Rischio di credito ed Unione europea




Giorgio Primiceri



Uno degli effetti principali che la corsa all'Unione Europea ha provocato è stata la convergenza dei tassi di interesse dei Paesi membri verso dei valori comuni e simili per tutti. In questo senso i tassi tedeschi hanno costituito l'obiettivo dei policy makers internazionali, determinando un avvicinamento progressivo della struttura a termine dei Paesi membri a quella tedesca. Per avvicinamento si intende la quasi coincidenza per quel che riguarda i tassi a breve (è la politica monetaria a fissare i tassi a breve ed essa sarà comune a tutti i Paesi dell'Unione), mentre alcune differenze permangono e permarranno (anche con la moneta unica) per quel che riguarda i tassi a lunga.
In generale, il differenziale dei tassi di interesse tra due Paesi è determinato da tre fattori principali: aspettative di svalutazione/rivalutazione del tasso di cambio, differenti tassazioni dei redditi da capitale, il cosiddetto rischio di credito (o rischio di default o anche rischio Paese) che cattura la paura del mercato che, prima o poi, vada male qualcosa nella gestione del debito pubblico da parte delle autorità governative (ad esempio, ritardi nel pagamento degli interessi o addirittura consolidamento del debito a breve, ecc.). Con l'introduzione dell'Euro scompaiono i primi due fattori e il rischio di credito rimane come unica determinante del differenziale dei tassi di interesse. In pratica, con la moneta unica e un'armonizzazione nella tassazione dei redditi da capitale la lieve differenza tra un tasso a lunga italiano e uno tedesco sarà interpretabile esclusivamente come la presenza in Italia di un rischio Paese (lievemente) più elevato di quello tedesco.
Se quindi è (o sarà) facile misurare il rischio di credito di un Paese dall'introduzione della moneta unica in poi, l'operazione è sicuramente più difficile per gli anni precedenti. Ne vale comunque la pena, per una serie di motivi che saranno più chiari in seguito. Seguendo una procedura adottata da Giavazzi-Favero-Spaventa per primi nel 1996 si descompone il differenziale dei tassi di interesse italiano e tedesco per isolare il rischio di credito italiano dal 1992 in poi. Si schematizza quanto già detto attraverso la seguente espressione (priva di rigore matematico, ma densa di potere esplicativo!):


Se si trovano una misura delle aspettative sulla fluttuazione del cambio Lira/Marco e una misura della ritenuta fiscale italiana (assente in tutti gli altri Paesi), le si possono sottrarre dal differenziale dei tassi di interesse italiani e tedeschi per ottenere una misura del rischio Paese italiano (relativamente a quello tedesco).
Un ottimo candidato a misurare il "fattore rischio di cambio" è rappresentato dal differenziale tra i tassi fissi dei contratti swap di uguale durata denominati in lire e marchi (1). Un discorso leggermente più complesso va fatto per cercare di evidenziare l'effetto della ritenuta d'acconto del 12,5% in vigore in Italia per gli acquirenti di titoli di debito italiano. La ritenuta, fino al 1996, veniva applicata sia sui residenti che sui non residenti (dal 1997 non esiste più la ritenuta sui non residenti), con la differenza che per i non residenti veniva rimborsata, anche se con tempi e modi spesso lunghi e contorti. Morgan Stanley Int. ci fornisce una misura dell'incidenza (sul differenziale dei tassi di interesse italiano e tedesco) di questa componente fiscale italiana, tenendo conto anche di come e quanto la procedura di rimborso per i non residenti venisse ritenuta affidabile dal mercato (2).
Adesso c'è tutto quello che serve. Se si sottraggono dal differenziale dei tassi di interesse italiano e tedesco (tassi a dieci anni per le ragioni evidenziate all'inizio) le misure del rischio di cambio e la componente fiscale italiana, si riesce finalmente ad ottenere una misura del rischio di credito italiano. Tale misura, in pratica, indica che affidabilità il mercato attribuisce al nostro Paese. Come già detto, tale procedura è ingiustificata in un'epoca di tassi di cambio fissi e tassazione dei redditi da capitale omogenea, ma è giustificata se si vuole analizzare nel tempo il rischio di credito di un Paese, come si evolve, come si è evoluto, quali sono le variabili che lo influenzano, ecc.


Nella figura 1 possiamo vedere l'andamento del rischio di default italiano dal 1992 in poi, quasi sempre maggiore di zero con i suoi picchi durante le crisi valutarie (settembre 1992 e marzo 1995) e nei primi mesi del 1993, segni della presenza di problemi e difficoltà nella conduzione della politica economica. Da notare che, in quei periodi, più di un punto percentuale del differenziale dei tassi di interesse tra Italia e Germania poteva essere spiegato dal rischio di credito in Italia. La tendenza al ribasso degli ultimi anni è indicativa di politiche monetarie e fiscali virtuose, principalmente volte al conseguimento degli attributi economici necessari per consentire l'entrata in Europa. Può inoltre essere interessante confrontare l'andamento del rischio di default con l'avvicendarsi dei vari governi.
Si fornisce un breve schema delle vicende politiche italiane che si ritiene possano avere influito sull'andamento del grafico del rischio paese italiano: ogni commento è lasciato al lettore!


Un'ultima considerazione nasce dal confronto dei rischi di credito di due Paesi dalle vicende economiche abbastanza simili, vale a dire Italia e Spagna. Nella figura 2 sottostante si può notare un andamento tutto sommato simile delle due variabili, soprattutto negli ultimi anni. E questa considerazione è valida anche per altri Paesi come il Regno Unito (tranne che per il periodo dopo l'annuncio della non partecipazione all'Euro), il Belgio e la Francia. Inoltre, lo studio degli autori prima menzionati evidenzia come questo trend comune sia dovuto per la maggior parte a fattori di carattere internazionale e non interno. Se, da un lato, questo è indice di una sostanziale omogeneità dei Paesi dell'Unione, dall'altro sembra piuttosto preoccupante, perché indicativo di un legame stretto tra il rischio di default di questi Paesi. Supponiamo infatti che un Paese dell'Unione sia "colpito" da problemi fiscali più gravi del solito e che questo causi una crisi di fiducia, provocando difficoltà nel collocare i titoli del debito pubblico. Se è vero che i rischi di credito di questi Paesi sono correlati, la crisi di fiducia si trasmetterà (in che misura?) anche agli altri Paesi, costringendo la Banca Centrale Europea ad acquistare i titoli pubblici di un Paese o di un altro per evitare una crisi di tutto il sistema. Si tratta chiaramente di una possibilità principalmente teorica (basti guardare alla consistente diminuzione dei rischi Paese degli ultimi anni), ma non per questo da escludere.


NOTE
1) E' utile notare che si usano i tassi swap perché teoricamente indipendenti dal rischio di credito di un Paese, essendo lo swap un contratto che prevede lo scambio di un flusso di interessi fissi con uno variabile e che pertanto permette di mettersi al riparo da eventuali problemi nel pagamento di uno dei due flussi.
2) In quel periodo molte banche internazionali emettevano dei contratti di factoring che garantivano la restituzione della ritenuta d'acconto applicata in Italia a un prezzo determinato come percentuale della tassa.


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