Oltre il Muro




Vito Primiceri
Direttore Generale Banca Popolare Pugliese



In principio furono prove d'autore: firme di prestigio per una rivista trimestrale che scandisse due versanti che sembravano difficili da orchestrare, quello economico e quello letterario. Un anno sperimentale, quattro numeri, un bel successo.
La formula, del tutto nuova, sembrava funzionare. Per questo si decise di aumentare il numero delle pagine e di allargare il campo dell'esplorazione scientifica e storico-letteraria.
Il resto è venuto da sé, lungo cinque lustri trascorsi velocemente sul crinale di cento numeri e di oltre duemila tra articoli, inchieste, saggi, e testi narrativi e poetici. Ma perché tutto questo, e perché in un'area lontana dai centri del potere politico e di politica economica?
Per puro plaisir de paraître, per l'esclusiva proiezione dell'immagine della Banca, per un ulteriore accreditamento del suo prestigio, per la diffusione del suo nome oltre gli stessi confini operativi?
Senza dubbio, per queste cose messe insieme, ma non preponderanti nel contesto ideologico che portò al varo del nostro trimestrale. L'input, la scintilla che accese l'idea fu un'altra. Erano i difficili anni Settanta, preludio a quelli che poi sono stati definiti gli orribili anni Ottanta, che determinarono la caduta verticale del Sud, questa terra di tutti i rimorsi costretta a pagare i maggiori costi di tutte le crisi e di tutte le emergenze nazionali. Erano i giorni della ripresa delle emigrazioni, dell'abbandono delle campagne, dell'inurbamento di massa, dei giri di vite petroliferi, della crescita esponenziale del debito pubblico, dell'ampliamento del ventaglio assistenziale, dell'inflazione a due cifre, del risparmio bruciato sull'altare dei consumi non durevoli. Erano i giorni del Sud più nero, quello delle cifre (di tutte le cifre) negative, escluse quelle dei cartelli del crimine. Le fughe all'estero avevano stravolto persino il saldo demografico.
Il futuro era una cambiale in bianco, come disse un meridionalista sensibile e impegnato, Vittore Fiore. A meno che non si verificasse una rivoluzione culturale, pacifica e aggressiva, in nome della quale scoprissimo chi eravamo e dove avevamo intenzione di andare, con la determinazione propositiva che era la grande eredità lasciataci dal sottovalutato (e anticipatore) Illuminismo meridionale, ricacciatoci in gola come inettitudine degli "intellettuali di Magna Grecia".
La rivista fu voluta soprattutto per questo, per contribuire a "fare cultura visibile", a trasferire pensiero, a stimolare energie e talenti, a far uscire dalle sabbie mobili dell'incomunicabilità e della solitudine latitudinale. Che a prendere un'iniziativa del genere fosse una Banca non era eccentrico. Una Banca è pur sempre radicata in un territorio, ne è il termometro più affidabile e, nello stesso tempo, il propulsore più sensibile. Sembrò necessario e logico, dunque, mettere a disposizione di tutti uno strumento di conoscenza, che fosse insieme fonte di comunicazione e palestra in cui esercitare le proprie capacità creative.
Si partiva dal presupposto fondamentale della conoscenza a disposizione di tutti: una volta che la Puglia e il Sud fossero riusciti a superare le barriere istituzionali alla crescita, sarebbero stati in grado di farne uso al meglio, perché potevano evitare gli errori commessi dai predecessori, evitando false partenze e scelte sbagliate in un territorio minato qual era il Mezzogiorno del tempo. Il Sud nero di cui abbiamo detto, il Sud straccione confinante con l'Italia opulenta, in una perfetta economia dualistica, con una capacità di esistenza (resistenza) unica al mondo.
La teoria, che si rifà essenzialmente al paradigma di Adam Smith, è che cattivi risultati economici come quelli registrati nel Sud dipendono da cattivi governi.
Ma questa può anche essere una sorta di spiegazione tuttofare per ogni specie d'interferenza, intenzionale o accidentale, con il gioco normale, e naturale, degli interessi individuali all'interno del mercato (corruzione, guerre, pianificazioni sbagliate o funzionali ad interessi diversi da quelli conclamati, ecc.).
La difficoltà è che un qualunque cattivo governo, come una qualsiasi economia inefficiente e improduttiva, non è accidentale. Non si tratta solo di un problema politico. Esso riflette meccanismi istituzionali e valori di gruppo profondamente radicati. Per di più, poi, un cattivo governo, che impedisce il progresso tecnologico e la crescita economica di un'area, introduce un fattore temporale (il ritardo), che a sua volta influisce sulle prospettive future. Al ritardo si pone rimedio contando solo su se stessi, assorbendo know-how, perché contare su fattori istituzionali (governativi) significa, come l'esperienza italiana e meridionale ha insegnato, affrontare tempi lunghi, strumentali go and stop, condizionamenti burocratici. E quella dei tempi è questione essenziale. In sintesi: la prima rivoluzione industriale vide l'invenzione della macchina a vapore e l'aggiunta del carbone alle scorte di combustibile per la produzione industriale.
La seconda si basò essenzialmente sull'invenzione del motore a combustione interna e all'introduzione dei combustibili fluidi e gassosi, ai quali si aggiunse a distribuzione di energia in forma di elettricità. La terza, nel corso della quale viviamo, si credette fosse destinata a creare un potere basato sull'atomo.
Ma questo finì con lo svolgere un ruolo minore del previsto.
Nel frattempo, l'invenzione del transistor e dei circuiti integrati ha promosso la miniaturizzazione, che a sua volta ha consentito ingenti progressi nell'efficienza lavorativa e conseguenti risparmi d'energia.
Ebbene, l'accelerazione del tempo ha giocato un ruolo di fondo: la prima rivoluzione industriale incominciò intorno al 1770, e un secolo dopo era in sostanza compiuta. La seconda fu realizzata dalle due generazioni a cavallo della Grande Guerra. L'ultima ha occupato lo spazio di una solo generazione.
Le rivoluzioni tecnologiche sono sempre più frequenti e si sviluppano sempre più rapidamente, in base alla continua produzione di conoscenza e alla ricerca sistematica di possibilità di applicazione.
Ebbene: se tanti giovani nella nostra terra hanno preso coscienza di tutto questo, se hanno realizzato la spinta centrifuga contro il ritmo del tempo antico, se, senza rinunciare alla formazione umanistica che fu patrimonio inalienabile degli "intellettuali di Magna Grecia", hanno varcato le frontiere della scienza e della tecnica, hanno intrapreso, hanno piantato fabbriche e tralicci fra gli ulivi, hanno sostituito alle maledette cattedrali nel deserto il tessuto connettivo delle piccole imprese, in buona parte esportatrici, comunque creatrici di ricchezza per tutti, forse una parte di merito va attribuita anche a noi, al messaggio secondo il quale è la scienza a dover dirigere la tecnologia, ed è la conoscenza a dover presiedere alle scelte economiche e produttive. In questo senso, e soprattutto in questa direzione, tanti Sud si sono tirati su e si sono messi in marcia.
E riflettendo su questo, possiamo dire che il nostro non è stato un lavoro inutile, ma al lavoro degli altri si è crocianamente congiunto, "sostenendoli e ingenerando modi, abiti e azioni affini". Come speravamo in principio.
E come Apulia è determinata a fare finché avrà vita e voce.


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