IL MITO DEL DUCE




Franco Barbieri



Nel 1932, in occasione del decennale della rivoluzione fascista, venne proposto un fotomontaggio (foto 1) di immagini del volto del Duce. Nell'intenzione dell'autore e dell'Istituto Luce esso doveva avere carattere decisamente celebrativo e apologetico. Tuttavia, e nonostante ciò, non trovò l'approvazione del Duce che ritenne di scartarlo. Per questo motivo durante il ventennio non poté essere divulgato e non fu conosciuto, mentre nel dopoguerra, per varie e opposte ragioni, divenne notissimo. Fu una delle poche immagini conosciute che ebbe tale sorte, in quanto l'iconografia di Mussolini, attraverso la pressante propaganda del regime, fu quanto mai vasta e diffusa raggiungendo ogni aspetto della vita nazionale, sino a divenire oggetto di culto nella case, nei luoghi pubblici e in luoghi privati.


Luigi Marella nel libro I quaderni del Duce - Tra immagine e parola, Editore Barbieri 1995, rileva la specificità di tale produzione, apparentemente minore, ma strumentale e finalizzata - perché indirizzata e utilizzata dai bambini delle elementari - alla creazione e alla formazione dell'uomo nuovo italiano e fascista, attraverso segni, simboli e rituali, onnipresenti durante quegli anni, caratterizzati da enfasi retorica, ripetitività e concetti schematici e pedagogici. Sulle copertine di quei quaderni, l'immagine del Duce appare ora tra i bambini festanti in divisa (foto 2), ora sovrastante il globo (foto 3) sul quale spande la sua parola attraverso un microfono radiofonico; la sua immagine è generalmente incorniciata in un tondo sovrastato dal fascio littorio e marcato dallo stemma dei Savoia (foto 4), oppure fotomontata, alla maniera delle figurine dei santi, in funzione protettrice sopra cannoni, navi (foto 5), campi di grano, balilla e soldati marcianti, per finire a figura intera dominante l'asse Roma-Berlino.
Dai quaderni, sia per le icone proposte in copertina sia per quanto scritto dai bambini, si evidenzia il rapporto tra questi ultimi e il Duce, non dissimile da quello tra figlio e padre o tra alunno e maestro, ove però il padre e il maestro è il capo, è l'eroe che ha fatto grande, temuta e rispettata la Patria.


Il perché della scelta di scartare il fotomontaggio da cui siamo partiti, in quanto considerato un'immagine negativa, si può attribuire, forse, all'istintiva consapevolezza e attenzione del Duce nell'autorappresentarsi. In fondo quel fotomontaggio creava un grande e fastidioso "rumore" visivo che rendeva indistinguibile e confuso il messaggio che rimaneva sepolto dagli effetti ironici e perfino comici dell'insieme, invece di far risaltare la sintesi dell'esaltazione del Duce. Infatti poiché fra tutte le foto usate per il fotomontaggio nessuna ha il volto in atteggiamento sereno ovvero, al contrario, concentrato, esso risulta alla fine un mosaico di tasselli "urlati" e scomposti che avrebbero dovuto rappresentare momenti di azione, di ordini, di certezze. Ciò contraddiceva quanto egli sosteneva riguardo al linguaggio dei democratici - a suo avviso babelico, confuso e logorroico -, mentre il suo doveva essere stringato, essenziale, semplice, quasi povero, lento e scandito per preparare il finale sempre assoluto e categorico.
Lo stereotipo iconografico doveva mostrare e mostrava da una parte il condottiero, solo e sovrastante, e dall'altra la massa considerata e vista come un unico indistinto sia quando è confusa quale folla sia quando è ordinata come truppa di soldati.


La carenza di una raffinata educazione familiare non gli consentì comportamenti e movenze, per così dire, eleganti, come risalta nella foto 6 e in maniera ancora più evidente dai filmati d'epoca che sono ancora disponibili. Né la figura tozza, con la testa ben presto calva oltreché grossa rispetto al corpo, né il viso segnato dalla mascella robusta - fu allora che venne chiamata "volitiva" -, lo potevano aiutare nell'aspetto. Furono anche questi elementi che consentirono di alimentare, all'estero, la ridicolizzazione e la satira del personaggio. Invero il suo incedere aveva qualcosa di buffo nel cercare di assumere un andamento marziale, la sua mimica aveva qualcosa del guitto e l'atteggiarsi del viso, in particolare della bocca, quando assumeva la posizione con i pugni sui fianchi a braccia arcuate, che peraltro era l'unica che gli dava una certa maestosità, lo facevano ripiombare nella macchietta (foto 7).
Ma allora, viene da chiedersi, perché mai veniva "visto" da milioni di italiani come loro "Duce"? E' da ritenere che la sua rappresentazione era forse quella che la grande maggioranza degli italiani di allora aveva di se stessa. Il processo per cui i comportamenti si identificarono con i valori esaltati era lo stesso che animava Mussolini, e, come questo, nasceva dall'aspirazione ad essere italiani, protagonisti rispettati della storia. In modo imperfetto e superficiale il fascismo si poneva come fine di "fare gli italiani" in tempi brevi colmando il fossato dei secoli che separava l'Italia dalla romanità.
Gli italiani, nella massima parte, erano ancora nello stadio di appartenenza al mondo contadino e, in modesta misura, al mondo piccolo borghese degli artigiani e degli impiegati. L'analfabetismo era rilevante e la cultura, per chi aveva il privilegio di averla, aveva i toni decadenti e insieme lussureggianti che non spaziavano, generalmente, oltre i confini provinciali. Come i temi, che riecheggiavano nelle visioni eroiche di D'Annunzio, ma che vennero da Mussolini resi comprensibili e proposti in modo semplice e diretto, accompagnati, peraltro, da gesti concreti e nello stesso tempo simbolici. L'immagine fotografica, con la diffusione attraverso la stampa, li registrava ed esaltava, ottenendo la credibilità della rappresentazione. La prima guerra mondiale e la successiva crisi economica non avevano potuto che alimentare ogni proposta di prospettiva futura che avevano trovato nella rappresentazione fotografica e nella sua diffusione una sorta di megafono.


Pur con tutte le contraddizioni che l'accompagnarono, Mussolini e il fascismo affascinarono gran parte degli italiani con il mito di un'identità perduta che andava ritrovata ma che i fatti successivi dimostrarono inventata e fantasticata. Attraverso il mito si tendeva a realizzare questa "riscoperta"; la rappresentazione era, invece, lontana dalla realtà come, purtroppo, si dovette verificare con l'esito della seconda guerra mondiale. Comunque l'immagine fotografica, considerata a tutto campo, fu testimone del cambiamento introdotto dalle forme dello sviluppo del pensiero politico e dalle conseguenti manifestazioni di esso, cioè dall'apparire del potere mitico. Renzo De Felice ha scritto:
"Le masse - specie nei momenti critici - sono mosse più facilmente (per non dire esclusivamente) dalla forza delle emozioni e dell'immaginazione che da quella fisica, e ancor meno da motivazioni razionali; esse tendono a trovare rifugio e giustificazione alla loro incapacità ad affrontare e risolvere i problemi che le assillano in miti, che, per un verso rispondono in modo semplificatorio ed emotivo ai profondi malesseri e alle altrettanto profonde aspirazioni che le travagliano e, per un altro, offrono loro il conforto di una fede, di una speranza di un legame collettivo e solidaristico che le aiuta a vivere una crisi che altrimenti apparirebbe a loro intollerabile; esse infine, in queste circostanze, sono portate ad identificare tali loro miti in un capo ritenuto capace, per il suo carisma, di realizzarli".
Se la forza delle emozioni e dell'immaginazione è alla base delle profonde motivazioni delle masse, allora può essere condivisa l'affermazione di Le Bon che "le folle si lasciano impressionare soprattutto dalle immagini" e che "il potere di una parola non dipende dal suo significato ma dall'immagine che essa suscita". L'espressione fotografica, e quella cinematografica da essa derivata, risultano quindi essere i mezzi rappresentativi più idonei del mito. Mussolini non nascose il suo pensiero quando affermò:
"Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, una passione. Non è necessario che sia una realtà. E' una realtà nel fatto che è un pungolo, che èuna speranza, che è fede, che è coraggio. Il nostro mito è la nazione, il nostro mito è la grandezza della nazione! E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto".
Mussolini disse anche:
"La democrazia ha tolto lo "stile" alla vita del popolo. Il fascismo riporta lo "stile" nella vita del popolo: cioè una linea di condotta; cioè il colore, la forza, il pittoresco, l'inaspettato, il mistico; insomma tutto quello che conta nell'animo delle moltitudini".
Potremmo dire, insieme a Canepa, che il fascismo fu l'immagine suggestiva di una rappresentazione, "un'opera di suggestione, lenta, capillare, talora invisibile, che porta ad una vera simbiosi spirituale tra il popolo e il suo capo, in virtù della quale i valori affermati dal capo vengono altresì creduti e affermati dal popolo".
La messa in scena delle adunanze (foto 8) non può non destare, tuttora, l'ammirazione e la meraviglia per la cura della preparazione e la suggestione dell'effetto e si può ben comprendere come le scenografle e i rituali potessero divenire il modello imitato sia dal nazismo sia dal comunismo, sorretto, come era, dalla cultura del futurismo che non poco influì sul taglio delle immagini diffuse dalla propaganda e gli conferì uno stile rimasto emblematico e profetico.


Si veda, in particolare, la foto 9 che restituisce l'immagine realizzata in occasione del plebiscito del 1934, alla quale potrebbe attribuirsi l'ispirazione della figura del Grande Fratello che appare in 1984, il romanzo di George Orwell. Alla rappresentazione della grandezza e della esaltazione della Patria e dei suoi valori, quando la camera fotografica si immette e si confonde con la gente, fa riscontro e contrasto il mostrato della vita di tutti i giorni nei suoi caratteri poveri e provinciali (foto 10).
L'aspirazione e la realizzazione dei supremi ideali richiede la condivisione di valori e di comportamenti diffusi e convinti, nonché di adeguati e concreti mezzi per perseguirli, altrimenti, al momento della prova, la costruzione rivela la sua fragilità e la sua irrealtà.
La contraddizione tra la rappresentazione propagandistica e la situazione effettivamente esistente si mostra nell'evidenza dei documenti fotografici riguardanti i bambini che erano il primo e più importante interesse del regime, poiché da essi doveva formarsi il nuovo italiano fascista.
Nelle scenografie e coreografie in occasione di eventi ufficiali nel quali erano coinvolti i bambini tutto era accuratamente preparato e scelto: il luogo, le divise, i comportamenti (foto 11). Ma quando, nella fase per così dire quotidiana, i bambini rappresentavano soprattutto se stessi, allora apparivano le condizioni effettive nelle quali il contesto era generalmente misero e degradato. Non tutti i bambini avevano le scarpe, le espressioni rivelavano volti stanchi, dalla capigliatura arruffata, e ciò evidenziava un atteggiamento di noia e di stanchezza (foto 12). Non c'è dunque da meravigliarsi se nelle fotografie non è frequente la presenza del Duce tra i bambini - mentre più comunemente appaiono bambini con la sua immagine, quasi icona di un nume tutelare -, poiché è noto come essi, in genere inconsapevoli del ruolo e del significato di una presenza adulta, con la loro innocenza potrebbero svelare che, come nella favola, "il re è nudo"; meglio dunque che, prudentemente, il bambino sia solo con l'immagine di colui che gli adulti esaltano (foto 13).


Diverso è il discorso del rapporto con i giovani per i quali il regime offriva il meglio del sistema sia nella ricreazione - pur se indotta, ordinata e controllata - che si concretizzava in vita associata, in attività sportive, in opportunità di viaggi e gite, in spettacoli e balli, sia nello studio e nel lavoro. A condizione che, però, venisse riconosciuta e accettata la superiorità e l'assolutezza del regime. L'entusiasmo e la gioia di vivere, tipica dell'età, confusa alla non conoscenza di altri modelli, per la barriera informativa che lo stesso regime alzava intorno agli avvenimenti esterni all'Italia, agevolavano la formazione di un comune sentimento di conformità e allontanavano dal rischio di crearsi pensieri e toni critici.

Lo Stadio dei Marmi, ove si tenevano molte delle celebrazioni della gioventù fascista del littorio (foto 14), rappresentò la sintesi marmorea della concezione del regime riguardo alla gioventù e ai suoi valori. Il fascismo nell'ispirazione rivoluzionaria delle origini doveva essere portatore di cambiamento e rinnovamento, entusiasmo e coraggio, come un giovane. Ma, nello stesso tempo, doveva alimentarsi dei valori della tradizione per ritrovare la sua identità storica. L'esaltazione del mondo rurale doveva convivere con quella dell'industria, così come il bersagliere, a piedi e di corsa, doveva rappresentare lo stesso valore e significato dell'auto e dell'aereo.

La rappresentazione della donna ebbe un posto preminente durante il ventennio per esaltare sia il suo ruolo tradizionale di madre e di massaia, sia quello, nuovo, di atleta e di militante. Il Duce amava essere ritratto in mezzo alle donne delle quali aveva un'opinione oscillante tra convenzionale e spregiudicata, ma era comunque sempre propenso a considerarle sensibili portatrici di serenità e di forza, seppure relegate ad un ruolo subordinato e strumentale. Sperimentò il loro contributo nella sua vita attraverso il rapporto con la madre Rosa e la moglie Rachele, con la giornalista Margherita Sarfatti e l'amante Claretta Petacci - di ciascuna delle quali, però, non risultano significative immagini -, e apprezzò sempre la presenza di donne nelle manifestazioni e ne accettò gli entusiasmi che sapeva quanto galvanizzassero la folla.
La coesistenza delle due anime, una giovane e rivoluzionaria, l'altra conservatrice e tradizionale, in mancanza o carenza di un ruolo e di una cultura borghese, fu la ragione dell'affermarsi dei totalitarismi fascisti, nazisti e comunisti, come nel '26 aveva pronosticato Roberto Michels.
Nei suoi studi G. L. Mosse ha definito, paradossalmente, il fascismo come "rivoluzione borghese antiborghese" ed Emilio Gentile ha affermato che "il fascismo riassumeva nel mito dello Stato e nell'attivismo come ideale di vita i caratteri essenziali della sua ideologia [ ... ]; fu soprattutto un'ideologia dello Stato"; lo Stato come Stato totale tale da soddisfare il bisogno di unità, di protezione e di potenza del "popolo" recuperando ciò che liberalismo, democrazia e socialismo ad esso avevano sottratto o negato.
"Il fascismo non fu una ideologia di masse ma per le masse".
Scena e fuori scena tutto ormai è rappresentazione. Nel gioco degli specchi l'immagine fotografica rivela la sua potenza e la sua fantasia. Quando riprende se stessa è come se riflettesse sulla propria natura fantastica e descrivesse, non con parole, la propria genesi. La foto 15 di Mussolini, a Cinecittà durante le riprese del film Scipione l'africano, con l'occhio incollato sul mirino della camera attorniato dai tecnici, attratti dalla sua presenza più che dal lavoro, riveste il significato del documento nella autenticità che la contraddistingue per tutti gli elementi che la compongono, non ultimo la posizione della manopola che nasconde parzialmente il viso del Duce. Ma, usata dalla propaganda, si trasforma, diviene immagine-simbolo (foto 16), poiché uomini e cose che gli stanno intorno sono scomparsi.


Così, il viso non è più disturbato e quindi libero alla vista, l'abito cambia da grigio a bianco, il fondo è il cielo, non quel brutto e provvisorio castello di legno. La scenografia, poi, viene completata dalle lettere bianche su fondo nero a comporre la frase sottostante - "La cinematografia è l'arma più forte" -, cosicché all'immagine restano conferiti significati importanti e vasti, che la traggono dal contingente della cronaca e del momento a causa della valenza del' simboli contenuti e assunti. Quindi anche ciò che è fuori scena, che è dietro alla camera, diviene a sua volta guardato, ripreso e assunto come messaggio e simbolo e persino quanto è dietro le quinte, comparse e militi entusiasti al seguito del Duce in visita sul set di Scipione l'africano (foto 17), può diventare manifestazione della coniugazione di romanità e fascismo.


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