Chi surclassa chi




Jacopo Viviani



Con l'identico tasso d'inflazione dell'uno per cento circa, gli Stati Uniti riescono a generare ricchezza in misura pressoché doppia rispetto all'Europa. Gli ultimi dati confermano 1'enormità del distacco tra la performance americana e quella europea, da qualunque lato la si voglia guardare: reddito prodotto, consumi privati, investimenti pubblici, posti di lavoro. Chi pensava che, grazie forse all'insostenibilità del "miracolo americano" più che alle ritrovate virtù dell'Europa, questa abissale distanza stesse riducendosi, deve realisticamente ricredersi. E ciò basterebbe di per sé a spiegare come possano essere girate di 180 gradi in poco meno di un mese le fortune dell'euro, ora messo all'angolo da un dollaro che pare incontenibile.
Ma la questione è ancora più complessa. Nella fase attuale la forza della divisa statunitense pare infatti dipendere in eguale misura dalle ottime notizie (in casa americana) come dalle pessime avvisaglie sullo scenario mondiale, dove le ricorrenti crisi del Brasile e l'incipiente crisi nipponica si uniscono ad una sempre più traballante difesa della parità di cambio in Cina e alla perdurante anemia dell'economia europea. Le possenti energie sprigionate dal biglietto verde sono il risultato del simultaneo combinarsi di queste contrapposte forze positive e negative, di luci e ombre che per un attimo abbagliano e nell'attimo successivo oscurano la vista. Basti pensare che il prolungato boom economico creerà nel 1999 in America un gigantesco disavanzo commerciale con l'estero - trecento miliardi di dollari, vale a dire il 3,5 per cento dell'intero reddito nazionale - che richiederà imponenti afflussi di capitali dall'Europa e dall'Asia per essere decentemente finanziato. L'ul-tima volta che si presentò una situazione analoga, a metà degli anni Ottanta, gli Stati Uniti non riuscirono nell'impresa e il dollaro andò in picchiata, perdendo in breve tempo il 50 per cento del proprio valore rispetto al marco e allo yen.


Nell'attesa di capire bene come andrà a finire questa volta, gli Stati Uniti traggono vantaggio da un innegabile fattore psicologico di cui l'Europa non gode. Con l'economia nazionale che non cessa di strabiliare per il suo virtuosismo, a Washington possono comodamente considerare una serie di alternative: se occorrerà rendere più attraente l'investimento in dollari dall'estero, si faranno salire i tassi di interesse senza timore che ciò comprometta il più che soddisfacente grado di sviluppo interno; se, altrimenti, le cose dovessero peggiorare - per esempio, con un'altra crisi bancaria come quella dell'autunno '98 - il costo del denaro potrà essere abbassato, ridando respiro ai circuiti finanziari.


L'Europa, al contrario, non ha più molte carte nel mazzo: è questione di tempo (mesi, o forse solo alcune settimane), prima che la stentatissima crescita economica continentale e il minaccioso aumento della disoccupazione inducano le autorità europee a ridurre ulteriormente i tassi. La strada europea è cioè a senso unico, mentre quella americana ha molte più direzioni possibili, e ciò fa di gran lunga preferire il dollaro all'euro.
Questo stato di cose, come da oltre due anni siamo abituati a vedere, è suscettibile di repentini mutamenti. Ma sotto la quotidiana capricciosità degli umori che agitano i mari della finanza internazionale in superficie, si cominciano a cogliere i segnali di sommovimenti più profondi, sui quali varrà la pena di riflettere. La caduta delle ultime difese in Brasile, le vertigini che rendono precaria l'economia dell'Argentina, al pari di quella degli altri Paesi sudamericani, fanno per esempio presagire la scomparsa, o quanto meno il lunghissimo declino di quelle valute nazionali (dal real al peso, al bolivar, all'inti) che in un giorno non lontano potranno essere sostituite dal dollaro. La completa "dollarizzazione" di uno sterminato spazio geografico e mercantile, da Anchorage in Alaska alla Terra del Fuoco sembra già ad alcuni un processo inarrestabile. Il che confermerebbe che l'età dell'euro sulla scena mondiale è ancora soltanto una splendida promessa.


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