Ascanio Grandi




Nicola Carducci



Il Seicento italiano, come categoria storiografica più che meramente cronologica, resta il secolo più complesso e controverso, trasversalmente sbilanciato tra Marino e Galilei, tra Botero e Sarpi, tra intolleranza religiosa e libero pensiero, tribunale dell'Inquisizione e "dissimulazione onesta". Il che spiega l'intensificarsi degli studi, negli ultimi decenni, su questo secolo e la conseguente apertura di inediti orizzonti, col risultato non di risolvere le contraddizioni, ma di esplorarne e approfondirne gli estremi storico-filosofici ed estetici, anche in virtù del recupero di autori e di testi, pregiudizialmente caduti nell'oblio. Al tempo stesso, se ne documentavano e rivendicavano specificità regionali, da innestarsi dialetticamente nelle coordinate della cultura nazionale: insomma, dalla "regione per la nazione", secondo la formula metodologica suggerita da Mario Marti.
E per rimanere nel Salento, spetta a Mario Marti il grande merito di avere ideato, progettato e realizzato la "Biblioteca Salentina di Cultura" (Lecce, Milella), trasformatasi poi in "Biblioteca di Scrittori Salentini" (Galatina, Congedo), col valido sostegno di un'équipe di specialisti. Sono così potuti riemergere, nell'arco dell'ultimo ventennio, scrittori marinisti di sicuro talento, quali i manduriani Ferdinando Donno e Antonio Bruni, il mesagnese Gianfranco Maia Materdona e il grottagliese Giuseppe Battista, vissuti tra il 1590 e il 1675. Era mancato sinora il più grande di tutti, il leccese puro sangue Ascanio Grandi (1567-1647), dalla straordinaria, straripante fantasia manieristico-barocca, con la quale si è a lungo cimentato Antonio Mangione, vincendo egregiamente la prova. I risultati costituiscono ora i due massicci tomi, ovviamente confluiti nella citata "Biblioteca di Scrittori Salentini": Il Tancredi (e La Vergine Desponsata), presso il suddetto editore Congedo (1997).
Il primo tomo restituisce, in edizione critica ineccepibile, il testo della "impressione" di Pietro Micheli del Tancredi 1636 (poema eroico in venti canti in ottave di ventitremila versi); il secondo, oltre alla postfazione ("Epica controriformistica del Tancredi"), alla nota bio-bibliografica, alle indicazioni esegetiche, linguistiche ed onomastico-narratologiche, ripropone il poema sacro La Vergine Desponsata, in dieci canti in ottave di oltre diecimila versi, del 1639. Questo testo è stato prescelto fra altri anche di argomento sacro, perché "prediletto" dal Grandi, come rileva il curatore sulla scorta della testimonianza del fratello minore del poeta, di nome Giulio Cesare.
Dall'imponente lavoro di Antonio Mangione, che fa onore (e lo diciamo senza enfasi campanilistica) alla italianistica nazionale, d'ora innanzi non si potrà prescindere, per una ricognizione aggiornata sia del genere letterario dell'epica sia del periodo storico che salda il tardo Rinascimento con l'età del manierismo e del barocco, al cui confine appunto si attesta Il Tancredi di Ascanio Grandi. Si riscontrerà allora che il poeta salentino non si attarda tra gli inerti epigoni della Gerusalemme, nella sua duplice versione, ma se ne stacca da emulo ambizioso, con forti accenti di genialità innovativa. Risalta in primo luogo un intenso background salentino, l'humus risentito della sua terra, della sua stirpe, le cui radici affondano nella storia e nella leggenda dell'eroe eponimo del suo maggior poema. E se la poesia nasce anche dai brividi della passione, questa si confonde con una pienezza autobiografica, nutrita di luoghi, di nomi, di miti, di rimembranze, della stessa "patriziale enfasi araldica", come la definisce Mangione. Il capostipite della casata, un tal Giovanni Grandi, era stato consigliere di Tancredi normanno, conte di Lecce, e quando questi divenne re, ne ricevette in dono, per i "molti servizi" resigli, la cappella della Nunziata nel tempio di San Nicola e Cataldo, retto dai Padri Olivetani, per interessamento dei quali, poi, a distanza di sei secoli, lo stesso Ascanio Grandi, ancora in vita, avrebbe nella medesima chiesa ottenuto per meriti letterari e gentilizi un "mausoleo con statua laureata". A conferma dei magnanimi lombi, il nostro poeta celebra poi il suo antenato nelle sembianze eroiche dell'omonimo Giovanni re di Tripoli, Tiro e Sidone, in numerosi passi del poema (cfr. Indicazioni onomastico-narratologiche, p. 862), sicché l'epopea della Chiesa riformata s'intreccia oggettivamente con l'epopea della stirpe di Ascanio Grandi, grazie alla sua poesia che non teme rivali, presso i posteri, a dispetto dei contemporanei, ignari o indifferenti. Ne La Vergine Desponsata (c. X, 132, 133, 134), presagisce la fama che l'attende, con un eccessivo (ci sembra) sensus sui: "...perocché Grecia non prezzò già i carmi / chiari d'Omero, allor ch'egli vivea". Insomma, un "nescio quid maius nascitur Iliade"? Per i suoi amici, e sodali nell'esercizio delle Muse e nei blasoni, un tal dubbio parve doversi legittimamente porre, da quando iniziò a circolare Il Tancredi, nella stesura manoscritta del 1626. E' però anche vero che la notorietà non tardò a varcare la cerchia provinciale, e il nostro poeta si meritò lusinghieri apprezzamenti di un Loredano, di un Manso, di uno Stigliani, personalità non oscure della letteratura del secolo. Ma, "non è il mondan romore altro ch'un fiato / di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato" (Pg. XI, 100-102); e così, nell'età dell'Arcadia e poi dell'Illuminismo, la rotta del consenso s'inverte e l'opera del Grandi vien relegata nei cantucci della erudizione, fine a se stessa. Una seria ripresa d'interesse si registra invece alla fine dell'Ottocento, con gli studi di Antonio Belloni (Gli epigoni della Gerusalemme Liberata, Padova, 1893; le conclusioni ricompaiono nel più noto Seicento vallardiano), che, a giudizio di Mangione, cui si deve anche un lucido profilo di storia della critica grandiana (pp. 704-708), accusa i limiti dell'eruditismo positivistico. Né per una più attenta rilettura dell'opera del Grandi hanno giovato i postulati novecenteschi dell'estetica crociana, cui si è sostanzialmente attenuto anche Claudio Varese (nel coll. Seicento garzantiano). Lo scandaglio di Mangione attraversa felicemente e supera sia i percorsi dell'indagine positivistica sia gli approcci di segno idealistico, in questo modo irrobustendo i risultati di Guido Arbizzoni (nel vol. V della coll. Storia della letteratura italiana, Roma 1997) e di Gino Rizzo (nel vol. II della coll. Storia di Lecce, Bari, 1995).
"Una vita spesa a comporre versi, circa cinquantaseimila quelli delle opere edite. Quarant'anni di attività di poeta epico (dal Belisario al Tancredi, dai Fasti Sacri alla Vergine Desponsata), il Grandi si riconosce ad apertura delle Egloghe Simboliche ("Io, che sovra Elicon, sovra Carmelo / con trombe m'aggirai diece e trent'anni")": è il primo sorprendente dato bibliografico, fornitoci da Mangione (p. 679). Troppi versi, si dirà, al confronto con quanti (poco più di quattordicimila) ne sono bastati a Dante per la sua Commedia: ma è che siamo nel secolo di Giambattista Marino, e ciascuno è figlio del proprio tempo. D'altronde, negato ad ogni sorta di interesse pragmatico, cui invece cercava di avviarlo il padre costringendolo agli studi di giurisprudenza, sin dalla prima giovinezza il Grandi aveva subìto il fascino del poeta della Gerusalemme Liberata, non senza, et pour cause, previa opzione dello status di "clericus", cioè di "canonico non regolare". Nelle Egloghe Simboliche, del 1642 (c. X, 94-95), "il già vecchio poeta leccese ricorda la sua iniziazione alla poesia epica nel propiziatorio segno del fondatore dell'epica cristiana moderna: gli aveva mandato i primi canti del Belisario, e ne aveva ricevuto cortesi affetti. Sin d'allora il Tasso era diventato il suo mito poetico, da imitare in continua perfezione, più volte celebrato per autocelebrarsi" (Mangione, p. 623). Di fatto, l'idea di un poema sulla guerra greco-gotica era balenata nella mente del Tasso subito dopo la composizione della Conquistata, e ciò spiega il suo compiacimento per il Belisario del Grandi, il quale, peraltro, non avrebbe tardato a dirottare la sua tensione creativa su un altro argomento, anche questo già immaginato dal Tasso, De Tancredi normando. Vent'anni d'incubazione e di versificazione e l'opus maius del Grandi è bell'e compiuto, nella prima redazione del 1626, per essere poi affidato alle stampe dell'intraprendente Pietro Micheli, in prima "impressione", nel 1632, e in seconda, nel 1636.
Accanto ad un incondizionato consenso si levò subito un acrimonioso codazzo di polemiche che amareggiò l'autore: si diffidava della ortodossia aristotelico-tassiana della sua poetica, che fu subito rivendicata e documentata dal fratello Giulio Cesare, con l'immediato allestimento di un trattato di cinque libri, L'Epopeia (1637), e delle Aggiunzioni per l'Epopeia del 1641. Ma questa simbiosi teorico-pratica tra i due fratelli ci riporta, per un altro aspetto, al clima culturale della Controriforma, che a suo tempo aveva investito lo stesso Tasso: fare i conti con il pensiero dello Stagirita in sede di poetica e di retorica; sicché, a mo' di expedit, al giovanile Rinaldo il Tasso fa seguire i Discorsi dell'arte poetica, come, in seguito, alla matura Conquistata i Discorsi del poema eroico. Insomma, ciò che il Tasso fa da solo, i fratelli Grandi lo fanno in due, ripartendosi funzioni e ruoli: la creazione poetica, Ascanio, la teoria, Giulio Cesare, con i suoi frequenti appelli e rimandi sia ai dettami di Aristotele sia ai Discorsi tassiani, che a quelli peraltro si rifacevano. La professio fidei postridentina, ammettendo la diade aristotelico-oraziana, "delectare et monere", ne condizionava il primo termine al secondo per rimarcare in assoluto la funzione pedagogica dell'arte. In effetti, Ascanio Grandi subisce in toto tale condizionamento ne La Vergine Desponsata, la cui pubblicazione coincide con l'inizio del trentennio del vescovo Luigi Pappacoda nella diocesi di Lecce (1639-1670): un'età di rigida chiusura dogmatica in ogni direzione della vita cittadina (cfr. Gino Pisanò, Seicento letterario in Terra d'Otranto, Galatina, 1993).
Nel poema eroico, Il Tancredi, infatti, l'ascendenza classico-umanistica non è ancora interamente assorbita e vanificata dalle istanze controriformiste; tutta la sua materia - scrive Antonio Mangione -, cioè l'inventio, è "disposta in "favola" epica (dispositio) secondo sincretistico-manieristica struttura, che pone in allegorico gioco gli obbligati modelli massimi dell'Odissea e dell'Eneide, per il tema del viaggio (episodica e relativa al viaggio nella Colchide, la presenza delle Argonautiche di Apollonio Rodio), e della Gerusalemme Liberata, per il tema della città liberata dal dominio turco" (p. 630). E' la città di Fasi, dove è prigioniero Boemondo, zio di Tancredi. All'interno di ognuno dei due temi, per effetto della tecnica canonica dell'entrelacement, si affollano e disperdono e sovrappongono eventi, situazioni, scontri armati, nonché accesi sentimenti e incontrollate passioni, ambizioni e sconfitte, slanci eroici e succube indifferenza, per poi ricomporsi il tutto nell' "unità" teleologica dal rimescolio turbinoso della "varietà" avvenimentizia. I numerosi personaggi, a volte, si dissolvono in sgorbi psicologici (ariostescamente), oppure si ispessiscono in grumi simbolici di condizioni esistenziali (tassescamente) o ancora si sublimano in impulsi archetipici (omericamente), sui quali tutti si abbattono forze trascendenti, incombono imprevedibili destini, in una specie di "disarmonia prestabilita", fideisticamente e perciò ottimisticamente giocata. Il tipico Zeitgeist non comportava infatti soluzioni catastrofiche ma di salvezza, nell'opera d'arte di ampio respiro come il poema, del trionfo del bene sul male, della redenzione sulla colpa, al punto che, nel Tancredi, la tassiana "aspra tragedia dello stato umano" (Ger. Lib. XX, 73) appare disacerbata nella visione ecumenica che sancisce la finale liberazione di Boemondo: "Il pio Tancredi i ferrei lacci toglie, / gloria suprema di sua invitta mano, / e tutta Europa e sé d'obbligo toglie" (c. XX, 213). Emblematico dello spirito controriformista che alita nel poema è il personaggio di Matilde, regina d'Inghilterra, per citare un solo esempio: psicologicamente e tragicamente sbilanciata nella sua natura di una rinata Medea e di una rinata Didone, dagli abissi di colpe immani può risalire alla luce della grazia e della salvezza per il provvido intervento di Sant'Orsola, "Diva inglese" (c. VII, 106).
Se dunque per il marinismo l'essenza dell'arte è la rappresentazione del "teatro del mondo", per Ascanio Grandi è la figurazione della immutata favola della vita, sospesa tra il tempo e l'eternità. Le due leve della macchina narrativa, la naturale e la sovrannaturale, coagiscono intersecandosi ad apertura del poema, quando a interessarsi delle conseguenze funeste della diaspora dei condottieri della crociata del 1099 intervengono l'Arcangelo Michele e l'Angelo "che dei normanni è difensore", i quali poi sempre, in sinergia, sostengono e sospingono, propizi, i due protagonisti per antonomasia, Tancredi e il figlio Idro, concepitogli fra le acque del fiume Taro, presso Taranto, da Egla, "pia maga innocente". Né, infine, la disfrenata fantasia del Grandi sorvola sui diritti del vero storico, nel vasto mare dell'invenzione, ancora una volta secondo il modello tassiano, cioè nelle forme di un esile filo prospettico. Nel gioco della finzione riescono intensamente allusivi alcuni canti, non casualmente collocati a metà del poema: il trittico VIII-IX e l'XI. Nel trittico, la grande battaglia dell'Egeo, che decide la vittoria dell'Occidente cristiano sull'Oriente musulmano, predesigna lo strepitoso evento della battaglia di Lepanto; mentre nel canto XI, dal mito della giovinetta di nome America, "negra i membri, ma quasi angelo in vista", liberata da Tancredi dalle fauci di un mostro marino e poi restituita, col battesimo, alla fede cristiana, traspare la conquista europea e missionaria del Nuovo Mondo, che però viene sogguardato dal poeta salentino più con l'occhio di un Montaigne che di un Pizarro: quei primitivi, infatti, ignorano l'arte della guerra: "e seppi che colà senz'arte è l'arte / de la milizia, e quasi inerme è Marte" (c. XI, 77): un vano presagio di utopia!


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