Le briglie di Gulliver




Renato Dorfles, Giuliano Finardi, Ettore Manerba



L'Italia è un Paese trattenuto, legato, imbrigliato, o - se si preferisce una metafora di carattere marinaro - "imbozzato". E' oggi come Gulliver: forse non completamente immobilizzato, ma di sicuro fortemente limitato nei suoi movimenti. E allora, all'inizio del Duemila e dell'Unione monetaria europea, è ora di "sciogliere le briglie" alle enormi potenzialità che pure possiede questo Paese, di superare lacci legislativi e burocratici, strettoie culturali, farraginosità istituzionali, e di puntare con decisione su formazione, flessibilità e qualità. Su queste metafore e su queste sollecitazioni l'Eurispes ha imperniato il suo decimo Rapporto sull'Italia. La ricerca del team guidato dal sociologo Paolo De Nardis delinea una società italiana oscillante tra sei dicotomie:
progettazione-improvvisazione, autonomia-indipendenza, ordine-disordine, giovani-anziani, menzogna-verità, religiosità-secolarizzazione.
E ne indichiamo alcuni esempi, tra la miriade di quelli elencati nel Rapporto: a oltre due anni dall'incendio, non sono ancora iniziati i lavori per il teatro "La Fenice" di Venezia, mentre sul rogo del "Petruzzelli" di Bari (oltre quattro anni e mezzo fa) ormai incombono le ombre dell'oblio; in Friuli, per avviare una piccola centrale idroelettrica, ci sono voluti dieci anni e ben 130 autorizzazioni; per le norme sui trasferimenti il nostro ineffabile ministero della Pubblica Istruzione ha riempito ben 77 pagine, mentre ad Einstein ne bastarono 35 per illustrare la teoria sulla relatività.
E la ragnatela di bolli, autorizzazioni, controlli incrociati paralizzano cittadini e imprese che vogliono lavorare e competere correttamente, ma non riescono (non sanno, o non vogliono) a tamponare l'evasione fiscale (250 mila miliardi all'anno, calcola il Fondo Monetario Internazionale), l'abusivismo edilizio (207 mila case illegali negli ultimi quattro anni), il lavoro nero (su quasi dodicimila aziende ispezionate, ne sono state multate poco meno di ottomila), le attività criminali (che si aggiornano molto più rapidamente delle forze dell'ordine della Penisola), e neanche quel milieu delle contraffazioni che mettono l'Italia al secondo posto nel mondo, dopo Taiwan, nella fabbricazione di "patacche".
Il quadro, in sintesi:
- Lavoro sommerso. Il fenomeno è certo più vistoso nelle regioni meridionali, ma coinvolge tutte le regioni della penisola. Secondo l'Eurispes, l'anno scorso l'economia sommersa ha prodotto 530 mila miliardi; i lavoratori in nero sono stati oltre cinque milioni, tra i quali 300 mila minori e 250 mila clandestini.
- Lavoro temporaneo. Anche questo in fase di boom. L'Italia è diventato il Paese a quasi totali contratti di formazione, che coinvolgono i giovani (età media, 28 anni; paga media, circa 15 mila lire all'ora).
- Contraffazioni. E' tra le economie illegali che tirano di più, con un giro d'affari stimato in 5-7 mila miliardi l'anno. Il riciclaggio di medicinali scaduti è il settore più pericoloso; la pirateria informatica quello tecnologicamente più avanzato; le grandi griffes i prodotti più diffusi.
- Opere pubbliche. Sebbene dal '98 ci sia stata una ripresa, ci sono opere incompiute per 40 mila miliardi. Non per niente i terremotati delle Marche e dell'Umbria sono ancora in grandissima parte dentro i containers.
- Sprechi e ingiustizie. Ci sono in giro 20 mila auto blu di troppo, più duemila cellulari "fuorilegge", 700 miliardi l'anno di spese gonfiate per viaggi e trasferimenti, oltre 400 enti inutili e inaffondabili.
- Il mercato della psiche. Sono circa 30 mila gli operatori del settore psicoterapeutico, che costano 120 mila lire a seduta, con fortissime evasioni ed elusioni fiscali.
- Fisco. E' il Moloch che divora le energie delle persone oneste, a reddito fisso, con lavoro autonomo regolarmente denunciato, con redditi diversi trasparenti. Ebbene, fino al 22 giugno abbiamo lavorato per lui, per pagare tasse e contributi. Soltanto dalla mezzanotte tra il 22 e il 23 abbiamo cominciato a lavorare per noi e per la nostra famiglia. La corvée fiscale è durata ben 173 giorni. Il 47,3 per cento di quanto ha guadagnato il contribuente-tipo (impiegato, solo lavoratore in una famiglia di marito, moglie e un figlio, stipendio lordo annuo di 65 milioni) finisce nelle voraci casse di uno Stato che, in cambio, offre servizi da Terzo mondo e una burocrazia ottusa e in genere frustrata. Ebbene, tenendo conto che una giornata lavorativa è fatta di otto ore, pari a 480 minuti, per pagare le tasse previste attualmente un cittadino impiega quotidianamente 115 minuti per pagare l'Irpef, 40 per i contributi, 19 per le tasse auto, 25 per le tasse casa, 29 per le tasse consumi: in totale, 228 minuti. Può dedicare a se stesso e alla famiglia i residui 252 minuti, che tuttavia si assottigliano consistentemente ove si considerino i pagamenti delle tasse universitarie, sulla Tv, per la registrazione del contratto di locazione, et similia. Anche traducendo il conto nella nuova moneta unica, l'insostenibile pesantezza del fisco non resta appannata. Il contribuente medio che abbiamo preso in considerazione percepisce uno stipendio di circa 33.554 euro, mentre le tasse totali ammontano a 15.878 euro, che equivalgono a 30 milioni e 774 mila lire!


Di fronte a quest'Italia, c'è un'altra, quella fatta di tenacia nell'ingresso in Europa, di patto sociale, di missioni di pace delle nostre Forze Armate, di boom di cellulari, di Internet, di lavoro creativo, seppur temporaneo, di export qualità; e anche di impegni generosi per l'assistenza agli anziani e ai malati, di accoglienza di immigrati da risacche della storia e della violenza. E se il 60 per cento degli uomini tra i 25 e i 29 anni vive e dipende ancora in gran parte dalla famiglia (qualcuno ricorda 1'amoral familism, colossale idiozia di Banfield a proposito delle famiglie meridionali?), è anche vero che ci sono costanti sforzi di autonomia, visto che il 45 per cento delle giovani coppie possiede già una casa e cerca di garantirsi il futuro anche con le polizze.
Tra queste e altre vistose dicotomie, c'è tutta una zona grigia di comportamenti e movimenti che consentono comunque di sostenere un italico "eppur si muove!". E gli studiosi indicano le cinque sfide sulle quali si dovrà misurare nell'immediato futuro, (anzi, già nel presente), il sistema-Italia: l'ammodernamento della pubblica amministrazione; la riforma radicale del sistema di istruzione (negli ultimi cinque anni soltanto in Italia e in Turchia è diminuita la spesa in questo settore, rispetto al Prodotto interno lordo), puntando alla formazione continua; il fisco (riducendone la pressione, che per le imprese è attualmente di almeno cinque punti in più rispetto ad altri Paesi); l'immigrazione (anche per prosciugare il terreno delle organizzazioni criminali).
Eurispes non ha dubbi: si possono mettere le briglie a un ronzino, ma pretendere di metterle a un cavallo di razza, che scalpita e che ha voglia di correre, non è solo stupido, è addirittura delittuoso. Forse per questo si sta tentando di dare una (timidissima, per ora) risposta a una domanda finora inevasa, sull'ipotesi che sembra trasparire di una moratoria dello Statuto dei lavoratori nelle imprese minori, il che farebbe presagire la storica caduta di un altro tabù sindacale, come accadde negli anni Settanta con la scala mobile. Diversamente, assisteremmo all'ennesimo caso di dicotomia tra l'enfasi di annunci clamorosi e il permanere di una situazione che pare, ed è, da lungo tempo immutabile.
La componente economica della proposta avanzata alcuni mesi fa è la presa d'atto di una situazione sempre più chiara: soltanto dal mondo delle piccole e medie imprese possiamo aspettarci un'effettiva crescita dell'occupazione nei prossimi anni. Le imprese con meno di quindici dipendenti rappresentano già la metà del tessuto produttivo nazionale ed è in quest'area che più forti sembrano essere le dinamiche dello sviluppo, dell'innovazione e della specializzazione, tutti elementi cruciali per essere competitivi su scala internazionale. Ma è anche vero che su questo mondo incombono ora minacce serissime: innanzitutto, la piccola dimensione porta con sé fragilità (finanziarie, commerciali e organizzative) pericolose nell'attuale fase di globalizzazione e di rapida integrazione dei mercati; in secondo luogo, la piccola dimensione, per quanto creativa e innovativa, non è più un'esclusività italiana con la quale il Paese può farsi scudo. Perciò quelle imprese vanno fatte crescere, rimuovendo i vincoli normativi di natura sindacale, entro i quali altrimenti cadrebbero.
La seconda componente è il tentativo di compiere una grande opera di razionalizzazione nel campo del sociale. L'Italia vive una condizione di totale assenza di un "governo della flessibilità". E le piccole imprese sono l'esempio più limpido di questo "vuoto". Sono queste le imprese che stanno generando, lentamente ma inesorabilmente, un'enorme flessibilità spontanea del nostro mercato del lavoro, la cui opacità cela l'ipertrofia del sommerso e di molte altre storture. Sono queste le imprese che creano posti di lavoro quasi esclusivamente mediante forme contrattuali atipiche o comunque diverse dal contratto a tempo indeterminato. Sono queste le imprese che si muovono tra le pieghe di normative ostinatamente ispirate a vecchi modelli lavorativi in irreversibile declino. E' grazie a (o per colpa di) queste imprese che si è diffuso in modo abnorme il fenomeno dell'apprendistato e del sottoinquadramento, sino a trasformare il mercato italiano del lavoro in un gigantesco "contratto di formazione". Perciò serve un "governo della flessibilità" che ridia ordine a modalità caotiche e distorcenti, che attenui le iniquità, che faccia emergere il sommerso, che dia senso a ciò che oggi è "fuori norma". Fanno male i leader sindacali ad alzare un fuoco di sbarramento: chi entra oggi in modo anomalo nel mercato del lavoro, avrà domani più difficoltà a muoversi, a cambiare impiego, ad ottenere protezione sociale e a farsi tutelare sindacalmente.
La terza componente è politica. Siamo il Paese occidentale con il maggior numero di imprenditori. In Italia essi costituiscono una vera e propria classe sociale, un ceto vastissimo perennemente alla ricerca di una rappresentanza e persino di una leadership politica. Queste centinaia di migliaia di imprenditori rappresentano oggi, in virtù delle crescenti difficoltà che incontrano in Italia e nel mondo, un corpo elettorale confuso e inquieto, se non proprio allo sbando. Sarà un gran politico chi saprà cogliere concretamente questa opportunità, chi farà nei loro riguardi l'unica proposta capace di suscitare proseliti: poter crescere di dimensione, senza temere di restare stritolati nelle forche sindacali della normativa sul lavoro, degli oneri sociali che sul lavoro dipendente creano un peso insopportabile e della fiscalità che prosciuga i margini di profitto.
In cambio (obbligatorio), queste imprese dovranno far emergere il sommerso che è in loro. Se ne verrà nuova occupazione, per alcuni anni potranno godere di benefici che oggi sono preclusi. Questo, il patto accennato, o intravisto, in questa fase. Per sapere se si passerà dai sussurri alle grida, cioè dalle parole ai fatti, bisogna attendere. Troppe volte, infatti, si è rimasti delusi da idee rivoluzionarie, che non hanno nemmeno aperto uno straccio di dibattito degno di questo nome.


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