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Cittą e campagna |
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Tonino
Caputo, Lanfranco Oddo, Vanni Ravanà
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Dai
tempi più antichi, quando le comunità primitive emergono
dall'emergenza delle origini, e attraverso l'agricoltura e l'allevamento
avviano un'economia che va oltre la pura sopravvivenza, si pongono le
premesse per la nascita della città, cioè di un centro
di potere, di servizi e di scambi, che vive grazie al surplus prodotto
nelle campagne. La storia dell'evoluzione umana è così
essenzialmente segnata dalla divisione funzionale del territorio, degli
insediamenti, delle attività produttive, amministrative e di
governo, che vede via via l'affermarsi della supremazia cittadina e
la "sottomissione" del contado, sebbene per lungo tempo la
maggior parte delle popolazioni e delle attività economico-produttive
abbiano sede proprio nelle campagne.
Passando in sintesi attraverso le vicende delle poleis, delle città-Stato, dei Comuni, delle Repubbliche marinare, il primato cittadino conosce il suo definitivo trionfo nell'Ottocento. E' nell'età dell'industrializzazione che la città si estende, si trasforma nella struttura, nelle dimensioni e nei rapporti spaziali, nel modo di configurarsi, nel significato complessivo. Diventa grande città, metropoli, centro decisivo dei rapporti economici, politici e sociali, luogo proprio di forme nuove di esistenza, caratteristiche della società di massa. Nelle grandi città, infatti, la realtà si presenta sempre più vistosamente in forme complesse, conflittuali, anche contraddittorie, che modificano di volta in volta le dimensioni quantitative e qualitative dell'esistenza umana. In un celebre saggio, il sociologo tedesco Georg Simmel (La metropoli e la vita spirituale, del 1912) vede la grande città, tutta percorsa dagli effetti dello sviluppo tecnologico-scientifico, come luogo di intensificazione e di stimolazione sempre più ravvicinata della vita nervosa ed emotiva dei suoi abitanti. A costoro si rende perciò necessario un incremento delle capacità di astrazione e di calcolo, un potenziamento dell'intelletto come mezzo di controllo soggettivo del molteplice e della varietà. Sull'analisi e sulla comprensione del fenomeno-città, quale si viene delineando nel corso del secolo XIX, si misurano, nella specificità dei rispettivi metodi di indagine, architettura, urbanistica, sociologia, politica, scienza, tecnologia, arte e letteratura, così che il tema della città potrebbe essere assunto come criterio di lettura/interpretazione di gran parte della cultura contemporanea, dall'Otto al Novecento. Le metropoli ottocentesche si espandono concentrando miseria e modernità: la miseria dei sobborghi, dove si accalca la popolazione operaia; la modernità del centro, dove le vie grandi e spaziose, i negozi, i luoghi di ritrovo testimoniano le meraviglie dell'industrialismo. Nel centro, poi, si addensano molteplici motivi di interesse: il passeggio, le vetrine con l'esposizione delle merci, l'incontro di una folla varia e interessante, gli appuntamenti d'affari, gli stimoli che colpiscono i sensi in modo sempre più scoperto e vivace. La folla è uno degli elementi caratteristici delle nuove città industriali. Anche nel passato masse umane di grandi dimensioni avevano agito compatte in determinati momenti di protesta o di rivolta, o si erano raggruppate per eventi particolari. Ma ora la folla diventa un fenomeno abituale: le vie e le piazze sono costantemente frequentate, una corrente ininterrotta di persone percorre in ogni senso la città, ciascuno andando per la propria strada, senza conoscere chi gli passa accanto. Nel 1854, descrivendo la città di Londra, il tedesco Friedrich Engels esprimeva la sua meraviglia di fronte all'indifferenza reciproca dei passanti: "...Si sorpassano in fretta, come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare fra di loro; la sola intesa che li unisce è quella, tacita, che ciascuno si tenga sul lato del marciapiede alla propria destra, perché le due correnti di folla che procedono in direzioni opposte non si intralcino a vicenda. Eppure non viene in mente a nessuno di degnare gli altri sia pur solo di uno sguardo". Il motivo della folla compare precocemente in Edgar Allan Poe, in una novella intitolata "L'uomo della folla". La vicenda si svolge a Londra ed è narrata in prima persona da un uomo, che dopo una lunga malattia esce di nuovo nella confusione della grande città. In un tardo pomeriggio d'autunno egli è seduto presso le finestre di un locale londinese e osserva la gente intorno a sé, legge a tratti le inserzioni di un giornale, ma soprattutto il suo occhio si rivolge affascinato alla folla che passa all'esterno: "La via era una delle più animate della città; per tutto il giorno era stata piena di gente. Ma ora, all'imbrunire, la folla cresceva di minuto in minuto [...]. A poco a poco persi di vista ciò che avveniva nel locale in cui mi trovavo, e mi abbandonai alla contemplazione della scena di fuori". L'abitante della metropoli che quotidianamente si mescola e si confonde nella folla prova una sensazione nuova, sconosciuta agli uomini delle piccole città del passato: l'essere soli tra una moltitudine affaccendata che, mentre ti passa accanto e ti tocca involontariamente, ti ignora, ti sorpassa indifferente. Quello che colpiva in maniera negativa Engels, abituato alle piccole città tedesche, (oppure il campagnolo, impreparato alla misura della grande città che lo lascia frastornato), diventa invece una sensazione piacevole per l'uomo metropolitano, abituato alla folla, e all'anonimità dell'uomo nella folla. Si può essere soli nella folla, eppure questa solitudine può essere stimolante. Solitudine è in questo senso il muoversi tra gli altri, anonimi e liberi, portando con sé un mondo segreto di pensieri e di sensazioni, un'esistenza che rimane nascosta agli altri. L'abitante della città impara ad animare la solitudine, mentre cammina estraneo nella marea della gente; e in questa solitudine animata e viva nell'intimo l'individuo scopre inoltre la propria indifferenza di fronte al flusso senza sosta delle cose, perché chi ha coltivato un proprio mondo autonomo e pieno può anche prendere le distanze da quello comune esterno, selezionare i messaggi, essere di volta in volta indifferente o interessato, distratto o coinvolto. La città come fonte di sensazioni continue, rapide, imprevedibili, costringe a scegliere, a dominare le grandi dimensioni, a mettere ordine e ad arricchire soprattutto l'esperienza soggettiva. Chi ha saputo interpretare ed esprimere pienamente questa nuova sensazione dell'essere soli dentro la folla è Charles Baudelaire. Il poeta parigino si sente a suo agio nella grande città in cui vive e che dalle sue descrizioni allusive appare sempre sovrappopolata. In questa città trova l'ambiente fecondo in cui, a seconda dei momenti, può essere se stesso oppure può mimetizzarsi, felice nella folla rigurgitante. In una prosa de Lo spleen di Parigi, intitolata appunto "Le folle", leggiamo: "Non a tutti è dato di tuffarsi nella moltitudine: godere la folla è un'arte; e solo chi, quando era ancora in culla, ha avuto in dono per ispirazione di una fata il gusto di travestirsi e mettersi in maschera, l'avversione per la vita sedentaria e la passione per il viaggio, può davvero divertirsi a spese dell'umanità. Moltitudine, solitudine: termini uguali e traducibili l'uno nell'altro dal poeta attivo e fecondo. Chi non sa popolare la solitudine, non sa neanche essere solo in una folla affaccendata. Il poeta gode di un privilegio senza confronti, poiché a suo piacere può essere altro e se stesso. Simile alle anime erranti che cercano un corpo, quando vuole entra in un personaggio, qualunque sia. Solo per lui tutto appare libero e vuoto; e se sembra escluso da certi luoghi, è che ai suoi occhi non parvero degni di visita. Il passeggero solitario e pensoso ricava una singolare ebbrezza da questa universale comunità. Chi si confonde facilmente nella folla conosce gioie febbrili, vietate all'egoista chiuso come uno scrigno, e al pigro abbarbicato come un mollusco". Anche nei romanzi compare la folla: Victor Hugo alla folla si rivolge persino nei titoli: I miserabili, I lavoratori del mare. E, dietro, la città. In gran parte della letteratura dell'Ottocento e del Novecento la città compare come sfondo. Tanto per limitarci all'ambito europeo, potremmo individuare le città industriali inglesi nei romanzi di Dickens (in particolare, in Tempi difficili) e di Lawrence (Figli e amanti); la Parigi di Balzac, Zola e Proust; la Milano di Manzoni, e poi di Verga e De Marchi; la Venezia di Mann e Hoffmanstahl; la Trieste di Svevo e di Joyce; la Praga di Kafka; la Lubecca dei Buddenbrook manniani; la Berlino di Döblin; la Vienna di Musil e Roth; la Dublino di Joyce; la Londra di Virginia Woolf; le città russe di Tolstoj, Dostoevskij, Cechov e Gorki; la Napoli di Prisco, Compagnone, Rea e Bernari; la Firenze di Pratolini; la Ferrara di Bassani; la Roma di Moravia e Pasolini; la Palermo di Sciascia; la Madrid di Hemingway... Il maggior romanzo della letteratura italiana dell'Ottocento, I promessi sposi di Manzoni, si muove tutto intorno a una città, Milano, che non fa da semplice scenario alla narrazione, ma assurge in un certo senso ad elemento-protagonista della narrazione. La Milano in cui si verificano le vicende narrate è una città seicentesca, dominata dagli Spagnoli, e di essa Manzoni documenta molteplici aspetti: la configurazione urbanistica, la topografia, la presenza di ceti diversi, le forme della dominazione straniera, i disagi della vita quotidiana, le inquietudini dello spirito. Ma se questo è il volto della città, quale appare a prima vista, possiamo dire che in un senso più profondo la Milano protagonista del romanzo ha i tratti inconfondibili della città ottocentesca. In primo luogo, vediamo agire più volte nel tessuto urbano quella folla che sappiamo essere una "novità" nell'esperienza cittadina degli uomini del secolo XIX; i momenti delle grandi scene di massa - l'assalto ai forni, la processione, la gente del lazzaretto - rispecchiano una sensibilità moderna, che Manzoni aveva maturato per lo più fuori d'Italia (dove le città avevano ancora dimensioni provinciali), soprattutto nella Parigi della sua giovinezza. Ma soprattutto Milano si presenta come il centro dell'amministrazione, del potere, degli uffici, degli affari, il luogo dove si stringono e poi si sciolgono i nodi della vicenda, i destini dei due protagonisti, che appunto a Milano si ritrovano, dopo tante vicissitudini, per intraprendere poi una nuova vita non più di campagnoli, ma di piccoli imprenditori, per così dire "borghesi". Anche nella narrativa italiana contemporanea la città è sfondo ricorrente, ora trasfigurandosi nella tensione della memoria e dell'utopia (come in Le città del mondo di Elio Vittorini o in Le città invisibili di Italo Calvino), ora affondando le sue radici nell'immediatezza concreta del reale. In questo senso, attraverso autori diversi, è possibile cogliere immagini di città come "luoghi dei problemi" della vita contemporanea. Senza la pretesa di mettere insieme un catalogo esaustivo, vediamo alcuni spunti: la città di provincia con la sua esistenza di piccole dimensioni (Bassani, Brancati, Mastronardi); la città deformata dalla corruzione politico-burocratica (Moravia, Gadda, Sciascia, Calvino); la città operaia (Pratolini, Volponi, Bilenchi, Pirelli, Ottieri); la città estranea e chiusa agli altri che sopraggiungono (Pavese, Strati, Balestrini); la città emarginante delle periferie sottoproletarie e delle borgatae (Testori, Pasolini); la città sconvolta dal terrorismo irrompente nella vita quotidiana (Castellaneta, Volponi, Camon); la città dei difficili rapporti umani e delle inquietudini esistenziali (Calvino, Ginzburg, Maraini, Pontiggia). Analogamente accade nella poesia, sia pure attraverso tratti più sfumati e leggeri, da cui spesso traspare una forte identificazione con l'essere più profondo della propria città, come in questi versi di Umberto Saba: Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia... La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva. Nel nostro tempo
siamo messi di fronte a un'estensione del modello metropolitano. La
città non solo ribadisce la propria funzione di centro direzionale,
ma diventa punto di riferimento per modi di essere, atteggiamenti,
gusti, convenzioni, che coinvolgono anche coloro che non vivono in
città. Se ancora fino a qualche decennio fa si potevano distinguere
due diversi modi del vivere in città e del vivere in campagna,
si può dire che oggi, al di là di quelle differenze
ineliminabili che attengono alla diversa collocazione sul territorio,
il modello cittadino, con i suoi valori, comportamenti e punti di
vista, è diventato il modello unificante per tutti coloro che
vivono all'interno di società avanzate. Diversamente dal passato,
il "campagnolo" non si distingue più dal "cittadino".
Piuttosto, la divisione tra città e campagna si è spostata
ad un altro livello. Molti studiosi, da diverse prospettive, ora hanno
teorizzato l'esistenza, nell'ambito internazionale, di aree metropolitane
che si contrappongono ad altre aree che costituiscono le "campagne"
del nostro pianeta, identificando nelle prime le zone industrialmente
avanzate della terra, e nelle seconde le zone arretrate del cosiddetto
Terzo Mondo. Detto in altre parole, è la contrapposizione tra
Paesi sviluppati e Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo.
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