Decolla "Sviluppo Italia"




S.L.



"Sviluppo Italia" non è più una chimera. Dopo tante polemiche e altrettanti contrasti, è venuto il via libera alla direttiva del Cipe che ha istituito l'Agenzia per il Mezzogiorno, denominata non "Agensud", come si era ipotizzato in un primo tempo, ma appunto "Sviluppo Italia": una holding sostanzialmente leggera, con capitale sociale di 35 miliardi e con soli 700 dipendenti, che entro la fine del prossimo giugno accorperà otto società operanti nel settore, ma finora in modo scoordinato. Si tratta dei Gruppi Itainvest, Ribs, Insud, Ig, Finagra, Ipi, oltre che del trasferimento della Spi e dell'acquisizione dell'Enisud.
Quali i compiti? Sono stati precisati: "Sviluppo Italia dovrà, nel rispetto delle norme nazionali e comunitarie di tutela della concorrenza, stimolare gli investimenti di imprese nazionali ed estere, e valutare i programmi di iniziativa da finanziare con fondi pubblici; costituirà, inoltre, due società operative rispettivamente per i "servizi allo sviluppo" e i "servizi finanziari", e potrà stipulare convenzioni con amministrazioni ed enti pubblici". Dunque, non gestirà direttamente le risorse economiche; cioè, sarà qualcosa di molto diverso e di assolutamente nuovo rispetto alla famosa Cassa per il Mezzogiorno, che per oltre 35 anni ha profuso somme ingentissime, ma con risultati quanto mai deludenti.
D'altra parte, per l'autorevolezza e l'ingegnosità della "squadra" anch'essa molto ristretta, la nuova agenzia dovrà avere un ruolo determinante in ogni intervento finalizzato allo sviluppo dell'economia e dell'occupazione. Alla carica di presidente è stato chiamato Patrizio Bianchi, collaboratore storico di Romano Prodi, titolare della cattedra di Economia e Finanza delle Comunità Europee presso l'università di Bologna, consigliere d'amministrazione dell'Iri, vicepresidente del comitato scientifico di Nomisma.
Al suo fianco, quattro esperti di assoluto rilievo: Carlo Callieri, vicepresidente di Confindustria, al quale era stata proposta anche la nomina a presidente di "Sviluppo Italia"; Paolo Savona, ordinario di Politica Economica all'università di Roma, già ministro dell'Industria e direttore generale e amministratore delegato della Bnl, segretario generale per la programmazione economica del Bilancio, presidente del Credito industriale sardo; Carlo Borromeo, docente di Organizzazione Aziendale alla Luiss, e uno dei massimi esperti in politica attiva per il lavoro; Mariano D'Antonio, docente a Roma di Economia dello Sviluppo, e nell'ateneo napoletano di Istituzioni di Economia.
La scommessa è notevole, e lo staff se ne rende conto. Si tratta di affrontare con un durissimo lavoro e senza perdere tempo i grandi nodi del Sud in modo nuovo.
E' straordinario il cambiamento che ha avuto luogo in un anno in Europa fra gli economisti e i responsabili della politica economica. Un anno fa l'idea di un coordinamento delle politiche economiche dei Paesi dell'euro era sostenuta soltanto dall'Italia; oggi è largamente condivisa, anche se, per ora, sul piano dei princìpi. Un anno fa le tesi di Keynes sul ruolo fondamentale che nella crescita possono avere le spese pubbliche per investimenti, anche in deficit, erano in gran parte un tabù. In tempi brevi, anche per effetto dei mutamenti politici, la scena è radicalmente mutata. Proprio un anno fa Franco Modigliani ha promosso quel "Manifesto contro la disoccupazione nell'Unione europea", al quale hanno collaborato Fitoussi, Moro, Snower, Solow, Steinherr e Sylos Labini, e le cui linee fondamentali hanno avuto l'adesione di altri trentadue economisti di diversi Paesi europei.
La strategia suggerita propone uno stretto coordinamento delle politiche europee, (la crescita di ciascun Paese contribuisce, specialmente attraverso gli scambi, alla crescita di tutti gli altri), richiede il pieno appoggio della Banca centrale europea, e deve svilupparsi secondo quattro grandi linee: rilancio degli investimenti, accrescimento della flessibilità nel mercato del lavoro, incentivi creditizi e sgravi fiscali, e trasformazioni di sussidii, ogni volta che è possibile, in incentivi alla produzione.
Sebbene le misure raccomandate siano fra loro complementari, la preminenza va assegnata agli investimenti. Bisogna tuttavia abbandonare l'abitudine di considerare separati o addirittura contrapposti gli investimenti privati e quelli pubblici, giacché i secondi condizionano i primi, certe volte in modo anche rigido. Se sono produttivi in tempi non lunghi, è fisiologico che gli investi-menti pubblici siano finanziati in deficit, per mezzo del credito, come accade per gli investimenti privati. Tuttavia, tenuto conto del patto di stabilità e delle tribolazioni sopportate per ridurre il nostro deficit, comunque originato, oggi è preferibile non ricorrere alle spese in deficit; del resto, ciò non appare indispensabile, poiché già sono disponibili stanziamenti e poiché possiamo attingere ai cospicui Fondi strutturali europei, oggi da noi solo in parte utilizzati. Così concepite, le spese pubbliche per investimenti possono far cadere l'ostilità anche di economisti che non hanno mai avuto simpatia per Keynes: non si deve ricorrere a deficit e gli investimenti di cui si discute debbono essere produttivi in senso proprio e visibile, là dove Keynes era pericolosamente possibilista sul contenuto delle spese di bilancio.
Una soluzione di questo tipo rappresenterebbe un deciso passo avanti sulla via tracciata anche dalle misure incluse nel patto del lavoro, che fra l'altro prevedono lo sblocco di investimenti per 900 miliardi per potenziare la rete di ricerca nel Mezzogiorno. Una delle ragioni dei terribili ritardi nell'attuazione delle opere pubbliche, e, al tempo stesso, uno dei motivi degli aggravi di costo, sono costituiti dai ritardi nei pagamenti alle imprese. Le lungaggini burocratiche fanno il resto. La corruzione e le infiltrazioni mafiose hanno fatto già storia a sé. Sommati insieme, tutti questi elementi hanno ritardato lo sviluppo del Sud, condizionando anche in modo determinante lo sviluppo dell'intero Paese. Sembra, ora, che sia in vista un'inversione di tendenza.
Si è detto che il contributo del nostro Paese alla nuova politica europea consiste nel metodo della concertazione fra le parti sociali. Da noi la prima applicazione di grande rilievo si ebbe con l'accordo fra governo e sindacati del luglio 1993, che sul momento costò una tremenda lacerazione nel sindacato, ma che ha creato le condizioni sia per il graduale abbattimento dell'inflazione, che allora superava il 5 per cento, sia per la politica che ci ha portati all'Euro, sia, attualmente, per quella che può diventare la politica comune volta a battere progressivamente la disoccupazione in diverse regioni europee, prime fra tutte quelle italiane meridionali.
Il nostro governo si rende ben conto che sulla questione della disoccupazione e del Mezzogiorno, più che su qualsiasi altro problema interno, si gioca la propria credibilità. Non può allora non varare misure particolari, a cominciare da quella volta a rendere immediate e immediatamente operative le procedure per un numero di opere pubbliche nel Sud.
E' possibile, come sappiamo, che il metodo della concertazione sia imitato in Europa. Non è fuori luogo ricordare che Adam Smith, che pure non si faceva illusioni sulla natura umana, sosteneva che "la capacità di dirigere gli uomini e la persuasione sono sempre gli strumenti di governo più efficaci e più sicuri, come la forza e la violenza sono i peggiori e i più pericolosi". Forse è paradossale che proprio dalla patria di Machiavelli venga un messaggio opposto a quello ricavabile dall'opera del segretario fiorentino.


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