E' IL MOMENTO DI BANCHE E IMPRESE




Federico Tanza



Diceva Winston Churchill: "I trattati di pace sono strumenti che risolvono i problemi del passato e creano i problemi del futuro". Non vorremmo che finisse così anche per il patto sociale sullo sviluppo e l'occupazione. Di più, almeno con i tempi che corrono, non si poteva fare, dati i vincoli europei di finanza pubblica e le rigidità, tutte italiane, del mercato del lavoro e di quello dei capitali, per allentare le quali occorreranno molto tempo e altrettanta pazienza. Ma se d'ora in poi gli imprenditori non cominceranno seriamente ad investire, di più e meglio di quanto dicono di fare oggi, la prospettiva di uno sviluppo economico durevole e capace di generare occupazione andrà forse definitivamente perduta. E allora il patto sociale diverrà soltanto un pretesto per nuove rivendicazioni e per nuove conflittualità.
Che cosa pretendono ancora gli imprenditori italiani? Il costo del lavoro, tra i più alti d'Europa, comincia a scendere, e non di poco. La pressione fiscale su famiglie e imprese, che negli ultimi anni era aumentata più della ricchezza nazionale, sembra tendere verso il basso. Il costo del denaro è in media col resto d'Europa. E' vero: manca ancora una decisa spinta a liberalizzare l'economia, il che favorirebbe la concorrenza e farebbe quindi nascere nuova imprenditorialità; ma, tirate le somme, l'accordo risponde ai quesiti e alle lamentele denunciate da Confindustria, specialmente verso la fine dell'anno scorso. Che altro? Allo Stato non si poteva chiedere di fare molto meglio nei tempi cortissimi che la crisi italiana continua ad imporre: non è infatti dalla parte pubblica che possono venire sviluppo e occupazione, con un bilancio che assorbe tuttora il 50 per cento del reddito degli italiani e con una spesa statale che lascia appena il 4 per cento agli investimenti, dovendo per il restante 96 per cento coprire stipendi, prestazioni sociali e costi amministrativi. Si tratta di condizioni strutturali di inefficienza che non possono essere cancellate nel breve spazio di un mattino. E' perciò sul versante privato che va ritrovata immediatamente la voglia di crescere.
Fanno male gli imprenditori a restringere la discussione sui dati congiunturali dell'economia, come se mezzo punto di crescita in più o in meno possa cambiare il quadro nel quale ci troviamo. E sbagliano a dire pilatescamente "noi facciamo la nostra parte", soltanto perché gli investimenti salgono comunque un poco più dei consumi. La crisi viene da lontano. E' da lungo tempo che l'Italia intera ha smesso di crescere: siamo passati da ritmi di sviluppo del 7 per cento l'anno nel decennio 1950-60 al 5 per cento degli anni Settanta, al 3 per cento degli anni Ottanta e all'1,5 per cento nell'ultimo periodo. Nel 1998 abbiamo avuto meno occupati di quanti se ne contavano nel 1980. Dal giorno della firma del Trattato di Maastricht ad oggi, in epoca Euro, l'Italia ha perso un milione di posti di lavoro. E sempre nel 1998 la quota di reddito risparmiato dalle famiglie è più bassa del 50 per cento rispetto a dieci anni prima. La verità è che la voglia di crescere l'hanno persa un po' tutti: è dal 1992 che il numero dei morti supera quello dei nati. Il nostro capitale umano invecchia e si riduce quanto il capitale fisico che spesa pubblica e investimenti privati non riescono per nulla a ricostruire.
In questo quadro di generale apatia, i nostri imprenditori non sono eroi, come lo sono invece gli imprenditori che vivono in altre società più dinamiche e aperte al rischio. Il loro sguardo pare più spesso rivolto al passato che al futuro. La loro immagine e il loro prestigio sociale sono in netto peggioramento da tempo. Tutto ciò contribuisce alla perdita di slanci vitali collettivi di cui attualmente l'Italia avrebbe un drammatico bisogno. Non sono eroi, in realtà, nemmeno i grandi banchieri che a quegli imprenditori dovrebbero ridare coraggio. Basti pensare che le imprese italiane meno esposte alla concorrenza prendono denaro a prestito pagando tassi sensibilmente inferiori a quelli imposti alle aziende che operano in settori liberalizzati o internazionalizzati.
Il rischio è soltanto un costo, non anche un'opportunità. Gli imprenditori italiani ricavano dai capitali che hanno messo nelle loro aziende all'incirca il 6 per cento, una percentuale già modesta, e per di più pagano alle grandi banche, in oneri finanziari, più di quanto renda loro investire in nuovi impianti o in nuovi macchinari. Il tasso reale di sviluppo italiano resta nettamente più basso degli interessi reali sul denaro. Investire in Italia significa distruggere valore.
Per anni abbiamo detto che la nostra forza stava nella piccola e media impresa. Grazie a queste aziende, l'Italia ha oggi più imprenditori di qualsiasi altro Paese europeo. Ma basta andare nelle ricche zone del Centro-Nord per avvertire anche in questa imprenditoria diffusa e minuta evidenti segnali di ripiegamento. C'è un clima di disincanto che preannuncia ritirate campali. Il "modello emiliano" è in evidentissima difficoltà. Le nicchie nelle quali primeggiavano quelle aziende sono attaccate giorno dopo giorno da nuovi concorrenti globali.
E che dire del mitico Nord-Est? Laggiù sette imprenditori ogni dieci dovranno affrontare il passaggio generazionale tra padri fondatori e i figli ereditieri, che però hanno nel frattempo scelto altre strade, altri interessi, altri Paesi di residenza. Sarebbe il momento perché i maggiori imprenditori italiani dessero una mano ai minori. In America oltre il 30 per cento del capitale di rischio investito in nuove aziende viene dalla grande impresa che crede nei nuovi talenti, che punta sulle idee di chi avvia nuove iniziative, che intende allargare il mercato al di fuori dei propri confini naturali. Il 60 per cento dei quindici milioni di posti di lavoro creati dal 1993 ad oggi negli Stati Uniti è così venuto da società con meno di cinquecento dipendenti.
Basta essere chiari e onesti. Se il patto sociale sancito in Italia non riuscirà a mettere in moto sviluppo e occupazione, non si venga a dire che la colpa stava nella cattiva prosa del suo articolato. Altrimenti bisogna dare ragione a Winston Churchill.


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