L'Italia è
un Paese trattenuto, legato, imbrigliato, o - se si preferisce una
metafora di carattere marinaro - "imbozzato". E' oggi come
Gulliver: forse non completamente immobilizzato, ma di sicuro fortemente
limitato nei suoi movimenti. E allora, all'inizio del Duemila e dell'Unione
monetaria europea, è ora di "sciogliere le briglie"
alle enormi potenzialità che pure possiede questo Paese, di
superare lacci legislativi e burocratici, strettoie culturali, farraginosità
istituzionali, e di puntare con decisione su formazione, flessibilità
e qualità. Su queste metafore e su queste sollecitazioni l'Eurispes
ha imperniato il suo decimo Rapporto sull'Italia. La ricerca del team
guidato dal sociologo Paolo De Nardis delinea una società italiana
oscillante tra sei dicotomie:
progettazione-improvvisazione, autonomia-indipendenza, ordine-disordine,
giovani-anziani, menzogna-verità, religiosità-secolarizzazione.
E ne indichiamo alcuni esempi, tra la miriade di quelli elencati nel
Rapporto: a oltre due anni dall'incendio, non sono ancora iniziati
i lavori per il teatro "La Fenice" di Venezia, mentre sul
rogo del "Petruzzelli" di Bari (oltre quattro anni e mezzo
fa) ormai incombono le ombre dell'oblio; in Friuli, per avviare una
piccola centrale idroelettrica, ci sono voluti dieci anni e ben 130
autorizzazioni; per le norme sui trasferimenti il nostro ineffabile
ministero della Pubblica Istruzione ha riempito ben 77 pagine, mentre
ad Einstein ne bastarono 35 per illustrare la teoria sulla relatività.
E la ragnatela di bolli, autorizzazioni, controlli incrociati paralizzano
cittadini e imprese che vogliono lavorare e competere correttamente,
ma non riescono (non sanno, o non vogliono) a tamponare l'evasione
fiscale (250 mila miliardi all'anno, calcola il Fondo Monetario Internazionale),
l'abusivismo edilizio (207 mila case illegali negli ultimi quattro
anni), il lavoro nero (su quasi dodicimila aziende ispezionate, ne
sono state multate poco meno di ottomila), le attività criminali
(che si aggiornano molto più rapidamente delle forze dell'ordine
della Penisola), e neanche quel milieu delle contraffazioni che mettono
l'Italia al secondo posto nel mondo, dopo Taiwan, nella fabbricazione
di "patacche".
Il quadro, in sintesi:
- Lavoro sommerso. Il fenomeno è certo più vistoso nelle
regioni meridionali, ma coinvolge tutte le regioni della penisola.
Secondo l'Eurispes, l'anno scorso l'economia sommersa ha prodotto
530 mila miliardi; i lavoratori in nero sono stati oltre cinque milioni,
tra i quali 300 mila minori e 250 mila clandestini.
- Lavoro temporaneo. Anche questo in fase di boom. L'Italia è
diventato il Paese a quasi totali contratti di formazione, che coinvolgono
i giovani (età media, 28 anni; paga media, circa 15 mila lire
all'ora).
- Contraffazioni. E' tra le economie illegali che tirano di più,
con un giro d'affari stimato in 5-7 mila miliardi l'anno. Il riciclaggio
di medicinali scaduti è il settore più pericoloso; la
pirateria informatica quello tecnologicamente più avanzato;
le grandi griffes i prodotti più diffusi.
- Opere pubbliche. Sebbene dal '98 ci sia stata una ripresa, ci sono
opere incompiute per 40 mila miliardi. Non per niente i terremotati
delle Marche e dell'Umbria sono ancora in grandissima parte dentro
i containers.
- Sprechi e ingiustizie. Ci sono in giro 20 mila auto blu di troppo,
più duemila cellulari "fuorilegge", 700 miliardi
l'anno di spese gonfiate per viaggi e trasferimenti, oltre 400 enti
inutili e inaffondabili.
- Il mercato della psiche. Sono circa 30 mila gli operatori del settore
psicoterapeutico, che costano 120 mila lire a seduta, con fortissime
evasioni ed elusioni fiscali.
- Fisco. E' il Moloch che divora le energie delle persone oneste,
a reddito fisso, con lavoro autonomo regolarmente denunciato, con
redditi diversi trasparenti. Ebbene, fino al 22 giugno abbiamo lavorato
per lui, per pagare tasse e contributi. Soltanto dalla mezzanotte
tra il 22 e il 23 abbiamo cominciato a lavorare per noi e per la nostra
famiglia. La corvée fiscale è durata ben 173 giorni.
Il 47,3 per cento di quanto ha guadagnato il contribuente-tipo (impiegato,
solo lavoratore in una famiglia di marito, moglie e un figlio, stipendio
lordo annuo di 65 milioni) finisce nelle voraci casse di uno Stato
che, in cambio, offre servizi da Terzo mondo e una burocrazia ottusa
e in genere frustrata. Ebbene, tenendo conto che una giornata lavorativa
è fatta di otto ore, pari a 480 minuti, per pagare le tasse
previste attualmente un cittadino impiega quotidianamente 115 minuti
per pagare l'Irpef, 40 per i contributi, 19 per le tasse auto, 25
per le tasse casa, 29 per le tasse consumi: in totale, 228 minuti.
Può dedicare a se stesso e alla famiglia i residui 252 minuti,
che tuttavia si assottigliano consistentemente ove si considerino
i pagamenti delle tasse universitarie, sulla Tv, per la registrazione
del contratto di locazione, et similia. Anche traducendo il conto
nella nuova moneta unica, l'insostenibile pesantezza del fisco non
resta appannata. Il contribuente medio che abbiamo preso in considerazione
percepisce uno stipendio di circa 33.554 euro, mentre le tasse totali
ammontano a 15.878 euro, che equivalgono a 30 milioni e 774 mila lire!

Di fronte a quest'Italia, c'è un'altra, quella fatta di tenacia
nell'ingresso in Europa, di patto sociale, di missioni di pace delle
nostre Forze Armate, di boom di cellulari, di Internet, di lavoro
creativo, seppur temporaneo, di export qualità; e anche di
impegni generosi per l'assistenza agli anziani e ai malati, di accoglienza
di immigrati da risacche della storia e della violenza. E se il 60
per cento degli uomini tra i 25 e i 29 anni vive e dipende ancora
in gran parte dalla famiglia (qualcuno ricorda 1'amoral familism,
colossale idiozia di Banfield a proposito delle famiglie meridionali?),
è anche vero che ci sono costanti sforzi di autonomia, visto
che il 45 per cento delle giovani coppie possiede già una casa
e cerca di garantirsi il futuro anche con le polizze.
Tra queste e altre vistose dicotomie, c'è tutta una zona grigia
di comportamenti e movimenti che consentono comunque di sostenere
un italico "eppur si muove!". E gli studiosi indicano le
cinque sfide sulle quali si dovrà misurare nell'immediato futuro,
(anzi, già nel presente), il sistema-Italia: l'ammodernamento
della pubblica amministrazione; la riforma radicale del sistema di
istruzione (negli ultimi cinque anni soltanto in Italia e in Turchia
è diminuita la spesa in questo settore, rispetto al Prodotto
interno lordo), puntando alla formazione continua; il fisco (riducendone
la pressione, che per le imprese è attualmente di almeno cinque
punti in più rispetto ad altri Paesi); l'immigrazione (anche
per prosciugare il terreno delle organizzazioni criminali).
Eurispes non ha dubbi: si possono mettere le briglie a un ronzino,
ma pretendere di metterle a un cavallo di razza, che scalpita e che
ha voglia di correre, non è solo stupido, è addirittura
delittuoso. Forse per questo si sta tentando di dare una (timidissima,
per ora) risposta a una domanda finora inevasa, sull'ipotesi che sembra
trasparire di una moratoria dello Statuto dei lavoratori nelle imprese
minori, il che farebbe presagire la storica caduta di un altro tabù
sindacale, come accadde negli anni Settanta con la scala mobile. Diversamente,
assisteremmo all'ennesimo caso di dicotomia tra l'enfasi di annunci
clamorosi e il permanere di una situazione che pare, ed è,
da lungo tempo immutabile.
La componente economica della proposta avanzata alcuni mesi fa è
la presa d'atto di una situazione sempre più chiara: soltanto
dal mondo delle piccole e medie imprese possiamo aspettarci un'effettiva
crescita dell'occupazione nei prossimi anni. Le imprese con meno di
quindici dipendenti rappresentano già la metà del tessuto
produttivo nazionale ed è in quest'area che più forti
sembrano essere le dinamiche dello sviluppo, dell'innovazione e della
specializzazione, tutti elementi cruciali per essere competitivi su
scala internazionale. Ma è anche vero che su questo mondo incombono
ora minacce serissime: innanzitutto, la piccola dimensione porta con
sé fragilità (finanziarie, commerciali e organizzative)
pericolose nell'attuale fase di globalizzazione e di rapida integrazione
dei mercati; in secondo luogo, la piccola dimensione, per quanto creativa
e innovativa, non è più un'esclusività italiana
con la quale il Paese può farsi scudo. Perciò quelle
imprese vanno fatte crescere, rimuovendo i vincoli normativi di natura
sindacale, entro i quali altrimenti cadrebbero.
La seconda componente è il tentativo di compiere una grande
opera di razionalizzazione nel campo del sociale. L'Italia vive una
condizione di totale assenza di un "governo della flessibilità".
E le piccole imprese sono l'esempio più limpido di questo "vuoto".
Sono queste le imprese che stanno generando, lentamente ma inesorabilmente,
un'enorme flessibilità spontanea del nostro mercato del lavoro,
la cui opacità cela l'ipertrofia del sommerso e di molte altre
storture. Sono queste le imprese che creano posti di lavoro quasi
esclusivamente mediante forme contrattuali atipiche o comunque diverse
dal contratto a tempo indeterminato. Sono queste le imprese che si
muovono tra le pieghe di normative ostinatamente ispirate a vecchi
modelli lavorativi in irreversibile declino. E' grazie a (o per colpa
di) queste imprese che si è diffuso in modo abnorme il fenomeno
dell'apprendistato e del sottoinquadramento, sino a trasformare il
mercato italiano del lavoro in un gigantesco "contratto di formazione".
Perciò serve un "governo della flessibilità"
che ridia ordine a modalità caotiche e distorcenti, che attenui
le iniquità, che faccia emergere il sommerso, che dia senso
a ciò che oggi è "fuori norma". Fanno male
i leader sindacali ad alzare un fuoco di sbarramento: chi entra oggi
in modo anomalo nel mercato del lavoro, avrà domani più
difficoltà a muoversi, a cambiare impiego, ad ottenere protezione
sociale e a farsi tutelare sindacalmente.
La terza componente è politica. Siamo il Paese occidentale
con il maggior numero di imprenditori. In Italia essi costituiscono
una vera e propria classe sociale, un ceto vastissimo perennemente
alla ricerca di una rappresentanza e persino di una leadership politica.
Queste centinaia di migliaia di imprenditori rappresentano oggi, in
virtù delle crescenti difficoltà che incontrano in Italia
e nel mondo, un corpo elettorale confuso e inquieto, se non proprio
allo sbando. Sarà un gran politico chi saprà cogliere
concretamente questa opportunità, chi farà nei loro
riguardi l'unica proposta capace di suscitare proseliti: poter crescere
di dimensione, senza temere di restare stritolati nelle forche sindacali
della normativa sul lavoro, degli oneri sociali che sul lavoro dipendente
creano un peso insopportabile e della fiscalità che prosciuga
i margini di profitto.
In cambio (obbligatorio), queste imprese dovranno far emergere il
sommerso che è in loro. Se ne verrà nuova occupazione,
per alcuni anni potranno godere di benefici che oggi sono preclusi.
Questo, il patto accennato, o intravisto, in questa fase. Per sapere
se si passerà dai sussurri alle grida, cioè dalle parole
ai fatti, bisogna attendere. Troppe volte, infatti, si è rimasti
delusi da idee rivoluzionarie, che non hanno nemmeno aperto uno straccio
di dibattito degno di questo nome.
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