Ma in Italia c'è un rischio-euro




Mario Monti
Commissario della Ue



Il sistema finanziario italiano ha in comune con il sistema-Italia il fatto di essersi mosso tardi verso l'Europa, perché gli operatori finanziari italiani hanno acquisito soltanto nel settembre del '96 la certezza che il governo voleva essere fin dall'inizio nell'euro, e solo da qualche momento del '97 la consapevolezza che ci fossero buone possibilità che ci riuscisse. Soltanto in quel momento, quindi, si sono posti concretamente il problema del passaggio all'euro e delle aggregazioni su scala continentale. Gli olandesi, tanto per fare nomi, ci pensavano sicuramente da più tempo. Quindi, banca e finanza in Italia si sono comportate come il Paese. Anche se poi, con il tipico scattismo italiano, tutti si sono messi in marcia abbastanza rapidamente.
Un secondo aspetto è quello più specifico del sistema finanziario del nostro Paese. Fino agli anni Ottanta, il sistema bancario e finanziario avevano, sì, lo scopo di fare da ponte tra risparmio e investimenti, di allocare le risorse, ma avevano soprattutto la missione, conferita dai pubblici poteri e largamente assecondata dalla Banca centrale, di costituire il polmone finanziario del settore pubblico. Il tutto con una visione limitatrice della concorrenza, in particolare di quella internazionale.
Per cultura, per atteggiamento operativo, nonché per la fitta serie di nessi con il mondo politico, il nostro non era certo il sistema finanziario più orientato al mercato, meno che mai a un mercato competitivo e aperto. Da questo punto di vista, è notevole, anche se in termini relativi è poco, quello che si è verificato nel sistema italiano negli ultimi anni. Se poi si tiene conto di questi handicap iniziali e culturali, è abbastanza buono quello che ultimamente si è riusciti a cominciare a fare. Ma è ancora troppo poco per riuscire ad essere veri protagonisti sulla scena europea.
Allora, oggi chi corre più rischi? Tra i vari soggetti del Paese, quelli che vedo meno a rischio di tutti sono i consumatori, cui poco importa dove sono fabbricati i prodotti che acquistano, se in Italia o all'estero. Avendo tra l'altro vissuto in una struttura sociale e politica che in genere ha privilegiato gli interessi dei lavoratori e degli imprenditori rispetto a quelli dei consumatori, la maggiore apertura del Mercato unico non può che procurar loro dei vantaggi.
All'estremo opposto della scala c'è, (ed è la cosa più a rischio), l'italianità del controllo delle imprese e delle istituzioni finanziarie. Chiarisco: c'è chi ritiene che si stia preparando una sorta di "calata degli Unni" sul ricco mercato italiano. Io mi limito ad osservare che alcuni gruppi finanziari sono da più tempo e con maggior determinazione più aggressivi nei confronti del Mercato unico europeo. Prendiamo, tra gli altri, il caso del Belgio: in questi ultimi tempi ha visto prevalere gruppi francesi e olandesi in venerande istituzioni finanziarie del Paese. Se questo sia o no un male, dipende da gusti e preferenze. Certamente, questo rientra nella logica del Mercato unico. La sua corretta gestione non tollera, infatti, che vengano frapposti ostacoli al libero gioco del mercato nel controllo delle imprese, se non quelli restrittivamente specificati nel Trattato e, in particolare, nella comunicazione che riguarda la golden share. Allora, quale sarebbe il problema? Fermo restando che non si possono usare certi strumenti per impedire il passaggio di controllo, in Italia e altrove si possono avere idee diverse in proposito: se cioè sia un bene o un male che pezzi del mondo produttivo passino in mani straniere. Per quel che mi riguarda, mi sembra che la cosa più importante di tutte sia quello che sta tra il consumatore e la bandiera che sventola sopra l'impresa o la banca, cioè la competitività dell'Italia come luogo di produzione, più ancora della competizione del Made in Italy. Perché questo è l'aspetto essenziale per l'occupazione. Meglio, in altri termini, avere un Paese altamente competitivo come luogo di produzione e dove la produzione sia esercitata da imprese con la testa altrove, (come accade, per esempio, in Gran Bretagna e in Irlanda), che riuscire ad avere una scarsa penetrazione dei controllo estero ma essere poco competitivi in quanto luogo di produzione. Questa è un'alternativa che si crea o si subisce. Dipende in misura decisiva dai fattori di competitività strutturale dei vari sistemi-Paese. Cioè, in concreto, dallo sviluppo delle infrastrutture, dalla formazione, da una burocrazia rapida e snella nei rapporti tra imprese e amministrazione pubblica, non meno che dalla fiscalità, che è un fattore che gioca positivamente o negativamente sulla localizzazione delle imprese.
E' indifferente, dicevo, la bandiera che sta sull'impresa. Ma resta vero un fatto, e cioè che le attività ad alto valore aggiunto, quelle di ricerca e di direzione, insomma le attività ricche nella gerarchia delle funzioni d'impresa, tendono a stare vicino al cuore dell'impresa. Allora un'Italia anche competitiva come luogo di produzione ma con tutti i cuori lontani può correre qualche rischio. Anche se, ovviamente, va in ogni caso affrontato e combattuto con mezzi diversi da quelli protezionistici.
L'euro ha portato in Europa la cultura della stabilità, che sarà difficilmente reversibile, visto che è cementata dal Trattato e dal Patto di stabilità. Ora il vero lavoro da fare riguarda le strutture economiche. L'Europa non deve necessariamente darsi la cultura della convergenza strutturale. Di sicuro deve però darsi la cultura della flessibilità per migliorare le proprie strutture. Le riforme hanno un innegabile costo politico nel breve periodo e vantaggi nel lungo termine.
L'Europa può comunque far pressioni, anche se non coercitive, sui governi per spingerli a vararle. E può farlo in due modi. Il primo: attraverso il mercato, cioè la pressione competitiva scatenata dal Mercato unico e poi dall'euro, che finirà per costringere tutti a migliorare l'efficienza dei mercati nazionali e ad ammodernare le rispettive infrastrutture. Il secondo: con la pressione politica che deriverà dal sistema di monitoraggio dei piani nazionali per occupazione e riforme strutturali, con tanto di punteggi e di meccanismi comparativi. In un Paese come l'Italia, dove le autorità superiori non godono di grande credibilità, un attestato europeo di biasimo potrebbe dare una spallata a molte resistenze politiche interne.


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