DA ROBESPIERRE A MARX




a.b.



Credo che molti lettori resteranno (spiacevolmente) sorpresi, leggendo i testi sulla Rivoluzione francese e su quella napoletana, l'una e l'altra "rilette" in chiave post-89, cioè post-1989, e dunque dopo la caduta del Muro berlinese e in clima di più o meno parziali o generali globalizzazioni. Non è stata tanto l'idiosincrasia mia e dell'amico Franco Cuomo per i "miti" artificiali a spingerci a scrivere quel che abbiamo scritto, quanto la constatazione che, a più di due secoli dalla sua traumatica irruzione nella storia, il giacobinismo continua ad essere per gli storici un grande enigma: questa, in sostanza, era stata la conclusione cui era pervenuto diciassette anni fa François Furet. Lo storico aveva formulato con un'espressione efficace il progetto fondamentale dal quale scaturisce l'enigma giacobino: "Fondare la libertà con mezzi contrari alla libertà". E per questo si è parlato della Rivoluzione francese (e delle altre che essa ispirò) come di un "paralogismo in marcia", nella convinzione che non si potesse comprendere molto delle convulsioni del XX secolo se non si gettava un fascio di luce su di esso.
In effetti, tale paralogismo si trova tale e quale nella teoria e nella prassi dei regimi comunisti. Il marxismo-leninismo non è stato altro, al fondo, che un giacobinismo che ha avuto successo, un giacobinismo che si è istituzionalizzato ed è diventato tradizione culturale. Non a caso il 22 febbraio 1848 Marx ed Engels osservavano compiaciuti: "Nella storia ci sono analogie sorprendenti. Il giacobinismo del 1793 è diventato il comunismo dei nostri giorni". Ma si trattava di qualcosa di più di un'analogia, quella di cui parlavano i padri del socialismo scientifico: era una sostanziale identità spirituale ciò che legava il giacobinismo del XVIII secolo al marxismo-leninismo del XIX secolo. Di ciò era lucidamente consapevole Lenin quando definiva formalmente il rivoluzionario di professione "un giacobino, legato indissolubilmente all'organizzazione del proletariato, consapevole dei propri interessi di classe", e quando interpretava il conflitto fra bolscevichi e menscevichi come una riedizione del conflitto fra giacobini e girondini.
Identico il giudizio di Rosa Luxemburg e del giovane Trotzky, sia pure di segno rovesciato: per costoro il bolscevismo non era altro che un "avatar" della mentalità giacobina, un aggressivo ritorno alla concezione manichea della rivoluzione, che essi consideravano una pericolosa minaccia per la libertà. E perfino Gramsci vedeva nel giacobinismo un "messianesimo politico" e riteneva che il suo Progetto fondamentale (creare, contro la democrazia borghese, puramente formale e classista, la democrazia sostanziale, concepita come "un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto") aveva trovato nel bolscevismo il suo continuatore storico.
Di fronte a questi autorevolissimi giudizi, si può senza dubbio affermare che Jacob Talmon aveva ragione nel vedere nella Rivoluzione francese lo scontro fra due concezioni della democrazia: quella liberale e quella totalitaria. Per la prima, la politica è la pratica della composizione dei conflitti basata sul compromesso; per la seconda, la politica è "l'arte alchimistica" della ricomposizione unitaria della società per estirpare le radici dei conflitti e per creare la Grande Armonia Universale.
C'è di più. Lo scontro politico-ideologico fra giacobinismo e girondinismo è anche e soprattutto lo scontro fra due mentalità, fra due visioni del mondo antitetiche e inconciliabili: il messianesimo e l'illuminismo, cioé la tradizione di pensiero giudaico-cristiana interpretata in senso millenaristico e la tradizione di pensiero greco-romana interpretata in senso liberale. Lo aveva intuito Carlo Rosselli; e oggi, grazie agli studi di Muhlmann, di Monnerot, di Albert, di Topitsch e altri, possediamo le chiavi di lettura per decifrare il senso della guerra ideologica che ha lacerato la civiltà occidentale.
Alla luce di questi studi, la Rivoluzione francese (come, del resto, quella inglese o quella russa) non ci appare più come un blocco monolitico, come pretendeva la storiografia del secolo scorso, ma come una sorta di Giano bifronte: liberale e totalitaria nello stesso tempo, poiché dominata da due modelli di società in rotta di collisione: il modello girondino della società aperta e il modello giacobino della società chiusa.
Certo, dall'ideologia giacobina qualcosa di molto importante è passato nella cultura liberal-democratica e socialdemocratica: per esempio, l'idea della giustizia sociale concepita come "progetto egualitario". Sicché si può e si deve dire che l'uomo della Città democratica oggi non può non essere in qualche modo un giacobino, proprio perché furono i giacobini a formulare l'esigenza di allargare il perimetro borghese della democrazia liberale, dando ai non abbienti i mezzi per esercitare concretamente le libertà.
E tuttavia, un abisso separa la mentalità giacobina dalla cultura pluralista. I giacobini erano profondamente illiberali. E lo erano in quanto concepivano la giusta società all'interno di una concezione gnostico-manichea della storia. "Prima grandi catastrofi, poi la felicità universale": questo aforisma di Saint-Just, l'arcangelo del terrore, fu la divisa della rivoluzione giacobina. Donde la teoria del "dispotismo della libertà" che successivamente sarebbe stata tenuta a battesimo da Marx col nome di "dittatura del proletariato" e da Gramsci con quello di "egemonia operaia".
L'idea di fondo è che per estirpare le radici della "corruzione generale" occorra un regime di transizione basato sul terrore e sulla centralizzazione assoluta del potere nelle mani dell'avanguardia cosciente. Ed è proprio questa l'essenza del totalitarismo rivoluzionario: l'idea che il mondo va purificato conducendo una spietata guerra contro i borghesi e quindi militarizzando tutto: l'economia, la politica, la cultura, la scienza... Insomma (per dirla con Lukàcs, il gesuita della rivoluzione), il progetto giacobino si basa sull'assunto che "per scacciare Satana dal mondo si deve ricorrere a Belzebù".
E poiché questa ipotesi metafisica ("la vittoria della Luce per mezzo del Male e della Tenebra" profetizzata da Berdjaev) è alla base della più grande rivoluzione del XX secolo, si comprende agevolmente perché è necessario concentrare l'attenzione sulla teoria e sulla prassi di Robespierre e di Saint-Just: in esse ci sono le chiavi per leggere la storia della Rivoluzione francese, ma anche partenopea (condotta da una borghesia che aveva in sé due contraddizioni, essendo alta borghesia giacobina e intellettuale), e per interpretare correttamente la storia del XX secolo e la stessa attualità cui siamo, e siamo appena stati coinvolti. Nel 1989.


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