Mala tempora




Sergio Modigliani



Di che cosa il Sud abbia bisogno tutti sanno: di sicurezza pubblica che restauri legalità e controllo del territorio e di uno sviluppo economico che dia slancio alle imprese capaci di affermarsi sui mercati nazionali ed esteri e di combattere la disoccupazione. Con i 120 mila miliardi che il governo si propone di investire nei prossimi anni, attingendo ai fondi comunitari, quest'ultimo obiettivo potrebbe essere raggiunto. E' quanto scrive uno degli ultimi, grandi meridionalisti in servizio permanente attivo, Giovanni Russo, il quale ritiene che sia un fatto positivo che si sia cominciato ad elaborare un piano globale che dovrebbe nascere da un fruttuoso confronto tra enti locali, imprenditori, sindacati, altre parti sociali e amministrazione centrale dello Stato. Si tratta di un programma ambizioso, e tutt'altro che facile da realizzare, "che dimostra come esista il proposito di creare una struttura in grado di presentare progetti che riescano ad essere approvati dalla Comunità europea e ad ottenere tempestivamente i finanziamenti. La sensazione è che si è solo all'inizio di un processo di cui non s'intravede chiaramente quale sia lo sbocco".
Il coacervo di proposte è raccolto in 666 pagine del libro del ministero del Tesoro dal titolo "Cento idee per il Sud", un volume fin troppo carico di proposte e di suggerimenti, che danno il capogiro e talora insinuano un sentimento di sgomento. Sarà mai possibile - ci si chiede - realizzare un programma così vasto; e come saranno conciliati i contrastanti interessi, le eredità del passato con le esigenze del futuro, le buone intenzioni con le inefficienze della burocrazia e con le insidie ancora forti dei collegamenti fra clientelismo politico e criminalità organizzata?
Sia dal documento ministeriale che dai resoconti dei convegni e dei dibattiti che ne sono seguiti non ci sono state risposte a questi interrogativi. E' anche possibile riconoscere che era prematuro aspettarsele, ma è altrettanto giusto far presente che occorrerà al più presto sapere quali saranno e come saranno fatte le future scelte. Chi conosce la storia delle vicende degli interventi straordinari nel Mezzogiorno in questo dopoguerra, infatti, può dar voce a non pochi ragionevoli dubbi.
Facciamo alcuni esempi. A quali opere pubbliche occorrerà dare la priorità? Molte sono rimaste incompiute, ed erano il frutto della vecchia politica clientelare. Si avrà il coraggio di abbandonarle? Quali sono i progetti per dare efficienza e possibilità di irraggiarsi nell'ambiente al volano del progresso moderno che sono le Università? La classe dirigente nazionale e locale avrà la capacità di rovesciare finalmente la tendenza a sottovalutare il ruolo della grande tradizione culturale che, come ammoniva Benedetto Croce, ha rappresentato il principale contributo del Mezzogiorno alla storia d'Italia?
E ancora. Non si corre il rischio di rinnovare la politica dei lavori pubblici che dagli inizi del Novecento ci si è illusi che fosse la panacea dei meli del Sud? Con quali criteri saranno attirati i partner privati, e quali possibilità concrete avranno costoro di partecipare attivamente, e con profitto reciproco, allo sviluppo delle regioni meridionali? Da oltre trent'anni il raddoppio della Salerno-Reggio Calabria è quasi un luogo comune: ci si aspetterebbe quindi di sapere se non debba trattarsi invece di correggere i difetti di un'autostrada mal costruita e poco frequentata e di puntare anche in alternativa sull'indispensabile potenziamento delle ferrovie, degli aeroporti e di quelle "autostrade del mare" che facciano rinascere il piccolo cabotaggio. L'Agenzia Sviluppo Italia sarà la somma dei fallimentari enti dipendenti della vecchia Cassa per il Mezzogiorno, oppure un vero motore di rinnovamento? I contratti d'area e i patti territoriali rappresenteranno una frattura con la pseudo-industrializzazione che ha seminato, fino a ieri soltanto, di capannoni e di sprechi il Mezzogiorno, o si faranno resuscitare, come alcuni segnali già denotano, i cimiteri delle industrie fasulle, grazie alle quali lo Stato ha assistito più il Nord che il Sud? Quali saranno i compiti delle istituzioni locali rispetto a quelle centrali? E quale il ruolo dei sindaci, rispetto alle Regioni e allo Stato centrale?
La posta in gioco è enorme, riguarda gli stanziamenti per favorire una maggior crescita nelle aree meno sviluppate dei 15 Paesi tra il 2000 e il 2006. Il dato di partenza è la riforma dei fondi strutturali presentata dalla Commissione europea nel marzo '98. I fondi strutturali sono lo strumento attraverso il quale l'Unione europea mette a disposizione di quelle aree risorse per finanziare progetti di investimento, la cui appetibilità è enormemente cresciuta da quando l'Ue ha deciso di avviare la procedura di allargamento a sei nuovi Paesi, in prevalenza dell'Europa orientale: Estonia, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Cipro.
Il Trattato di Maastricht, partendo dalla prospettiva dell'introduzione della moneta unica, si preoccupa di individuare il modo di compensare la perdita della leva del cambio nei Paesi caratterizzati da una maggiore estensione delle aree meno sviluppate. Ad essi, infatti, per colmare il divario di competitività che li separa dagli altri Paesi dell'Unione, non resterebbe che attuare politiche di differenziazione salariale, la cui praticabilità non è proprio scontata. L'alternativa consiste, dunque, in un rafforzamento delle politiche di coesione che porti a un veloce incremento della produttività nelle aree arretrate attraverso l'aumento delle dotazioni infrastrutturali e degli investimenti privati.
L'esperienza del primo ciclo di programmazione (1994-99) ha consigliato una maggiore concentrazione degli strumenti di sostegno sulle aree più arretrate per accelerarne la convergenza. Nel progetto della Commissione si punta pertanto a ridurre dal 51 al 35-40 per cento la quota della popolazione Ue che beneficia dei fondi strutturali. Per raggiungere questo obiettivo, si dovrà applicare rigidamente il criterio-base che già oggi permette di definire quali sono le aree in ritardo di sviluppo: prodotto interno lordo per abitante inferiore al 75 per cento della media europea. Questo effetto statistico porterà quasi sicuramente, per quel che riguarda il nostro Paese, all'esclusione del Molise dai benefici dei fondi strutturali, dopo quella recente dell'Abruzzo, mentre per la Puglia e la Sardegna (e forse anche per la Basilicata) ci si avvicina significativamente alla soglia critica.
Un altro fattore minaccia il futuro del Mezzogiorno d'Italia. I governi dei 15 Paesi Ue hanno sottoscritto un impegno a favorire l'ingresso nell'Unione dei sei Paesi candidati entro sei-sette anni. E' una scelta più politica che economica, in quanto il divario che separa gli Stati dell'Europa orientale da quelli, compresi i meno sviluppati, dell'Ue è ancora assai ampio. Se la media dei 15 Ue è uguale a l00, il pil per abitante è pari a 59 in Slovenia, a 55 nella Repubblica Ceca, a 37 in Ungheria, a 31 in Polonia e addirittura a 23 in Estonia. Lo stesso indicatore è pari a 65 per la Grecia e, secondo calcoli della Svimez, a 68 per il Sud d'Italia. Per colmare questo divario, l'Unione europea si è impegnata a contribuire al finanziamento delle politiche di preadesione dei sei Paesi candidati.
Ebbene, questa situazione è allarmante per vari motivi. Al recente vertice di Vienna dei capi di governo Ue è emerso chiaramente che il problema dell'allargamento rischia di diventare un pericoloso motivo di attrito tra i Paesi membri. Da un lato, infatti, la Germania sostiene l'opportunità di un'estensione ad Est dei confini dell'Unione per motivi prevalentemente politici (sicurezza nazionale) ma anche economici (stretti rapporti commerciali di Berlino con quella che si sta trasformando in una gigantesca area del marco tedesco). Dall'altro, i Paesi mediterranei stanno valutando con apprensione la possibilità che il baricentro della politica di coesione dell'Unione europea si sposti eccessivamente verso Oriente, aggiungendo allo sbilancio, o squilibrio Nord Sud, anche quello Ovest Est.
Un ulteriore elemento di discordia consiste nella "qualità" degli investimenti per i quali si chiede il finanziamento. Se, infatti, in Grecia, o in Portogallo, o nei sei Paesi di prossima aggregazione si registra un tessuto infrastrutturale e produttivo mediamente basso, o al più di livello medio, per Italia e Spagna il discorso è molto diverso: in questi Paesi, esistono infrastrutture, strutture, tecnologie e centri di produzione anche avanzatissimi, e pertanto tipi di progetti e modi di finanziamento, si voglia oppure no, devono rappresentare un livello qualitativo di alto profilo, tale comunque da eliminare, e non da accentuare gli squilibri tra aree interne ricche e aree interne arretrate: ciò soltanto impedirà che i divari endogeni si perpetuino e che i problemi restino, aggiornati e aggravati.
Il Sud d'Italia, in particolare, essendo il retroterra in bilico della quinta o sesta potenza economica mondiale, sente particolarmente sulla propria pelle il peso di questa situazione e i rischi in prospettiva. Teme soprattutto che Roma continui - come del resto le capitali regionali italiane - a perdersi dietro le risse teologiche della bassa politica e del tornaconto di parte, abbandonando ancora una volta il dibattito sulle cose, sui problemi, sulle soluzioni pragmatiche che altrove (in Irlanda, in Spagna) sono state privilegiate su tutto. Saranno sempre mala tempora per il Sud?


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