Se, per rispondere
alla domanda del titolo, si vuole impostare il problema in termini
più generali e meno implicitamente ottimisti: nel secolo che
si chiude, i bagliori straordinari delle nuove tecnologie e degli
aumenti di produttività che lasciano intravedere saranno più
forti delle crisi e dei bagliori di guerra che, sul finire del marzo
scorso, sono ricomparsi in Europa?
Non si tratta di un interrogativo retorico o provocatorio se si considera
l'intero quadro del pianeta e se si tiene conto delle varie fragilità
emergenti. Il mondo è come un tavolo con una gamba sola, anche
se si tratta di una gamba centrale molto solida. Quasi un pilastro:
è l'economia degli Stati Uniti, che con i suoi straordinari
risultati e la sua prorompente domanda ha impedito all'economia giapponese
di affondare del tutto, mentre ha facilitato quella stentatissima
ripresa che è possibile intuire nelle economie asiatiche.
Per usare un'espressione ricorrente, gli Stati Uniti si sono rivelati,
nel '98, "importatori di ultima istanza", (o, per dirla
col vicepresidente americano, "importatori di unica istanza"),
un luogo dove gli altri Paesi possono "scaricare" le loro
produzioni senza dover procedere a un difficile rilancio della propria
domanda interna: difficile perché impedito, in certi casi,
da vincoli internazionali che impongono prima il risanamento, in certi
altri da una riluttanza politica alla ridistribuzione interna di reddito
e di potere che tale rilancio richiederebbe.
Pur intrinsecamente solida, l'economia americana presenta tuttavia
non trascurabili elementi di precarietà. Si può aggiungere
che il risparmio degli americani è divenuto negativo: i guadagni
di Borsa hanno consentito una diffusa rivalutazione patrimoniale per
effetto della quale, pur consumando marginalmente più del loro
reddito, quasi la metà degli americani si è ritrovata
più ricca. Ciò accentua la precarietà, in quanto
lo stimolo ai consumi derivante dal cosiddetto "effetto ricchezza"
rischierebbe, nel caso di una caduta di Borsa, di trasformarsi in
un effetto deflattivo estremamente marcato: vedendo diminuire il valore
dei loro patrimoni finanziari, milioni di americani frenerebbero duramente
i loro consumi.
Al di là delle "sei nuvole" che potrebbero oscurare
il cielo economico degli Stati Uniti, (l'onda lunga delle crisi estere,
lo scoppio della "bolla speculativa", un possibile rallentamento
tecnologico, una possibile debolezza fiscale, un ritorno dell'inflazione
per le rigidità del mercato del lavoro, un malessere sociale
legato agli aspetti meno esaltanti del miracolo americano), non va
mai trascurata la possibilità di uno shock di politica estera
che trasformi radicalmente il clima generale di quel Paese e del mondo.
Si pensi, ad esempio, a mutamenti strategici nei rapporti Stati Uniti-Cina
che rendano vulnerabile, nel prossimo futuro, il territorio metropolitano
degli Usa a nuovi missili di Pechino e modifichino sensibilmente l'atteggiamento
di apertura commerciale di Washington; oppure al rialzo di una tensione
russo-americana e alle conseguenze negative sulle Borse di un possibile
infortunio militare, in una o un'altra occasione, magari trascurabile
dal punto di vista strategico ma significativo agli occhi dell'opinione
pubblica.
Al di là di questi fattori politico-militari, i cui sviluppi
appaiono in larga misura imprevedibili, sulle possibilità di
ripresa pesa negativamente il lento accumularsi degli squilibri commerciali.
Le stime per il '99 parlano di un deficit di parte corrente nei conti
degli Stati Uniti di circa 280 miliardi di dollari, pari a quasi un
miliardo di dollari al giorno, domeniche escluse, circa il doppio
del livello del '96. A fronte di questo deficit, si prevede un surplus
complessivo quasi uguale (324 miliardi di dollari) di Giappone (150
miliardi), Europa dell'euro (quasi 100 miliardi) e Paesi emergenti
dell'Asia. E' semplicemente impossibile che una simile situazione
continui indefinitamente. Certo, queste importazioni, a basso prezzo
data la forza del dollaro, costituiscono per gli Usa un vantaggio
non trascurabile e consentono l'espansione della domanda interna senza
inflazione, a ritmi superiori a quelli della produzione. Un simile
accumulo di deficit presenta però pericoli non piccoli, potrebbe
non rivelarsi sostenibile e dar luogo a crolli improvvisi, con immediati
riflessi sull'economia mondiale e una recessione, anziché una
ripresa, globale. Per questo, nella riunione del G7 di Bonn il segretario
del Tesoro americano ha chiamato duramente in causa l'Europa, invitandola
a rilanciare la propria economia.

Si tratta di fornire
una seconda gamba al tavolo della globalizzazione. Se ciò non
accadesse, per usare le parole del ministro statunitense del Commercio,
"la crisi finanziaria del '98 potrebbe diventare la crisi commerciale
del '99". Per questi motivi, il contenzioso commerciale tra Unione
europea e Stati Uniti assume grande importanza e si avverte più
o meno oscuramente che la ripresa mondiale non potrà veramente
verificarsi se non con un ridisegno istituzionale globale: si tratta
delle "nuove architetture", finanziaria e commerciale (e
forse anche politica), delle quali si è cominciato a discutere
con un certo vigore.
Le due chiavi
della ripresa europea
Questo contenzioso sposta l'obiettivo sul Vecchio Continente, e in
particolare sull'Europa dell'euro e sul suo inaspettato rallentamento
congiunturale a partire dalla seconda metà del '98. L'evoluzione
europea dei prossimi mesi assume un valore che va molto al di là
della congiuntura: può veramente l'Europa porsi sul cammino
di una crescita maggiore dell'attuale, può veramente creare
produzione e occupazione?
Per cercare di
rispondere a questa domanda, occorre considerare che le chiavi della
ripresa europea, e, per quanto detto sopra, della ripresa mondiale
sono essenzialmente due: l'espansione monetaria, che è di competenza
della neonata Banca centrale europea (Bce), e la liberalizzazione
economica, la quale invece dipende dai governi nazionali e dalla Commissione
europea. (Una terza possibilità, la riduzione delle imposte,
appare, almeno nel breve periodo, limitata e problematica per i vincoli
del Patto di stabilità). Le due chiavi debbono essere utilizzate
congiuntamente perché la porta dorata della stabilizzazione
mondiale possa essere realmente aperta. Il rischio è che la
Bce e i governi europei continuino a ributtarsi la palla, scaricandosi
reciprocamente la responsabilità e il peso di una manovra di
rilancio.
Nel suo primo "Bollettino mensile" uscito a fine gennaio
'98, la Bce offre spiegazioni abbastanza convincenti della propria
mancanza di azione. Sostiene, non senza ragione, che l'elevato livello
europeo di disoccupazione deriva da motivi in larga prevalenza strutturali
(basti pensare alla forte incidenza in Europa della disoccupazione
di lungo periodo, della disoccupazione giovanile e della disoccupazione
in zone particolari, quali il Mezzogiorno d'Italia e l'ex Germania
orientale); alle radici del malessere la Bce individua con estrema
chiarezza la scarsa flessibilità dei mercati del lavoro europei
e anche l'eccessiva regolamentazione dei mercati dei beni.
A questo si potrebbe aggiungere, come ricorda spesso il Governatore
della Banca d'Italia, il forte carico pensionistico che caratterizza
non solo l'Italia ma l'intera Europa, e che si ripercuote sul costo
del lavoro, determinando una preferenza eccessiva delle imprese per
la sostituzione di lavoro con macchine e imprigionando risorse che
sarebbero, anche solo in piccola parte, meglio utilizzate, in quanto
a stimolo per l'economia, sotto forma, ad esempio, di investimenti
infrastrutturali pubblici o di incentivi agli investimenti privati.
Secondo la Bce, "il tentativo di ridurre la disoccupazione con
una politica monetaria inflazionistica" - che altri, è
doveroso osservare, chiamerebbero solo moderatamente espansiva - "sarebbe
in definitiva votato al successo". La Bce ributta quindi la palla
ai governi, proclamandosi priva di responsabilità in materia
di disoccupazione, chiede loro di fare la prima mossa sulle riforme,
e ribadisce il proprio ruolo di garante della stabilità dei
prezzi e non già della corrispondenza tra domanda e offerta
globale. Alla richiesta di usare la chiave monetaria oppone, insomma,
un netto rifiuto. La risposta dei governi è venuta per bocca
del ministro tedesco delle Finanze. La posizione del governo tedesco
è che il ruolo delle rigidità è stato esagerato
e che anzi le rigidità sono state in buona parte provocate
da una politica monetaria eccessivamente restrittiva, in contrasto
con la politica monetaria espansiva della Federal Reserve degli Stati
Uniti, da considerarsi esemplare.
Si avverte una riluttanza di fondo - comune a tutti i governi europei
espressione della sinistra - a perseguire politiche rapide di liberalizzazione
che si tradurrebbero inevitabilmente nella perdita di privilegi da
parte di numerose categorie (i "pensionabili" più
che i pensionati, i dipendenti di imprese pubbliche o comunque "protette").
Ed è ovvio temere che il primo effetto delle riforme, come
del resto è accaduto negli Usa e in Gran Bretagna, possa essere
rappresentato da una maggiore e non da una minore disoccupazione.
I governi, pertanto, rifiutano di fare uso, se non in maniera estremamente
leggera e in tempi lunghi, della chiave della flessibilità.
Questo "blocco decisionale" caratterizza la situazione europea,
con prospettive assai poco allegre, anche se certo non catastrofiche,
per l'Unione, e con uno scarsissimo contributo alla soluzione dei
problemi mondiali. L'elemento preoccupante è la prevalenza,
dalle due parti, di posizioni estreme. La Bce sembra sottovalutare
l'entità del rallentamento congiunturale e la comparsa di tendenze
deflattive, mentre le socialdemocrazie europee paiono troppo disinvoltamente
evitare di riconoscere la necessità di riforme. Senza volersi
nascondere dietro un salomonico in medio stat virtus, è evidente
che, in mancanza di una qualche forma di compromesso, appare difficile
raggiungere l'obiettivo di una ripresa in grado di modificare le stagnanti
prospettive del Continente.
Appare ugualmente difficile pensare a una ripresa di tipo tradizionale,
ossia largamente incentrata sui consumi, anche in considerazione del,
sia pur moderato, ritardo tecnologico che l'Europa ha accumulato.
Dai trasporti all'informatica, ci sono "reti" da completare,
da rinnovare o da costruire dalle fondamenta, c'è un sistema
dell'istruzione che dev'essere rivisto in profondità, mentre
la minaccia dell'inquinamento e del dissesto territoriale in Paesi
così densamente popolati richiede di certo investimenti massicci.
E ciò che è vero per l'Unione europea appare ancora
più vero per l'Europa orientale, che potrà procedere
solo se riceverà finanziamenti adeguati, preferibilmente nella
nuova moneta europea.
Occorre fornire a un tempo gli strumenti finanziari e quelli istituzionali
di liberalizzazione che rendano possibile un rapido movimento in questa
direzione; in tale quadro, si inserisce la nomina di Prodi a presidente
della Commissione, che si può interpretare come un tentativo
di rilancio della dimensione politica della scelta europea in posizione
dialettica con la dimensione burocratica e con quella monetaria.
Le prospettive
italiane
Nello scenario, grandioso e perturbato, dell'economia globale, l'Italia
assomiglia talvolta a una sedia traballante sul ponte di una nave
che affronta un mare grosso: ciò significa che i fattori interni
di instabilità, legati a un difficile e coraggioso processo
di innovazione politico-istituzionale oltre che economico, interagiscono
in maniera non prevedibile a priori con i fattori esterni, derivanti
dalle vicende dell'economia, della politica mondiali.
Essendo venuto meno il rischio di cambio con l'adesione all'euro,
il collegamento si verifica principalmente mediante il commercio con
l'estero. L'andamento delle esportazioni assume così un'importanza
particolare nella determinazione della congiuntura italiana e su di
esso l'Italia può ormai influire ben poco, essendo legata al
cambio dell'euro e anche agli assetti commerciali dell'Europa, alle
sue aperture e chiusure. Il successo o insuccesso delle esportazioni
dipende in maniera crescente dalla struttura dei costi e in particolare
da quella del costo del lavoro. In Italia, com'è noto, a un
costo del lavoro non particolarmente elevato, sia a livello di lavoratore
dipendente sia a livello di unità di prodotto, fa però
riscontro un "cuneo fiscale" elevatissimo: per ogni lira
di retribuzione effettivamente intascata dal lavoratore, le imprese
ne pagano un'altra allo Stato o agli enti previdenziali.
E' probabile che una vera ripresa italiana passi per una riforma della
struttura salariale (sia della singola busta paga sia dell'architettura
complessiva dei salari), termine sintetico dietro al quale si intravede
una diversa struttura della società. Riformare la struttura
dei salari significa incidere sulla spesa sociale, modificando radicalmente,
e in tempi molto più brevi del previsto, il sistema pensionistico
e aumentando la quota della spesa destinata ai giovani e alle famiglie;
significa tener conto del lavoro degli immigrati, delle sue differenti
tipologie ed esigenze; significa ridurre il carico fiscale e per conseguenza
l'incidenza della spesa pubblica. La struttura dei salari rappresenta
quindi uno snodo particolarmente importante dei problemi italiani.
Il secondo snodo è costituito dal sistema decisionale pubblico.
Si è rilevato come questo sistema di fatto non consente, o
per lo meno rallenta fortemente, la realizzazione delle reti tipiche
dell'odierna economia globale. In questo modo, la leva della spesa
pubblica per investimenti, uno dei pochi strumenti rimasti ai governi
per pilotare le economie, può essere usata solo in maniera
decisamente inefficiente.
Entrambi questi problemi sono sufficientemente lontani dalle ideologie
per consentire, al di là delle drammatizzazioni correnti, un
approccio che non ripeta gli schemi usuali del conflitto politico.
Su entrambi si sono avuti tentativi empirici di cambiamento (le riforme
pensionistiche, le nuove forme di lavoro, le "agenzie"),
senza però un disegno di rinnovamento sufficientemente esplicito
e coerente.
Il rinnovamento ha invece riguardato in modo più consistente
i mercati finanziari, il cui ruolo, nell'attuale economia globale
di mercato, risulta di gran lunga amplificato. Tant'è che ora
come ora attraverso la Borsa italiana stanno passando le più
grandi operazioni di ristrutturazione bancaria e delle telecomunicazioni
che si siano viste in Italia nel corso di due generazioni. Da elemento
secondario del quadro istituzionale, la Borsa è diventata quindi
il principale veicolo del cambiamento; attorno alla Borsa, alla sua
capacità di funzionare correttamente e di inviare segnali giusti,
ruota gran parte della possibilità dell'Italia di mantenere
la propria identità e di continuare ad essere un'unità
autonoma nell'economia globale.
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