IL MERIDIONE NEL CINEMA ITALIANO DEGLI ANNI '60




Giuseppe Gubitosi
Docente di Storia della Comunicazione di massa - Univ. di Perugia



Negli anni Sessanta tutta la cultura italiana subì una sorta di irrigidimento. Ciò fu dovuto a diversi fattori, ma il principale fra questi fu il parallelo irrigidimento del confronto politico. Quel che fu importante a questo fine fu la stanchezza che gli intellettuali italiani manifestarono nei confronti della Democrazia Cristiana, considerata una sorta di baluardo insormontabile che impediva la trasformazione e l'ammodernamento del sistema politico. Inoltre, sulla base di criteri di valutazione marxisti, o fatti passare per tali, si procedette a una sorta di identificazione tra sistema politico e sistema economico, per cui si finì per parlare indifferentemente di capitalismo e del sistema politico imperniato sulla democrazia cristiana.
Ne fece le spese la cultura liberale. In particolare, lo storico Rosario Romeo. Questi aveva pubblicato nel 1959 Risorgimento e capitalismo, un libro nel quale sottoponeva a critica l'analisi gramsciana del Risorgimento come "rivoluzione incompiuta". Era stato pertanto preso di mira dai numerosi seguaci di Gramsci, per cui negli anni '60 dovette fronteggiare le polemiche alle quali quel libro aveva dato luogo con diversi interventi apparsi sulla rivista napoletana di Francesco Compagna Nord e Sud. Eppure Romeo non aveva fatto altro che sostenere che la scelta di dare la precedenza al Nord come parte del territorio italiano in cui erano localizzate le iniziative capitalistiche suscettibili di maggiore sviluppo era stata adottata oculatamente. Romeo non si nascondeva affatto che in questo modo il destino del Mezzogiorno era stato momentaneamente sacrificato, ma era anche convinto che per l'Italia quella rappresentata dal Risorgimento era l'ultima occasione per cogliere l'appuntamento con la modernità. Ciò, secondo Romeo, sarebbe stato impedito dalla "rivoluzione agraria", di cui aveva parlato Gramsci:

Una volta liquidato dalla rivoluzione contadina il più progredito capitalismo agrario, e nella generale debolezza di quello industriale e mobiliare, il Paese avrebbe subito un colpo d'arresto nella sua evoluzione a Paese moderno, e non solo nella vita economica, ma in genere dei rapporti civili e sociali (R. Romeo, La storiorafia marxista nel secondo dopoguerra, in R. Romeo, L'Italia liberale. Sviluppo e contraddizioni, Milano 1987, p. 122).

D'altra parte, ha osservato Romeo, è vero che la Destra ha esercitato una sorta di "dittatura", ma è anche vero che, proprio attraverso essa e attraverso l'accentramento, "istituzioni e costumi di tipo moderno penetrarono nella vita meridionale", per cui nel Mezzogiorno la ""dittatura" della Destra ebbe [ ... ] significato largamente progressivo e innovatore" (R. Romeo, Stato e società prima e dopo l'unificazione, in R. Romeo, L'Italia liberale. Sviluppo e contraddizioni, cit., p. 65).
Dalle motivazioni che indussero ad opporsi al liberalismo di Rosario Romeo, derivò l'irrigidimento per cui la questione meridionale apparve come una questione che non si poteva sperare di risolvere qualora l'Italia fosse rimasta un Paese capitalistico. Solo la possibilità, allora ritenuta aperta, d'una rivoluzione anticapitalistica avrebbe potuto ingenerare qualche speranza di superare la questione meridionale. In caso contrario il Mezzogiorno era destinato a rimanere un'area arretrata e i meridionali degli incivili. Certo ci si opponeva a chi riconduceva l'arretratezza del Sud a fattori antropologici, tuttavia quello dei meridionali appariva ugualmente immodificabilmente un destino di scarsa civiltà. A meno che non si fossero modificati i parametri generali dello sviluppo economico, il che sarebbe potuto avvenire solo grazie a una rivoluzione che eliminasse il vituperato capitalismo, come aveva dimostrato, proprio negli anni '60, il fallimento del tentativo di pianificazione portato avanti da Antonio Giolitti, che aveva tentato di modificare quei parametri.
Sotto questo profilo è molto interessante la vicenda del gruppo di studio Antonio Gramsci di Napoli, narrata nel libro di Ermanno Rea, Mistero napoletano, edito nel 1995. Secondo questo racconto, negli anni '50 il Partito comunista, e, in particolare, Giorgio Amendola esercitarono una massiccia pressione per mettere a tacere la voce di Guido Piegari e degli altri animatori del gruppo di studio Antonio Gramsci, fondato a Napoli. Ciò che Amendola e il PCI non accettavano dell'impostazione di Piegari era la sostanziale identificazione dei problemi dei meridionali con quelli di tutta l'Italia. Lo stesso Piegari, secondo Rea, aveva cercato di dimostrarlo in un lungo articolo-saggio che scrisse per Rinascita e che non fu mai pubblicato:

La questione che ha in questo periodo una importanza preminente per i comunisti, il movimento operaio e i popoli di ogni parte del mondo, è la questione della guerra e della pace - scriveva Piegari nel 1952 -. Non vi è alcun'altra questione, in questo periodo, che abbia una importanza preminente rispetto a questa (Questo brano dell'articolo di Guido Piegari si può vedere in E. Rea, Mistero napoletano, Torino 1995, pp. 278-279).

Pertanto, secondo Guido Piegari, non si comprendeva perché la lotta per la pace fosse "la lotta più importante a Milano, a Torino e a Roma, mentre nel Mezzogiorno [fosse] più importante la lotta per la rinascita meridionale" (Cfr. ivi, p. 279). La ragione per cui Piegari si oppose ad Amendola e lottò contro di lui, ma fu sconfitto, era dunque nel fatto che il Partito comunista riduceva la questione meridionale a una questione locale. Insomma, secondo Piegari, il Partito confinava la questione meridionale in una prospettiva locale.
Sul piano cinematografico questa impostazione diede luogo ad una sorta di visione catastrofica e senza speranza della condizione dei meridionali. In un saggio apparso su Mondo Operaio nel 1962, per esempio, Pio Baldelli, un importante critico cinematografico militante nel "movimento operaio", a proposito di Il Brigante di Renato Castellani, da noi esaminato in un altro articolo, scrisse che il film metteva in evidenza "la persistenza del dominio di classe dentro il variare dei regimi politici" (P. Baldelli, La battaglia politica del Sud nelle immagini del cinema italiano, in Mondo Operaio, luglio 1962, p. 24). Certo, Baldelli rimproverava a Castellani la confusione ideologica:

Quando compare? - si chiedeva Baldelli riferendosi a questa confusione - Quando il regista immagina la massa contadina come un agglomerato inerte, priva di ogni iniziativa politica, capace di muoversi solo quando qualche demiurgo, qualche eroe-protagonista le depone in grembo l'uovo di pasqua [sic] delle proprie invenzioni; senza questo capo l'eroico", la massa permane inerte, pavida, idiota. (Ivi, p. 25).

Ma poi, sul piano propositivo non faceva null'altro che contrapporre alla visione della rivolta contadina proposta da Castellani una visione che egli poi non si preoccupava di dimostrare e dichiarava:

La massa contadina meridionale ebbe a partecipare all'invasione delle terre in maniera viva e matura. (Ivi, p. 26).

A Baldelli piacque invece Salvatore Giuliano di Francesco Rosi (1961). Eppure fu proprio Rosi, in un'intervista della quale Baldelli riporta ampi stralci, a mostrare la Sicilia come profondamente diversa dal resto dell'Italia:

La Sicilia, dove ti sembra davvero di vivere in un'altra civiltà, in un altro mondo. (Ivi, p. 32).

Da questa impostazione derivò una serie di film nei quali il meridionale appariva costruito come uno stereotipo.
Si pensi a Divorzio all'italiana (1961), nel quale Germi parla certo di una questione che interessa tutta l'Italia, ma colloca la sua vicenda in Sicilia. Per ragioni che il regista non spiega la gelosia ha in Sicilia profonde radici e pertanto legittima il delitto d'onore. Si pensi all'episodio napoletano di Ieri, oggi, domani (1963), nel quale quel grande regista che pure era De Sica non si preoccupa affatto di dare spiegazioni: fare molti figli è per i napoletani un segno di distinzione e nello stesso tempo uno strumento per ostacolare la legge. E' così e non c'è nulla da dire di più, se non mostrare lo svolgimento degli eventi nei quali ciò appare in modo eclatante. Ma si pensi anche ai numerosi film sulla mafia che apparvero negli anni '60, come Il giorno della civetta (1967) di Damiano Damiani o Il clan dei siciliani (1969) di Henri Verneuil, nei quali la mafia appare come un fenomeno peculiare della Sicilia. Anche in Un uomo da bruciare dei fratelli Taviani e di Valentino Orsini, un film del 1962, il protagonista, Salvatore, che è un organizzatore sindacale siciliano, finisce per soccombere nella impari lotta alla mafia. Il film si chiude con il corteo che accompagna la bara di Salvatore, coperta di bandiere rosse, ma questa conclusione ha il sapore d'una affermazione del tutto priva di supporti dimostrativi.
Sotto questo profilo è particolarmente interessante il film di Alberto Lattuada Mafioso, del 1962, uno dei pochi film nei quali Alberto Sordi interpreta un personaggio meridionale.
Il film contiene tutti gli elementi che fanno del siciliano e del mafioso uno stereotipo. Dall'attaccamento ai benefattori, ovvero a coloro che gli hanno assicurato un futuro, all'amore per la propria terra, la cui aria viene considerata come più salubre del resto d'Italia, dal sentirsi diverso dagli italiani del Nord, che identificano il siciliano con il mafioso, al sentire la Sicilia come staccata e quindi separata dal resto d'Italia, Nino Badalamenti, il personaggio principale del film, è un siciliano e tale si sente sempre, anche se vive sul continente:

Quella la mia signora è. - dice Nino ai giovani siciliani che, ammalati di gallismo, guardano sua moglie Marta in bikini - E che maniera è questa! Io vivo a Milano, ma siciliano sono.

Antonio Badalamenti, che i milanesi chiamano col suo nome, mentre i siciliani lo chiamano Nino, è talmente siciliano che conserva tutte intere le sue caratteristiche antropologiche, anche se è vissuto a lungo a Milano, Dietro l'immagine del tecnico moderno, ligio al dovere e rispettoso del mansionario, si nasconde un siciliano fedele, pronto a dare tutto per la mafia, per gli amici. Un vero "picciotto d'onore", insomma, che non dimentica di essere stato beneficato dal capo-mafia del suo paese, don Vicienzo, e conserva per lui una riconoscenza che è sempre pronto a dimostrare con i fatti. Per esempio correndo da don Vicienzo non appena questi lo fa chiamare:

Per me prima viene mio padre e mia madre e subito dopo don Vicienzo. - dice Nino - Anzi, tutt'insieme vengono.

Tanto che si mette una "coppola", il cappello tradizionale dei siciliani, considerato una sorta di distintivo degli "uomini d'onore", non appena l'uomo di fiducia di don Vicienzo, Liborio, gliene procura una. E per convincerlo ad uccidere don Vicienzo non deve fare null'altro che dire a Nino:

Mamma comanda e picciotto va e fa. Lo sai chi è la mamma, Nino?

Domanda alla quale Nino risponde affermativamente. Dopo di che qualunque cosa gli viene ordinata è da Nino eseguita con scrupolo. Certo Nino non è del tutto convinto di quel che sta facendo. L'essere vissuto a lungo a Milano, l'avere una moglie settentrionale, una donna emancipata che fuma e si comporta con molta libertà ha pur significato qualcosa per Nino. I dubbi affiorano spesso e in due casi sono talmente vistosi che prima don Vicienzo, poi il boss siculo-americano di New York sono costretti a chiedere se per caso Nino non voglia tirarsi indietro. Ma in Nino prevale la sua "sicilianità" e non si tira affatto indietro, ma va avanti fino a uccidere senza sapere nulla o quasi della sua vittima.
Quel che colpisce in questo film è che è un "film a tesi", per usare un'espressione di Rossellini. Ma colpisce anche l'unilateralità dell'assunto, della tesi del film. Il mafioso, che non si considera tale e ritiene addirittura che la mafia non esista, è talmente impregnato di cultura mafiosa che questa gli sprizza fuori persino dai pori non appena mette piede in Sicilia. Quella cultura è talmente radicata in lui da costituire qualcosa di ineliminabile. Il suo sistema di valori, di cui la superiorità del maschio, l'ossequio alla famiglia d'origine, il rispetto degli "amici" sono cardini essenziali, è eterno e immutabile. E' un film insomma, che contiene in sé tutti gli elementi per costituire una sorta di film-tipo degli anni Sessanta sul Mezzogiorno. Un film nel quale l'identità italiana non solo è indistinguibile da quella locale, per cui finisce per non esistere, ma è anche profondamente disprezzata come immorale. Nino Badalamenti, infatti, è un vero e proprio mostro, capace di uccidere senza chiedere perché, per il solo fatto che la mafia -gli "amici" - lo vuole. Soprattutto èradicalmente incapace di dare spazio a dubbi e a esitazioni.


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