I "poteri forti" di Eurolandia




S.B.



Da parecchi anni a questa parte il Centro di ricerca e documentazione "Einaudi" tiene sotto controllo le 1.000 maggiori società mondiali per capitalizzazione di mercato e porta a termine varie elaborazioni sulle classifiche pubblicate da Business Week e The Financial Times, nel tentativo di fornire una mappa, empirica ma aggiornata, del potere economico dell'economia globale di mercato, ossia di quelle aggregazioni finanziarie e produttive che possono prendere le "grandi decisioni" in merito a fusioni, incorporazioni, programmi di investimento e simili: insomma, dei cosiddetti "poteri forti".
La nascita di Eurolandia è stata un'occasione per prendere le misure di questa "terra incognita" nel quadro del capitalismo di mercato; e queste misure appaiono, per certi versi, sorprendenti. Tanto per cominciare, vi è un problema di "delimitazione dei confini": ci sono tre colossi del capitalismo europeo, e cioè il gruppo petrolifero Shell, quello chimico-alimentare Unilever e quello librario Reed Elsevier, che, essendo anglo-olandesi, senza alcuna chiara indicazione di predominio della proprietà e del management di un Paese sull'altro, sono, per così dire, "a cavallo" di Eurolandia. Queste tre imprese da sole capitalizzano oltre 300 miliardi di dollari, ossia quanto le venti maggiori imprese italiane; la loro inclusione conduce a spostamenti non piccolissimi (il 10 per cento circa) del totale.
Dopo attenta riflessione, il Centro ha deciso di considerare queste tre come imprese "eurolandiche" (brutto, ma efficace neologismo). In tal modo, le 171 imprese eurolandiche comprese nel totale delle prime 1.000 di Business Week pesavano l'anno scorso il 18,1 per cento di questo totale; le economie di Eurolandia pesavano, ai cambi di mercato, attorno al 22 per cento del totale mondiale; si trattava, in ogni caso, di un progresso importante compiuto negli ultimi anni, in quanto le imprese eurolandiche presenti nella lista sono aumentate di una cinquantina (per la precisione, erano 126 quelle citate dal Financial Times nel 1995), e allora il loro peso rappresentava un misero 11,5 per cento.


La Figg. 1 visualizza questa impressionante ridefinizione del capitalismo mondiale in tre anni. Il panorama è segnato dal collasso del Giappone e delle "Tigri" asiatiche, sotto la doppia spinta della caduta dei cambi e della caduta delle Borse. In queste figure, le grandi imprese del Giappone e dell'Estremo Oriente perdono complessivamente circa i due terzi del loro valore, pari a circa 20 punti percentuali. Questo spazio viene "occupato" dagli Stati Uniti per dieci punti percentuali e da Eurolandia per altri sei punti, mentre ai raggruppamenti minori spettano le quote residue. In termini relativi, la crescita di Eurolandia è la maggiore di tutte, essendo il suo valore aumentato del 50 per cento. Anche il numero delle imprese che fanno parte della lista è aumentato di circa il 50 per cento.
All'interno di Eurolandia - come mostra la Tab. 1 - le quote dei singoli Paesi (separatamente sono indicate le imprese "multinazionali" che non possono chiaramente essere riferite ad un unico Paese, come le tre anglo-olandesi già citate) non hanno subìto spostamenti ugualmente importanti. Francesi e tedeschi pesano complessivamente per circa la metà del totale, mentre l'incidenza di olandesi e anglo-olandesi è pari a circa il 20 per cento. L'Italia, da sempre poco rappresentata per lo scarso sviluppo dei suoi mercati azionari e per il corrispondente maggior peso della componente pubblica, mette a segno un lusinghiero recupero - dall'8,5 all'11,9 per cento - dovuto pressoché integralmente alle privatizzazioni. La lezione che se ne può trarre è che, a livello di Paese, il "nocciolo duro" del capitalismo europeo, basato sull'intesa tra francesi e tedeschi, col concorso degli olandesi, viene confermato. Le "periferie" (Irlanda, Portogallo, Spagna e Finlandia), che pure hanno avuto un'eccezionale crescita in termini reali, hanno fra i "grandi" un peso finanziario complessivo inferiore al 10 per cento.
Le banche dati del Centro consentono altresì di dare un volto a questi "poteri forti". E l'impressione è quella di un capitalismo estremamente concentrato. Basti considerare che le prime venti imprese per capitalizzazione di mercato pesano sempre all'incirca un terzo del totale.
Uno sguardo all'elenco, però, mostra come il quadro complessivo sia molto cambiato (Tab. 2).


Nell'elenco delle prime venti società, figurano infatti solo nove presenti anche nel 1995. Ne sono uscite imprese importanti come Generali e Bayer, Fiat, Veba e Philips, che pure hanno talora mostrato risultati di tutto rispetto, ma che sono state "spiazzate" dai primi posti dai nuovi colossi del capitalismo europeo, derivanti in gran parte da privatizzazioni nel settore delle telecomunicazioni.
Deutsche Telekom, France Télécom e Tim sono gli esempi più evidenti; la spagnola Telefónica già era quotata in Borsa, come pure l'italiana Telecom Italia (con il nome di Stet), ed entrambe hanno visto la loro capitalizzazione di Borsa aumentare fortemente per effetto dell'apertura al mercato. Anch'esse appartengono al "blocco ex pubblico".
Il capitalismo di Eurolandia appare quindi dominato da una concentrazione che comprende tre elementi molto diversi tra loro. Tali elementi potrebbero, in certe circostanze, configurarsi, e dunque essere definiti, come "blocchi":
- il "blocco anglo-olandese" con Shell e Unilever, la cui importanza non deve mai essere sottovalutata per la natura sicuramente molto più aperta al resto del mondo tipica delle imprese che lo compongono, la visione globale che le caratterizza e l'estrema forza con cui sono in grado di affrontare i mercati;
- le concentrazioni bancario-assicurative che, nel breve elenco delle maggiori venti società, sfiorano i 300 mila milioni di dollari di capitalizzazione, con forti presenze tedesche, olandesi e francesi;
- il "blocco delle società di telecomunicazioni", il cui valore di mercato si aggira intorno ai 250-300 mila milioni di dollari e che deriva in buona parte da vecchie società pubbliche.
I veri "nuovi venuti" in questo ristretto club sono limitati alla finlandese Nokia e alla tedesca Mannesmann, due imprese che hanno dato prova di grandi capacità d'azione, muovendosi in campi del tutto nuovi, oppure ridefinendo i loro campi tradizionali con estremo coraggio.
Un capitalismo forte? In termini tradizionali, senz'altro sì. Un capitalismo dinamico, aperto, pronto a sfruttare le opportunità di mercato? Su questo, il giudizio è riservato. La concentrazione di settore e la storia di queste grandi aggregazioni, con un passato pubblico così prossimo, inducono a supporre che, pur essendosi conseguiti molti risultati in termini di apertura dei mercati, tantissimo resti ancora da fare in termini di mentalità, di strategie e di regolazioni. In modo particolare, un poco spaventa la presenza dei "blocchi" sopra indicati, tra i quali potrebbe persino intavolarsi un discorso di equilibri più diplomatici che di mercato.
In sostanza, potremmo molto rapidamente trovarci di fronte a una sorta di "direttorio", che rappresenterebbe la reinterpretazione di un modello burocratico-renano applicato all'intera Europa; il che potrebbe anche avere i suoi vantaggi in termini di stabilità sociale, ma lascia dubbi profondi sulla possibilità di competere in un orizzonte mondiale fortemente dinamico.
L'Europa dei mercati finanziari, insomma, presenta a nostro avviso relativamente molta finanza e relativamente poco mercato; oppure, il che è la stessa cosa, ha del mercato una visione un po' diversa da quella, estremamente dinamica, che caratterizza gli Stati Uniti. Può forse essere un bene, ma riteniamo che le salvaguardie istituzionali dei nuovi mercati debbano essere rafforzate, per evitare che, a livello stavolta dell'area dell'euro, si riproduca quell'ingessatura che aveva negativamente caratterizzato i singoli mercati nazionali.


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