Cittą e campagna




Tonino Caputo, Lanfranco Oddo, Vanni Ravanà
Coll. : Edoardo Landi, Primo Artese, Antonio Cardignano



Dai tempi più antichi, quando le comunità primitive emergono dall'emergenza delle origini, e attraverso l'agricoltura e l'allevamento avviano un'economia che va oltre la pura sopravvivenza, si pongono le premesse per la nascita della città, cioè di un centro di potere, di servizi e di scambi, che vive grazie al surplus prodotto nelle campagne. La storia dell'evoluzione umana è così essenzialmente segnata dalla divisione funzionale del territorio, degli insediamenti, delle attività produttive, amministrative e di governo, che vede via via l'affermarsi della supremazia cittadina e la "sottomissione" del contado, sebbene per lungo tempo la maggior parte delle popolazioni e delle attività economico-produttive abbiano sede proprio nelle campagne.
Passando in sintesi attraverso le vicende delle poleis, delle città-Stato, dei Comuni, delle Repubbliche marinare, il primato cittadino conosce il suo definitivo trionfo nell'Ottocento. E' nell'età dell'industrializzazione che la città si estende, si trasforma nella struttura, nelle dimensioni e nei rapporti spaziali, nel modo di configurarsi, nel significato complessivo. Diventa grande città, metropoli, centro decisivo dei rapporti economici, politici e sociali, luogo proprio di forme nuove di esistenza, caratteristiche della società di massa. Nelle grandi città, infatti, la realtà si presenta sempre più vistosamente in forme complesse, conflittuali, anche contraddittorie, che modificano di volta in volta le dimensioni quantitative e qualitative dell'esistenza umana.
In un celebre saggio, il sociologo tedesco Georg Simmel (La metropoli e la vita spirituale, del 1912) vede la grande città, tutta percorsa dagli effetti dello sviluppo tecnologico-scientifico, come luogo di intensificazione e di stimolazione sempre più ravvicinata della vita nervosa ed emotiva dei suoi abitanti. A costoro si rende perciò necessario un incremento delle capacità di astrazione e di calcolo, un potenziamento dell'intelletto come mezzo di controllo soggettivo del molteplice e della varietà.
Sull'analisi e sulla comprensione del fenomeno-città, quale si viene delineando nel corso del secolo XIX, si misurano, nella specificità dei rispettivi metodi di indagine, architettura, urbanistica, sociologia, politica, scienza, tecnologia, arte e letteratura, così che il tema della città potrebbe essere assunto come criterio di lettura/interpretazione di gran parte della cultura contemporanea, dall'Otto al Novecento.
Le metropoli ottocentesche si espandono concentrando miseria e modernità: la miseria dei sobborghi, dove si accalca la popolazione operaia; la modernità del centro, dove le vie grandi e spaziose, i negozi, i luoghi di ritrovo testimoniano le meraviglie dell'industrialismo. Nel centro, poi, si addensano molteplici motivi di interesse: il passeggio, le vetrine con l'esposizione delle merci, l'incontro di una folla varia e interessante, gli appuntamenti d'affari, gli stimoli che colpiscono i sensi in modo sempre più scoperto e vivace. La folla è uno degli elementi caratteristici delle nuove città industriali. Anche nel passato masse umane di grandi dimensioni avevano agito compatte in determinati momenti di protesta o di rivolta, o si erano raggruppate per eventi particolari. Ma ora la folla diventa un fenomeno abituale: le vie e le piazze sono costantemente frequentate, una corrente ininterrotta di persone percorre in ogni senso la città, ciascuno andando per la propria strada, senza conoscere chi gli passa accanto.
Nel 1854, descrivendo la città di Londra, il tedesco Friedrich Engels esprimeva la sua meraviglia di fronte all'indifferenza reciproca dei passanti: "...Si sorpassano in fretta, come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare fra di loro; la sola intesa che li unisce è quella, tacita, che ciascuno si tenga sul lato del marciapiede alla propria destra, perché le due correnti di folla che procedono in direzioni opposte non si intralcino a vicenda. Eppure non viene in mente a nessuno di degnare gli altri sia pur solo di uno sguardo".
Il motivo della folla compare precocemente in Edgar Allan Poe, in una novella intitolata "L'uomo della folla". La vicenda si svolge a Londra ed è narrata in prima persona da un uomo, che dopo una lunga malattia esce di nuovo nella confusione della grande città. In un tardo pomeriggio d'autunno egli è seduto presso le finestre di un locale londinese e osserva la gente intorno a sé, legge a tratti le inserzioni di un giornale, ma soprattutto il suo occhio si rivolge affascinato alla folla che passa all'esterno: "La via era una delle più animate della città; per tutto il giorno era stata piena di gente. Ma ora, all'imbrunire, la folla cresceva di minuto in minuto [...]. A poco a poco persi di vista ciò che avveniva nel locale in cui mi trovavo, e mi abbandonai alla contemplazione della scena di fuori".
L'abitante della metropoli che quotidianamente si mescola e si confonde nella folla prova una sensazione nuova, sconosciuta agli uomini delle piccole città del passato: l'essere soli tra una moltitudine affaccendata che, mentre ti passa accanto e ti tocca involontariamente, ti ignora, ti sorpassa indifferente. Quello che colpiva in maniera negativa Engels, abituato alle piccole città tedesche, (oppure il campagnolo, impreparato alla misura della grande città che lo lascia frastornato), diventa invece una sensazione piacevole per l'uomo metropolitano, abituato alla folla, e all'anonimità dell'uomo nella folla. Si può essere soli nella folla, eppure questa solitudine può essere stimolante. Solitudine è in questo senso il muoversi tra gli altri, anonimi e liberi, portando con sé un mondo segreto di pensieri e di sensazioni, un'esistenza che rimane nascosta agli altri.
L'abitante della città impara ad animare la solitudine, mentre cammina estraneo nella marea della gente; e in questa solitudine animata e viva nell'intimo l'individuo scopre inoltre la propria indifferenza di fronte al flusso senza sosta delle cose, perché chi ha coltivato un proprio mondo autonomo e pieno può anche prendere le distanze da quello comune esterno, selezionare i messaggi, essere di volta in volta indifferente o interessato, distratto o coinvolto. La città come fonte di sensazioni continue, rapide, imprevedibili, costringe a scegliere, a dominare le grandi dimensioni, a mettere ordine e ad arricchire soprattutto l'esperienza soggettiva.
Chi ha saputo interpretare ed esprimere pienamente questa nuova sensazione dell'essere soli dentro la folla è Charles Baudelaire. Il poeta parigino si sente a suo agio nella grande città in cui vive e che dalle sue descrizioni allusive appare sempre sovrappopolata. In questa città trova l'ambiente fecondo in cui, a seconda dei momenti, può essere se stesso oppure può mimetizzarsi, felice nella folla rigurgitante. In una prosa de Lo spleen di Parigi, intitolata appunto "Le folle", leggiamo: "Non a tutti è dato di tuffarsi nella moltitudine: godere la folla è un'arte; e solo chi, quando era ancora in culla, ha avuto in dono per ispirazione di una fata il gusto di travestirsi e mettersi in maschera, l'avversione per la vita sedentaria e la passione per il viaggio, può davvero divertirsi a spese dell'umanità. Moltitudine, solitudine: termini uguali e traducibili l'uno nell'altro dal poeta attivo e fecondo. Chi non sa popolare la solitudine, non sa neanche essere solo in una folla affaccendata. Il poeta gode di un privilegio senza confronti, poiché a suo piacere può essere altro e se stesso. Simile alle anime erranti che cercano un corpo, quando vuole entra in un personaggio, qualunque sia. Solo per lui tutto appare libero e vuoto; e se sembra escluso da certi luoghi, è che ai suoi occhi non parvero degni di visita. Il passeggero solitario e pensoso ricava una singolare ebbrezza da questa universale comunità. Chi si confonde facilmente nella folla conosce gioie febbrili, vietate all'egoista chiuso come uno scrigno, e al pigro abbarbicato come un mollusco".
Anche nei romanzi compare la folla: Victor Hugo alla folla si rivolge persino nei titoli: I miserabili, I lavoratori del mare. E, dietro, la città. In gran parte della letteratura dell'Ottocento e del Novecento la città compare come sfondo. Tanto per limitarci all'ambito europeo, potremmo individuare le città industriali inglesi nei romanzi di Dickens (in particolare, in Tempi difficili) e di Lawrence (Figli e amanti); la Parigi di Balzac, Zola e Proust; la Milano di Manzoni, e poi di Verga e De Marchi; la Venezia di Mann e Hoffmanstahl; la Trieste di Svevo e di Joyce; la Praga di Kafka; la Lubecca dei Buddenbrook manniani; la Berlino di Döblin; la Vienna di Musil e Roth; la Dublino di Joyce; la Londra di Virginia Woolf; le città russe di Tolstoj, Dostoevskij, Cechov e Gorki; la Napoli di Prisco, Compagnone, Rea e Bernari; la Firenze di Pratolini; la Ferrara di Bassani; la Roma di Moravia e Pasolini; la Palermo di Sciascia; la Madrid di Hemingway...
Il maggior romanzo della letteratura italiana dell'Ottocento, I promessi sposi di Manzoni, si muove tutto intorno a una città, Milano, che non fa da semplice scenario alla narrazione, ma assurge in un certo senso ad elemento-protagonista della narrazione. La Milano in cui si verificano le vicende narrate è una città seicentesca, dominata dagli Spagnoli, e di essa Manzoni documenta molteplici aspetti: la configurazione urbanistica, la topografia, la presenza di ceti diversi, le forme della dominazione straniera, i disagi della vita quotidiana, le inquietudini dello spirito. Ma se questo è il volto della città, quale appare a prima vista, possiamo dire che in un senso più profondo la Milano protagonista del romanzo ha i tratti inconfondibili della città ottocentesca. In primo luogo, vediamo agire più volte nel tessuto urbano quella folla che sappiamo essere una "novità" nell'esperienza cittadina degli uomini del secolo XIX; i momenti delle grandi scene di massa - l'assalto ai forni, la processione, la gente del lazzaretto - rispecchiano una sensibilità moderna, che Manzoni aveva maturato per lo più fuori d'Italia (dove le città avevano ancora dimensioni provinciali), soprattutto nella Parigi della sua giovinezza. Ma soprattutto Milano si presenta come il centro dell'amministrazione, del potere, degli uffici, degli affari, il luogo dove si stringono e poi si sciolgono i nodi della vicenda, i destini dei due protagonisti, che appunto a Milano si ritrovano, dopo tante vicissitudini, per intraprendere poi una nuova vita non più di campagnoli, ma di piccoli imprenditori, per così dire "borghesi".
Anche nella narrativa italiana contemporanea la città è sfondo ricorrente, ora trasfigurandosi nella tensione della memoria e dell'utopia (come in Le città del mondo di Elio Vittorini o in Le città invisibili di Italo Calvino), ora affondando le sue radici nell'immediatezza concreta del reale. In questo senso, attraverso autori diversi, è possibile cogliere immagini di città come "luoghi dei problemi" della vita contemporanea. Senza la pretesa di mettere insieme un catalogo esaustivo, vediamo alcuni spunti: la città di provincia con la sua esistenza di piccole dimensioni (Bassani, Brancati, Mastronardi); la città deformata dalla corruzione politico-burocratica (Moravia, Gadda, Sciascia, Calvino); la città operaia (Pratolini, Volponi, Bilenchi, Pirelli, Ottieri); la città estranea e chiusa agli altri che sopraggiungono (Pavese, Strati, Balestrini); la città emarginante delle periferie sottoproletarie e delle borgatae (Testori, Pasolini); la città sconvolta dal terrorismo irrompente nella vita quotidiana (Castellaneta, Volponi, Camon); la città dei difficili rapporti umani e delle inquietudini esistenziali (Calvino, Ginzburg, Maraini, Pontiggia).
Analogamente accade nella poesia, sia pure attraverso tratti più sfumati e leggeri, da cui spesso traspare una forte identificazione con l'essere più profondo della propria città, come in questi versi di Umberto Saba:

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore; come un amore
con gelosia...
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

Nel nostro tempo siamo messi di fronte a un'estensione del modello metropolitano. La città non solo ribadisce la propria funzione di centro direzionale, ma diventa punto di riferimento per modi di essere, atteggiamenti, gusti, convenzioni, che coinvolgono anche coloro che non vivono in città. Se ancora fino a qualche decennio fa si potevano distinguere due diversi modi del vivere in città e del vivere in campagna, si può dire che oggi, al di là di quelle differenze ineliminabili che attengono alla diversa collocazione sul territorio, il modello cittadino, con i suoi valori, comportamenti e punti di vista, è diventato il modello unificante per tutti coloro che vivono all'interno di società avanzate. Diversamente dal passato, il "campagnolo" non si distingue più dal "cittadino". Piuttosto, la divisione tra città e campagna si è spostata ad un altro livello. Molti studiosi, da diverse prospettive, ora hanno teorizzato l'esistenza, nell'ambito internazionale, di aree metropolitane che si contrappongono ad altre aree che costituiscono le "campagne" del nostro pianeta, identificando nelle prime le zone industrialmente avanzate della terra, e nelle seconde le zone arretrate del cosiddetto Terzo Mondo. Detto in altre parole, è la contrapposizione tra Paesi sviluppati e Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo.
In questo quadro, le aree industriali oggi si profilano come un'enorme grande città del benessere, sia pure ancora inegualmente distribuito tra i suoi abitanti, di fronte alle campagne del sottosviluppo, dove il tenore di vita è anni-luce distante da quello delle aree metropolitane. Facciamo parlare alcune cifre, confrontando il reddito pro-capite, cioè la quantità di beni espressi in moneta che spetta a ciascun individuo all'interno di una determinata società. Agli inizi degli anni Sessanta il reddito pro-capite nei Paesi sviluppati era di 1.350 dollari all'anno, e nei Paesi sottosviluppati era di 130 dollari; nel passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta, nei primi era di 8.000 dollari, negli altri di 730. Certo, le statistiche nascondono le articolazioni interne, le differenze nei rispettivi gruppi tra Paese e Paese e fra classi sociali e individui all'interno di uno stesso Paese, ma la misura del divario è comunque sconvolgente, soprattutto se si pensa che nelle campagne povere e arretrate si accalca ben più della metà degli abitanti della terra.
Uno dei nodi del mondo contemporaneo è così costituito dal rapporto tra sviluppo e sottosviluppo, dalla contraddittoria convivenza del benessere di milioni di persone - concentrate nelle aree industriali - e dell'indigenza di masse ben più numerose che lottano per la sopravvivenza contro la povertà, la fame, la fatica fisica, le malattie, la mancanza di beni e servizi.
A questi temi ha dedicato particolare attenzione l'economista Paul Sweezy, che in un suo saggio del 1967 ha anche voluto "mettere l'accento sul fatto che questo modello di un centro ricco e sviluppato e della sua periferia continuamente impoverita non si applica solo ai rapporti che esistono tra Paesi a capitalismo avanzato e Paesi coloniali o semicoloniali. Certo, questa è la più vasta e appariscente applicazione, ma agisce anche all'interno di entrambe le parti. Per esempio, voi avete un Paese come il Brasile che, in termini di risorse naturali, è uno dei più ricchi del mondo. Anche lì trovate una concentrazione di ricchezza in un triangolo molto piccolo intorno a Rio de Janeiro, Belo Horizonte e San Paolo, mentre il resto del Paese continua ad essere a livelli di sottosviluppo e di miseria spaventosa. Trovate le stesse cose anche all'interno delle metropoli capitaliste: dopo tutto, Harlem e Park Avenue sono distanti soltanto due o tre miglia, un caso di estrema povertà e di estrema ricchezza che stanno guancia a guancia. Guardate in giro, dalle cime dei tetti di Copacabana a Rio, verso le dolci colline che la circondano, e poi guardate un po' più attentamente, e vedrete sulle colline le celeberrime "favelas": alcuni degli slums peggiori del mondo".
L'intreccio perverso tra le due facce della realtà mondiale, la faccia distesa dell'agiatezza o addirittura dell'opulenza economica e sociale, e la faccia contratta e scavata della miseria, si complica e si moltiplica, facendo emergere sacche arretrate anche all'interno delle stesse zone progredite. Non esiste più una campagna come modello di vita, come insieme di valori; esiste solo una campagna come immagine di povertà e di emarginazione anche nel cuore del mondo metropolitano. Chi si preoccupa dei destini futuri dell'umanità non può rimanere insensibile di fronte a un problema di queste dimensioni, all'esigenza di superamento del divario tra Paesi avanzati e Paesi sottosviluppati, indipendentemente dalla latitudine del proprio Paese, per un numero sempre crescente di persone.
La critica non investe soltanto la persistente supremazia delle aree metropolitane. Anche nei confronti della città tradizionale vediamo crescere sentimenti ostili, quando non di aperto rifiuto. Alla città, infatti, si rimproverano tanti motivi di difficoltà e inquietudine che segnano negativamente la vita quotidiana. Traffico, inquinamento, ritmo frenetico delle attività sono i fattori più clamorosi del volto oscuro delle nostre città. Ma gli accenti critici vanno più in profondità: la città, ricca di occasioni e di stimoli in superficie, di fatto rende impossibili i rapporti umani, scatena atteggiamenti di forte competizione e di arrivismo, crea isolamento, quando non ghettizzazione; la città penalizza ed emargina i più deboli, abbandona a se stessi gli anziani, non offre spazi adeguati ai bambini o luoghi di ritrovo ai ragazzi e ai giovani; la città, come un corpo troppo concentrato e sottoposto a pressione, esaspera le tensioni, fa esplodere i conflitti.
Da qui, ha origine la voglia di fuggire, di ritirarsi in campagna, dove la campagna non è solo un luogo fisico, ma un modello di vita alternativo a quello metropolitano onninvadente. E tuttavia, questa voglia e le scelte che ne conseguono nascono dall'illusione di un impossibile ritorno al passato, ad un mondo pre-urbano che a sua volta conosceva gravi problemi (ad esempio, la penuria diffusa), oggi superati.
E' necessario dunque trovare la via verso un'altra città, che non sia copia del passato, né inerte continuazione del presente, ma punto di equilibrio tra efficienza produttiva e rispetto della qualità della vita comune. L'autentica città a misura dell'uomo.


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