Il corsivo




Aldo Bello



E' sicuramente prematuro prevedere quale sarà il futuro delle nazioni asiatiche, che un po' per ammirazione e un po' (di più) per paura siamo stati indotti a definire "Tigri". Con ogni probabilità, esse non saranno rase al suolo, né abbattute in modo durevole dai tifoni finanziari che le sconvolgono da tempo. Con altrettanta probabilità il crollo dei titoli di Borsa e la fuga dei capitali e degli investimenti stranieri dagli otto Paesi del Far East li renderanno più fragili, ma non azzereranno il loro sviluppo, la loro inalterata fame di crescita, di ascesa e di riconoscimento. Le autentiche decadenze colpiscono le nazioni ricche, estenuate e sazie, non affliggono i popoli indigenti, i quali emergono con veemenza da esperienze secolari di inferiorità.
Dunque, oggi le Tigri sono ferite, forse hanno perduto la folie de grandeur, la megalomania, la sicumera che le hanno animate per anni e che chiariscono alcuni loro difetti: la crescita delle spese troppe volte eccessiva, la scarsa o inesistente o strumentale vigilanza, l'incapacità di prevenire le crisi, la non predittività nel prepararsi alle loro drammatiche conseguenze. Forse quei Paesi hanno subìto quella che Freud ha chiamato "ferita narcisistica": offesa fatale, ma anche civilizzatrice, riservata a chiunque si immagini invulnerabile, e persino immortale. Forse ha ragione Ho Kwon Ping, presidente del Gruppo Wah-Chang di Singapore, il quale ha scritto sull'Herald Tribune: "Nella nostra follia, credemmo che il miracolo asiatico avrebbe potuto ignorare l'inevitabile oscillazione del pendolo. Inorgogliti dal successo, ubriacati dalla crescita, già ci vedevamo, alle soglie del Secolo Asiatico, prossimi padroni dell'universo".
E tuttavia, tutte queste nazioni resteranno Tigri, nell'economia-mondo: felini carichi di energica volontà, anche se feriti nel narcisismo. E cioè Tigri pensanti.
Non è per niente negativo che le Tigri siano diventate e restino tali. Né, specularmente, che scoprano la loro vulnerabilità, il loro essere aggredibili, e dunque mortali. Le loro tribolazioni sono anche le nostre tribolazioni, e non c'è proprio da esultare se le Borse o le monete asiatiche precipitano. Ma questa loro esperienza facilita forse un inizio di conversazione sulle questioni essenziali tra Occidente e Lontano Oriente: un inizio meno reticente o timido da parte europea e americana, e meno subalterno, meno rinunciatario, meno disposto a farsi abbagliare dagli asiatici modelli, dagli asiatici successi, dalle asiatiche retoriche. Non si tratta, qui, di difendere certe rigidità delle pratiche economiche occidentali; rigidità che sarà comunque necessario ammorbidire e rendere più flessibili - soprattutto in Europa - e riformare per quanto possibile con spirito contrattuale. Non si tratta neppure di mettere in causa la cosiddetta "globalizzazione", parola che suona diabolica, ma che non significa altro che mercato aperto, e non denota altro che una situazione di fatto, generatrice delle attuali difficoltà asiatiche (e non solo asiatiche) come dei suoi precedenti "miracoli".
La conversazione potrebbe riguardare una volta per tutte cose ben più essenziali, tanto per noi quanto per i popoli orientali. Potrebbe andare al cuore del problema, al tema vitale che è filosofico-politico, prima ancora che economico: quello del mercato, e per essere più precisi, del rapporto tra mercato e democrazia, tra mercato e libertà del cittadino, tra mercato e regno della legge (rule of law). L'unica, o la fondamentale cosa che importa di sapere è se il presidente ha ragione, oppure no, quando sostiene che l'economia capitalistica funziona meglio senza democrazia; o quando chiarisce alla Washington Post che il massacro di piazza Tien-an-men, la Piazza della Pace Celeste, non fu un crimine, e meno che mai un errore, ma un "intervento necessario per poter ottenere gli straordinari successi di crescita in Cina negli Anni Novanta". La discrasia, la sconnessione tra mercato e democrazia, tra mercato e rule of law, è argomento forte, nel comunismo e nelle dittature dell'Estremo Oriente. E' polso e aorta del "modello asiatico", tanto esaltato dai dirigenti di quelle latitudini ideologiche e di quei fusi orari produttivi, che non pochi occidentali ne sono segretamente sedotti. Ma è anche fonte dei clamorosi tracolli finanziari, come è all'origine dell'impreparazione dei sistemi politici in Thailandia, in Malaysia, nelle Filippine, nella stessa Cina post-maoista. L'America non vuole insistere più di tanto sulla memoria di Tien-an-men e sui diritti dell'uomo - e gli ipocritissimi europei neppure vogliono sentirne parlare - ma le crisi recenti dovrebbero costringere tutti a parlare di libertà dei cittadini, di liberazione del loro pensiero, del rispetto istituzionale delle opposizioni, e della scarcerazione di tutti i dissidenti.
Prima o poi, tali questioni dovranno essere affrontate con la gravità e con la determinazione che richiedono, senza sprecare più tempo attorno al "problema" futile, sterile, verboso-pretestuoso dei cosiddetti Valori. Tutte le retoriche sui Valori Asiatici, o confuciani, contrapposti ai Valori Occidentali, o giudaico-cristiani, sono una cortina fumogena innalzata dalle classi politiche asiatiche che intendono dissimulare e nobilitare culturalmente le proprie illegalità, i propri dispotismi, le proprie corruzioni, i propri rifiuti di istituzioni e di costituzioni democratiche. Si tratta di evidenti tranelli culturali, tesi a danno non solo dei politici e degli intellettuali dell'Occidente, ma anche ai dissidenti e agli oppositori interni. Non è un caso che solo i dittatori parlino di Valori Asiatici, in Oriente: esclusivamente costoro esaltano l'idea propagata dal politologo americano Samuel Huntington sullo "scontro mondiale tra le culture" che avrebbe sostituito la guerra ideologica fra democrazia e comunismo (mentre gli europei di deriva e di scimmiottamento cianciano di "inevitabile scontro" tra Mondo cristiano e Mondo musulmano). Esclusivamente i gerarchi cinesi, il nuovo capo dell'esecutivo a Hong Kong, il primo ministro malese, i governanti autoritari dell'Indonesia, della Birmania, di Singapore sbandierano i Valori Asiatici.
Ma i dissidenti perseguitati in queste nazioni sanno da tempo quel che si nasconde dietro parole che esaltano formalmente la pratica del consenso e della consultazione, che rifiutano apparentemente i contrasti occidentali, e che in realtà non esitano a schiacciare con la violenza qualsiasi rivolta sociale, politica, etnica, religiosa. Gli oppositori sanno (avendolo appreso sulla loro pelle) che non esiste una tradizione consensuale (fondata sull'ordine e sulla stabilità, sull'unità familiare e sulla lealtà comunitarista, sul rispetto degli anziani e sul dispiegamento di culture "altre") nella storia dell'Asia Vicina e Lontana. Non vanno in questo senso né in questa direzione le antiche guerre fra sette buddiste in Giappone e nel Tibet; né le stragi di centinaia di migliaia di indonesiani sospettati di simpatie marxiste, nel '65; né i genocidi dei cambogiani anti-marxisti, nel '70; né i massacri e il cannibalismo della rivoluzione culturale cinese; né Tien-an-men dell'89; né il lavoro forzato nei campi, le deportazioni, le fosse comuni, le sparizioni, gli esilii.
Nelle nazioni che scommettono sulla democrazia - Giappone, Taiwan, Corea del Sud - l'appello ai Valori Asiatici è taciuto o è fatto con riluttanza. Persino l'inventore del concetto, l'ex premier di Singapore Lee Kuan Yew, oggi nutre fortissimi dubbi sulla loro consistenza ed efficacia. Ciò non vuol dire che i Valori Occidentali dovranno prevalere sugli Asiatici: non fosse altro, perché non esistono quasi più Valori Occidentali conquistatori, sicuri di se stessi, contrariamente a quanto osa sostenere Huntington. Significa solo che la conversazione è destinata a naufragare se continua a ruotare attorno a concetti fittizi, se persevera nell'avvitarsi, sia pure abilmente, sulle diverse idee del Bene e della Società Perfetta: idee vaghe, idealismi inafferrabili. Ben più proficua può rivelarsi una conversazione che parta dalle esperienze del disastro che le nazioni asiatiche hanno conosciuto in questi tempi.
Meglio riprendere l'abbrivo dalle loro ferite narcisistiche, dalla loro scoperta della vulnerabilità, della mortalità. Perché questa è realisticamente l'unica esperienza che Oriente e Occidente hanno in comune, e dunque può aiutare come nient'altro a scrutare dietro le cortine, a scoprire i fatti quali sono, non come si desidererebbe che fossero.
In fatto e in diritto, va sfatato il mito dei Valori, là dove questi affliggono i popoli con l'oppressione delle autocrazie capitalistiche, con le corruzioni, con la cancellazione delle libertà, con l'impossibilità di mandare in soffitta le classi governanti che falliscono, con la negazione dei diritti umani, in una parola con la Giustizia Negata. Anche in questo senso, i Valori Asiatici servono come conveniente pretesto per resistere alle aspirazioni democratiche e danneggiano le nazioni.
Il crollo delle Borse degli otto Paesi conferma questo assunto, questo giudizio scettico sulle magnifiche sorti e progressive dei Valori confuciani. E conferma l'utilità di conversazioni pienamente fondate su esperienze fattuali dei danni causati dalla menzogna e dall'auto-inganno.


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