Una "questione" drammatica




Egidio Sterpa



Guido Dorso, nella sua Rivoluzione meridionale, affermò un concetto valido ancora oggi: per affrontare i problemi del Sud d'Italia, disse, occorrono "cento uomini di ferro". Un obiettivo già difficile ai suoi tempi, che erano quelli dell'Italia che aveva fatto esclamare a Giovanni Amendola "Quest'Italia non ci piace"; ancora più difficile oggi in un'Italia malata di crisi di valori, disorientamento culturale, incertezza politica, con un'economia non certo prospera. E però la "questione meridionale" rimane il grande problema da risolvere, una questione che rischia di farci entrare nel Duemila, dopo il miracoloso boom degli anni Sessanta con un rango di second'ordine.
Appare incredibile, eppure è così: dopo quasi cinquant'anni di politica meridionalistica, costata parecchie migliaia di miliardi, la questione meridionale è ancora il nostro cruccio nazionale. Allo scopo di aggiornare la mia conoscenza del problema (venti-trent'anni fa ho girato in lungo e in largo il Sud come inviato di importanti giornali, tra cui il Corriere della Sera, e alla questione ho dedicato centinaia di articoli e qualche libro: Battibecco tra le due Italie, La rabbia del Sud, Anatomia della questione meridionale), due anni fa sono tornato a rivisitare il Mezzogiorno, con tappe in Campania, Puglia, Lucania, Calabria e Sicilia: un lungo viaggio e una rivisitazione purtroppo deludente. L'impressione, tutt'altro che superficiale, che ne ho riportato è che il Sud, a parte talune zone assai ristrette, nel suo complesso non è ancora entrato in posizione di decollo. Una certa pubblicistica parla di Sud "a macchia di leopardo", il che è pure vero, ma le "macchie" non sono tali da determinare un contagio decisivo per vincere la depressione. Questa è la verità.
La questione meridionale non è di quelle su cui si possa fare retorica, né è lecito trattarla con demagogia. Va guardata per quella che è, sulla base delle statistiche accertate e soprattutto dell'osservazione obiettiva dei fatti.
Cominciamo con qualche dato statistico. Nel 1950, subito dopo la fine della guerra, il reddito pro-capite nel Mezzogiorno era pari al 54 per cento di quello del Centro-Nord; nel 1995, quarantacinque anni dopo, risulta pari al 56 per cento. Non è un dato davvero consolante. Sì, il Sud ha camminato - se fosse rimasto fermo chissà in quale sprofondo statistico e sociale sarebbe oggi- ma il Nord ha corso evidentemente con gli stivali delle sette leghe. Insomma, rovesciando l'antico sofisma di Zenone di Elea, la tartaruga è rimasta assai indietro rispetto ad Achille piè veloce. Il che vuol dire, in termini economici, che il divario Nord-Sud è stato appena scalfito. Ed è questo il dato preoccupante nel riflettere sul futuro del Mezzogiorno, dove è certamente arrivata una certa cultura, diciamo così, modernista, quanto meno in termini di comportamenti sociali e morali, ma è anchilosato il sistema economico.
Ci sono dati sulla disoccupazione, soprattutto in zone della Campania, Calabria e Sicilia, da far tremare i polsi a chi governa: oltre il 50 per cento dei giovani sono senza lavoro, non pochi sono diplomati o laureati. Quale futuro li aspetta? Persino la prospettiva di trovare lavoro al Nord, come accadde ai loro nonni o padri negli anni '50-'60, è oggi assai problematica, per non dire inesistente o quasi, stanti le difficoltà in cui versano le imprese e soprattutto considerando il dato inoppugnabile che sempre più le tecnologie tenderanno ad espellere anzichè assorbire lavoro.
L'aspetto più drammatico dell'attuale situazione meridionale sta qui. E comunque la si guardi non c'è verso d'essere ottimisti. Certo, dal punto di vista del lavoro l'ottimismo è impraticabile persino al Nord, e non solo in Italia (anche i dati sulla disoccupazione in Europa sono inquietanti), ma c'è una bella differenza tra dati statistici ad una cifra o poco più e quelli a più decine del Sud.
Poniamoci ora una domanda: perché il Mezzogiorno non è riuscito a mettersi in posizione di decollo negli anni dell'intervento straordinario? La prima e fondamentale considerazione è che sin dall'inizio dell'intervento straordinario mancò una strategia e quindi una visione razionale di questo grande problema nazionale. Esso era, è vero, conosciuto attraverso le testimonianze dei tanti ricercatori, studiosi, politici, passati alla storia come "meridionalisti", ma si commise l'errore di affrontarlo in termini quasi esclusivamente sociali, come fosse una mera questione di povertà da lenire, ridimensionare. Ci furono così interventi frettolosi e irrazionali, i cosiddetti interventi a pioggia, che fecero cadere provvidenze ovunque senza programmi precisi e sistematici, mentre il problema vero era di attuare una strategia che desse vita ad un sistema economico, che è appunto ciò di cui nel Mezzogiorno si avverte acutamente la mancanza.
Certamente i primi vent'anni di Cassa del Mezzogiorno determinarono non pochi effetti positivi: si costruirono strade, fogne, acquedotti, edifici pubblici, scuole, si aiutò la riconversione dell'agricoltura in talune zone, si progettarono dighe, si portò la luce o il telefono dove non c'erano. Anche la riforma agraria contribuì a spezzare il sottosviluppo e a dare una spinta alla crescita sociale.
Un certo riassetto territoriale ci fu, come negarlo? Ma a monte di tutto mancò una regia avveduta, una visione moderna della politica di sviluppo. I nostri meridionalisti, in verità, erano mossi più da una cultura sociologica che da razionalità politico-economica; oltre tutto erano per lo più meridionali di nascita e cultura e quindi mossi generosamente dall'impulso di aiutare comunque il Sud. Pochi avevano letto o comunque meditato la lezione di Max Weber sui fenomeni di sviluppo del capitalismo e dell'industrialismo. Non vennero neppure tenute in gran conto opinioni come quelle del nostro Einaudi, il quale, com'è noto, invitò alla prudenza e alla pazienza: parlò infatti di "tempi lunghi", mentre ci si illuse che esistessero scorciatoie per una rivoluzione industriale del Sud.
Quando ci si accorse che gli interventi a pioggia non servivano allo scopo, si provvide a qualche correzione e infatti si puntò a creare i cosiddetti "poli di sviluppo", concentrando investimenti in determinate zone che parvero più idonee a determinare progresso economico. Sorsero così l'Alfa Sud in Campania, il Siderurgico a Taranto, si pensò addirittura ad un quinto centro siderurgico in Calabria, svaporato tra molti sprechi, centri petrolchimici a Siracusa, Ragusa, Gela, Brindisi. Ma quasi tutti questi interventi non furono felici, perché rappresentarono nella sostanza non una innovazione, ch'era quello di cui c'era bisogno, ma l'innesto di imprese già vecchie e senza lunga prospettiva, come del resto la stessa Comunità europea fece inutilmente rilevare. Oggi, rivisitando quei famosi poli di sviluppo, questa dura realtà è tangibile.
Nel frattempo è accaduto di peggio: la politica meridionalistica è stata strumentalizzata a fini tutt'altro che edificanti. La generosità iniziale che muoveva i più genuini e onesti meridionalisti si è trasformata, ad opera dei partiti, in clientelismo: le strade, gli acquedotti, le opere pubbliche in genere, ogni provvidenza o intervento, diventavano strumento per raccogliere consensi e voti.
Nel riscrivere la storia della questione meridionale non si può ignorare tutto ciò. La questione, in sostanza, va rimeditata e reimpostata tutta daccapo. C'è bisogno di riconvertire il sistema economico. D'altra parte non c'è altra strada ora che l'intervento straordinario è finito ed è impensabile che possa essere resuscitato. Si può ipotizzare semmai un intervento di tutt'altro genere, dove si incontrino e si saldino razionalmente e proficuamente l'interesse dello Stato con quello dell'iniziativa privata a metter mano ad una questione che senza dubbio condiziona l'Italia tutta sulla via del suo sviluppo nell'ambito europeo, ma pensare ad un nuovo fiume di denaro proveniente dalle casse dello Stato stremate è fuori della realtà.
Diciamo un'altra verità, con molto realismo: la spinta e l'onere maggiore per il rilancio della questione meridionale spettano soprattutto alle forze endogene del Mezzogiorno, come insisteva già molti anni fa Francesco Compagna. E' alla classe dirigente meridionale che si deve chiedere di trovare il coraggio e la capacità di diventare protagonista fortemente attiva del rilancio dell'economia del Mezzogiorno. Ma ci sono quei "cento uomini di ferro" di cui parlava Dorso? Ci sono almeno dei nuovi Saraceno, Rossi, Doria, Compagna, Fiore, intellettuali capaci di stimolare quel dinamismo, quella voglia di fare e di intraprendere che sono richiesti?
Bisogna abbandonare le strategie corte, ricominciare ad esaminare a fondo i problemi meridionali zona per zona; analizzare il territorio, individuare le potenzialità locali, preparare progetti, verificarli; inquadrarli dentro una strategia nazionale e persino europea e mondiale. Questo significa anche riverificare le strutture già esistenti e in gran parte obsolete o deteriorate (vedi, per esempio, le strade della Calabria, compresa la pessima, tortuosa, pericolosissima autostrada Salerno-Reggio), costruire reti telematiche, metanizzazioni, centrali elettriche, e via dicendo. Vuol dire, ancora, verificare lo stato dell'istruzione, potenziare la formazione professionale, rendere efficiente e funzionale alla creazione del capitale umano il sistema universitario (oggi, statistiche alla mano, negli atenei meridionali c'è ancora troppo umanesimo e troppo giure e poca cultura scientifica e tecnologica). Vuol dire, infine, modernizzare e rendere utili e non produttrici di lentocrazia le istituzioni e la pubblica amministrazione a tutti i livelli, fare in modo che ci sia meno Stato burocratico e invece più Stato che garantisca certezza del diritto, capace di attaccare e sconfiggere la criminalità, perfezionare l'ammodernamento dell'agricoltura, rendere accogliente e seducente il sistema turistico, valorizzare il patrimonio artistico, fare in modo che i servizi funzionino e non siano soltanto luoghi di sussistenza per disoccupati; mettere a profitto la tradizionale predisposizione dei meridionali al risparmio per realizzare "merchant bank"; inventare zone franche, come in Francia, per attirare investimenti; creare le condizioni per una mobilità del lavoro e del salario.
Potremmo continuare, ma qui facciamo punto, non senza ribadire doverosamente, e convintamente, che questi problemi non sono solo problemi meridionali ma problemi nazionali, che riguardano tutti. Non c'è futuro affidabile per tutto il Paese senza averli risolti. Certe elucubrazioni separatiste non riescono a scalfire questa realtà.


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