Francesco I il corrotto




Ada Provenzano, Tonino Caputo, Bruno Alfano
Coll.: G. Decliva, F. Rey, A. Demario, E. Landi



Se la casata dei Borbone si è cucita addosso la fama di slealtà e di doppiezza, di indifferenza per i problemi del popolo e di corruzione, lo si deve in massima parte a Francesco I, figlio e successore di Ferdinando sul trono napoletano. Per anni egli ebbe la capacità di fingere sentimenti liberali, per anni ostentò aperture democratiche: ma appena ebbe la possibilità di schiacciare i nemici dell'assolutismo, si rivelò per quello che realmente era: intransigente e spietato come, e forse anche più del padre.
Francesco cominciò a recitare le due parti in commedia fin dal tempo in cui era ancora Principe ereditario e portava il titolo di duca di Calabria: nominato dal padre Vicario Generale del Regno dopo lo scoppio della rivoluzione del luglio 1820, assistette con esultanza, dai balconi del palazzo reale di Napoli, alla sfilata delle truppe rivoluzionarie e delle milizie carbonare vittoriose, mostrando di partecipare di buon animo alla trasformazione dello Stato in senso costituzionale. Salutò gli uomini armati e la folla plaudente sventolando un fazzoletto con fare festoso. Tenne a fregiarsi e a far fregiare la sua famiglia e il suo seguito del distintivo della Carboneria. Ricevette solennemente nella Sala Grande delle Cerimonie i capi rivoluzionari, e in quell'occasione affermò che il trono, prima, non era saldo, mentre da quel momento lo era, poiché poggiava "sulla volontà e sugl'interessi del popolo". Giurò, al modo di suo padre, davanti a Dio, incrollabile fedeltà alla Costituzione liberale. Infine, giunse al punto di sconfessare lo stesso padre, quando costui rinnegò la Costituzione al Congresso della Santa Alleanza a Lubiana, nel gennaio 1821. Ma fu sufficiente che le truppe austriache invadessero il territorio napoletano e ristabilissero alla fine il regime assolutista, perché Francesco cambiasse subito bandiera.
Della sua vera natura e del suo carattere si ebbero prove visibili quando, nel 1825, egli successe - all'età di quarantasette anni - al padre Ferdinando. Le speranze suscitate dall'ampia amnistia in favore dei condannati politici con la quale Francesco iniziò il proprio regno furono ben presto annientate da tutta una serie di atti dispotici che raggiunsero e superarono anche i limiti della crudeltà.
La sua unica ambizione fu costantemente quella di starsene chiuso nel suo mondo limitato, circoscritto alle caccie e alle feste, in compagnia dei suoi favoriti. Di intelligenza più che mediocre, pensava che la felicità del popolo che governava (o, come si diceva, "sgovernava") dovesse consistere unicamente in ciò che aveva. Le innovazioni, che un tempo aveva simulato di accettare e persino di favorire, erano da lui considerate per lo meno perniciose. Per questa ragione uno dei suoi primi provvedimenti fu quello di assoldare un corpo scelto di militari stranieri - seimila svizzeri - con cui era sicuro di poter reprimere qualsiasi velleità libertaria dei sudditi.
Oltre tutto, il quinquennio in cui egli occupò il trono partenopeo fu definito il "regno della corruzione". Pubblicamente, infatti, si esercitava un vastissimo traffico di impieghi, di favori d'ogni tipo e portata, persino di sentenze giudiziarie. I più accaniti trafficanti erano due persone di umili origini, che però godevano di grandissima influenza sia sul Re che su sua moglie, Maria Isabella di Spagna: si trattava di Michelangelo Viglia, cameriere di Francesco, e di Caterina De Simone, "camerista" della regina. Il Viglia si era acquistato questo straordinario potere a Corte non soltanto con una fedeltà a tutta prova, ma anche con la incredibile pazienza con cui sopportava i continui, vessatori e grossolani scherzi del Re, uno dei quali consisteva nello sgocciolargli sul naso la cera delle candele. Scherzi del genere divertivano tantissimo il Re, che si abbandonava ad omeriche risate!
Dunque, era sufficiente un semplice biglietto mandato dal Viglia o dalla De Simone ad un ministro o ad un giudice perché i loro protetti ottenessero posti e impieghi ben retribuiti, concessioni di pubblici appalti, decisioni della magistratura in una direzione piuttosto che in un'altra. Persino la carica di ministro delle Finanze venne assegnata per volere del cameriere reale: la ottenne Camillo Caropreso, che gli aveva versato ventiduemila ducati. Ecco il motivo per il quale anche gli osservatori stranieri, a cominciare dallo Châteaubriand, che allora era ministro francese a Roma, dichiaravano che "il Governo delle Due Sicilie è caduto nell'ultimo grado dell'abiezione".
Di tutto questo, e di altro ancora, Francesco I era perfettamente al corrente. Ma se ne curava ben poco, o per niente. Era solito dire: "Chi ha pagato per avere un ufficio cerca di non perderlo e perciò è fedele". Tale il Re. Tali i personaggi di cui si circondava. Ovvio, dunque, che il Regno sprofondasse negli abissi della corruzione, dell'indigenza, del sopruso.
Un ritratto straordinariamente vicino alla realtà di questo sovrano lo possiamo ritrovare nel libro Gli ultimi Borbone di Napoli, dell'inglese Harold Acton. Il quale, senza giri di parole, scrisse: "Marito e padre affettuoso, possedeva virtù esclusivamente familiari: era attaccatissimo alla moglie, tale e quale suo nonno; e se anche provava qualche tentazione di facili amori, egli sapeva vincerla con fermezza. Aveva nutrito un sincero amore per la prima moglie; tuttavia incapace di sopportare la solitudine, si risposò a pochi mesi dalla sua morte con l'Infanta Maria Isabella, che, pur conservando qualche caratteristica infantile, gli diede dodici figli".
"Francesco era massiccio, pesante, un po' curvo, goffo nell'incedere; le guance cascanti sembravano tradire un carattere debole, mentre gli occhi sporgenti esprimevano melanconia e diffidenza, a dispetto del forzato atteggiamento benigno del viso. Più colto, ma meno energico del padre, era appassionato per le belle arti, o meglio per ciò che veniva considerato belle arti in quel periodo di vieta maniera accademica; amando i classici studiati nella gioventù, ne citava spesso con reverenza qualche squarcio banale; aveva gusti semplicissimi e il suo particolare svago era l'agricoltura. Di solito indossava un'uniforme da colonnello, mal tagliata e senza spalline; soltanto per le cerimonie di Corte si fregiava dell'Ordine di San Gennaro, ma anche allora il suo portamento restava goffo e impacciato".
La sua cupa severità si esercitava contro gli uomini di cultura, nei quali vedeva i suoi più insidiosi nemici. Dazi proibitivi furono imposti ai libri stranieri; furono vietate le migliori opere di pensiero apparse in lingua italiana; nessuno nel Regno poté più leggere liberamente Vico, Filangieri, Genovesi, Beccaria, Romagnosi; e non parliamo poi delle opere del Foscolo e dell'Alfieri, le quali - se scoperte in qualche casa - erano sufficienti a spedire in galera il possessore. Con la cultura, si bandì dal Regno l'intelligenza. Il pensiero fu fiaccato. La fantasia repressa. L'ignoranza assurse a sistema.
Era più che naturale che un regime di tal fatta esasperasse l'aspirazione popolare alla libertà. Tentativi di rivolta si verificarono ora in una regione, ora in un'altra, fino a che, nel giugno 1828, la collera popolare culminò nell'insurrezione del Cilento, dove fra l'altro la Carboneria era ancora molto diffusa. Al moto presero parte uomini d'ogni condizione sociale, compresi alcuni frati e alcuni preti, e fu proprio un religioso ottuagenario, il canonico Antonio De Luca, a dare il via alla rivolta, con un'infiammata predica fatta dal pulpito della chiesa di Bosco, un piccolo villaggio di quella contrada.
La repressione immediatamente ordinata da Francesco I fu di una particolare ferocia. Il colonnello della gendarmeria, Del Carretto, che freddamente la diresse, non si limitò a massacrare le schiere degli insorti, ma fece saccheggiare e devastare dai suoi soldati paesi e villaggi che avevano favorito l'insurrezione. Il nucleo abitato di Bosco, giudicato più colpevole di tutti gli altri, fu raso al suolo a colpi di cannone. Quel che rimase in piedi venne ridotto in macerie col brillamento delle mine. Più di duecento insorti, caduti prigionieri, furono sommariamente processati, condannati a morte per impiccagione, o alla galera a vita, o a un gran numero di anni di reclusione. Il canonico De Luca, iniziatore della rivolta, venne dapprima seviziato, e subito dopo fucilato. Altri furono decapitati e le loro teste furono rinchiuse in gabbie e portate in giro per l'intero territorio del Cilento, come macabro ed eloquente ammonimento alle popolazioni.
Quale fu l'esercito di Francesco I? Sicuramente, un tipico esercito da tiranno. Furono arruolati svizzeri del Cantone di Schwiz; poi, dal 1827 al 1829, da altri Cantoni vennero arruolati i seimila uomini che formarono quattro reggimenti destinati, con successivi arruolamenti, a servire il Re per trent'anni. Sul finire del 1826, intanto, si era proceduto ad una vera e propria epurazione dell'esercito: parte degli ufficiali che avevano preso parte alla rivoluzione fuggì; parte fu imprigionata, parte esiliata. Quelli che rimasero furono organizzati nei corpi di artiglieria e del genio. Vennero formati anche due reggimenti siciliani, la cui organizzazione era affidata a persone di origini nobili, di magistratura o di ceto civile. Questi, tanto per cambiare, avevano facoltà di vendere tre gradi di ufficiali. E quelli ufficiali si formassero in questo modo, con questa procedura da corrotti, è facile immaginare. Infine, venne impartito l'ordine che fossero arrestati e arruolati nell'esercito i "vagabondi" (cioè i delinquenti abituali) per evitare disordini.
Dalla terra al mare. Creare una valida potenza marinara fu una delle preoccupazioni di Carlo III. Salito al trono, il Re acquistò tre galee dal papa Clemente XII, e ne fece costruire una quarta. In seguito, la marina napoletana fu sempre più rafforzata, tanto che nel 1789 Ferdinando IV poteva contare su una flotta di nove vascelli, una dozzina di fregate, sei corvette, cinque sciabecchi, quattro brigantini, sette galeotte e un centinaio di barche cannoniere.
Questa flotta, nel gennaio 1799, con gli avvenimenti rivoluzionari di quell'anno, per metà andò incendiata per ordine di Giovanni Acton, allora ministro della Marina. L'altra metà, invece, riparò in Sicilia.
Con la Restaurazione, Ferdinando, assunto il titolo di Re delle Due Sicilie, si impegnò a ricreare la flotta, e istituì accademie per allievi della marina militare. Sotto di lui, soltanto ai nobili era concessa la carriera di ufficiale della Real Marina. I suoi successori continuarono la sua politica marinara, tanto che con Ferdinando II la flotta borbonica sarebbe stata costituita da due vascelli da ottanta cannoni, di cui uno a elica e uno a vela; da tre fregate a vela e da due a elica; da sei fregate a ruote; da quattro brigantini a vela; da una cinquantina di bombarde e di barche cannoniere.
Col dispiegamento di una flotta del genere, in grado di controllare gli scacchieri tirrenici, lo sbarco di Garibaldi nel 1860 poteva sembrare impossibile. Ma sbarcò, e quel che accadde per l'esercito si verificò anche per la marina: la disgregazione. A merito delle istituzioni marinare borboniche rimase, tuttavia, il fatto che la nuova flotta del Regno d'Italia adottò i regolamenti, le manovre e i segnali di bandiera della marina partenopea, su disposizione dello stesso Cavour, che in questo modo volle rispettare la tradizione marinara del Sud.


Versailles a Caserta

Carlo III volle celebrare i fasti del suo regno con edifici che per grandiosità e splendore dovevano essere tra i maggiori d'Europa. Appassionato cacciatore, fece costruire anche casine e ville un po' dovunque: a Capodimonte, per il verde suggestivo della collina, rifugio di stormi di beccafichi; a Portici, che con la sua spiaggia consentiva anche la pesca; all'isola di Procida; alla tenuta di Licola; al bosco degli Astroni ricchissimi di selvaggina. Ma l'opera che rese visibile la sua grandezza fu la reggia di Caserta, realizzata da Luigi Vanvitelli nel 1752. Appena il gran palazzo fu pronto, Carlo stabilì di soggiornarvi i primi tre mesi dell'anno, di trascorrere parte della primavera e dell'estate a Portici, e la fine dell'anno a Napoli. Per arredare le residenze reali, fece venire dall'estero mobili e arazzi, e convocò una folla di artisti e di artigiani per le decorazioni. Pittori illustri, come De Mura, Vaccaro, Coccorante, Bonito, abbellirono le sale delle tre reggie, dove vennero aggiunti in seguito gli stupendi arazzi della fabbrica che il Re volle istituire a Napoli e che svolse l'attività dal 1738 al 1799.
La Corte divenne così il centro della vita mondana e il punto d'incontro dei nobili del tempo. I gentiluomini erano centoquindici. Cinquanta erano "di esercizio" e avevano per emblema una chiave d'oro in segno di riconoscimento del loro diritto ad entrare in ogni parte della reggia, mentre gli altri erano "di entrata", cioè avevano accesso libero solo fino alla quarta anticamera. Tuttavia, austero qual era, Carlo non si lasciò andare a grandi feste o divertimenti. Caserta divenne centro di mondanità solo dopo il matrimonio di Ferdinando I con Maria Carolina. Ferdinando, sebbene ignorante per la pessima educazione ricevuta, si vantava di essere protettore degli artisti, con preferenza per i tedeschi, che fece lavorare a lungo per la Corte: Mengs, Kniep, Füger, Hill e il prediletto Hackert, che nominò pittore di Camera con l'onorario di 1.220 ducati l'anno.
Nel 1787 Goethe, invitato da Hackert, si recò a Caserta e nel suo Viaggio in Italia notò le impressioni riportate: "Il nuovo immenso Palazzo costruito a guisa dell'Escuriale, quadrato, maestoso, con quattro grandi cortili, è veramente regale. Il luogo è straordinariamente bello, nella pianura più fertile del mondo, donde si estendono le coltivazioni a viti e giardini fino ai mont". Come Versailles per la Corte di Maria Antonietta, così Caserta per i Borbone divenne una maison de plaisance, un luogo di delizie, dove gli spiriti stanchi e sazi ricercavano nella semplicità dei costumi, nell'intimità della vita, nel ritorno alla natura, l'oblio degli affanni e nuovi piaceri. Spesso vi sopraggiungevano musicisti come Paisiello e Cimarosa, o spiriti dotti come l'abate Galiani. Elette dame vi erano di casa: la duchessa di Marigliano, la principessa di Belmonte, la duchessa di Casaluce, la duchessa di Lusciano. Ma alcune, sospettate di essere troppo amiche del Re, vennero esiliate nei loro feudi da una gelosissima Maria Carolina.
Nel 1799, riparati i Borbone in Sicilia, la reggia casertana rimase abbandonata. Quando Carolina Bonaparte, consorte di Murat, giunse a Napoli, trovò le reggie spoglie e desolate. E tuttavia il Palazzo di Caserta le sembrò una meraviglia: "E' quanto di più bello si possa immaginare. Versailles non è nulla in paragone. Per dartene un'idea", scriveva alla cognata Ortensia, "ti dirò che soltanto una piccola ala è abitata e vi potrebbero stare comodamente cinquemila persone. La cappella è più vasta della nostra sala dei marescialli. L'appartamento della regina ha cinquanta sale; la sola biblioteca è composta di sei stanze, fornite di scaffali, ma non di libri. Questa è la terra promessa. Nella campagna si vedono festoni di viti attaccati agli alberi con sparsi grappoli di uva assai più belli di quelli che gli Ebrei portarono a Mosè. Spero che quanto ti dico ti ispiri il desiderio di venire a vedere questo paese, vale la pena di fare cinquecento leghe per vederlo"".
Dopo la Restaurazione, Ferdinando I vi si recava di frequente, mentre Francesco I quasi non si mosse da Napoli. La residenza vanvitelliana riprese vita con Ferdinando II, la cui prima moglie, Maria Cristina di Savoia, andava spesso a far visita alle operaie della fabbrica di San Leucio, la celebre colonia fondata da Ferdinando I, col suo celebre codice che segnò la rinascita dell'industria serica nel Sud e che - come è stato detto - restò per sempre legato alla memoria di un originale atto di redenzione civile ed economica.
Nel 1860 la fine del Regno delle Due Sicilie segnò l'inizio della decadenza della reggia, che solo raramente ospitò augusti personaggi. Le ombre dei Borbone rimasero ad aggirarsi solitarie e abbandonate nelle sale deserte che videro l'alba e il tramonto di un'infelice Dinastia e restano, con la loro insuperata magnificenza, a testimonianza della grandezza del Regno del Sud.


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