare impresa e della propensione collettiva a fare sviluppo locale, (nei patti territoriali più ancora che nei contratti d'arca).
E la terza ipotesi è quella che il maggiore coinvolgimento nelle sfide dei prossimi mesi sarà gestito dalle sempre più numerose e vitali medie imprese, che rappresentano ormai uno scheletro abbastanza articolato del sistema italiano e che possono dar luogo a quel protagonismo neo-borghese che da tempo tutti riteniamo lo sbocco naturale dello sviluppo diffuso degli ultimi decenni.
Distretti tradizionali, nuovo protagonismo meridionale, medie imprese: queste le tre speranze di nuova e più complessa ondata di animal spirits di questo Paese. Certo, sarebbe bello che lo Stato dia loro una mano, almeno sui due grandi investimenti "orizzontali" oggi indispensabili (gli investimenti in istruzione e quelli nelle reti infrastrutturali); ma i vincoli sono in proposito tanti e forse non superabili nell'immediato futuro. Pure un annuncio politico e programmatico in tale direzione di impegno potrebbe utilmente "accompagnare" i mondi oggi potenzialmente vitali, e stabilire con loro un'alleanza di medio periodo. Altrimenti lo Stato e la politica rischiano un esito solo emotivo e di opposizione dei più regressivi animal spirits (il leghismo, le voglie di piazza, i rancori nord-estini, eccetera) e di riservare a se stessi l'alleanza ambigua con circuiti oligarchici sempre più aggressivi e sempre meno trasparenti. Mistura onestamente un po' troppo "russa", visti anche gli esiti che in patria essa sta producendo.


Tra balzelli ed evasioni

Alla fine del '99 avremo pagato le stesse tasse e gli stessi balzelli dell'anno precedente. Chi sperava che con l'arrivo della moneta unica anche il nostro fisco diventasse più europeo non può che prendere atto della delusione. La doccia fredda per gli euro-ottimisti era stata ampiamente confermata dal Governatore della Banca d'Italia: nel '99 la pressione tributaria sarebbe scesa soltanto marginalmente, restando quindi sopra la media dell'Unione europea. Nel '97 eravamo al 44,5%, contro uno standard del 43,2%. Certo, il fisco ha fatto progressi e le riforme sembrano avviate sulla strada giusta, ma l'insostenibile pesantezza delle tasse dovrà essere ridotta, per i cittadini e per le imprese.


Prendiamo il caso delle aziende. Per molte l'Irap ha portato vantaggi: complessivamente, il mondo produttivo ha risparmiato 5-6 mila miliardi. Ma se confrontiamo l'aliquota complessiva sul reddito delle società siamo fuori strada. In Italia le imprese pagano il 41,25%. Solo la Germania è più cara. In Francia si va dal 36,6% al 41,6%, in Belgio l'aliquota complessiva arriva al 40,17%, in Irlanda le società pagano dal 10% al 36%, nel Regno Unito il 31%, in Spagna il 35%, in Svezia il 28%. La media dell'Unione europea è del 36,2%, quasi cinque punti in meno.
Guardare soltanto alle aliquote, però, può portare ad impressioni sbagliate. Se il nostro, nonostante la semplificazione, resta il Paese delle cento tasse e dei mille balzelli, è anche il regno degli evasori. Spesso legittimati dalle miriadi di leggi, leggine, eccezioni, casi particolari, privilegi incomprensibili. Come spiegare, ad esempio, che una gran quota dei soggetti Irpeg continua a chiudere in rosso il bilancio fiscale, anche quando l'economia tira? Questo è un fenomeno molto meno marcato all'estero.
Il fisco italiano, insomma, deve adeguarsi all'Europa al più presto, anche perché con la moneta unica saranno le imprese a decidere come e dove farsi tassare. Non saranno più i singoli Paesi a stabilire come tassarle.


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