§ Analisi

Regole per la stabilità




Mario Sarcinelli



La debolezza dell'euro, i progressi del dollaro, gli interventi delle Banche centrali per stabilizzare lo yen sono stati gli elementi che negli ultimi tempi hanno riproposto i temi della stabilità delle valute e del sistema finanziario internazionale. Ed è sempre presente in un mondo finanziario, ma anche reale, che si integra sempre più sino a tendere all'unificazione, il rischio che i focolai di crisi si espandano sino a contagiare mercati e Paesi con i quali i legami diretti sono minimi o anche assenti. Negli ultimi due-tre decenni la frequenza delle crisi ha generato la convinzione che il loro moto stia accelerando. Nell'ultimo biennio abbiamo dovuto registrare la crisi del Sud-Est asiatico, dalla quale quei Paesi stanno fortunatamente emergendo; quella russa, sulla quale Damocle mantiene ancora sospesa la propria spada; quella brasiliana, che dopo l'abbandono del vincolo di cambio non ha provocato, con sollievo di tutti, lo sconquasso che si temeva per le altre economie dell'America Latina. L'attesa quindi di miglioramenti all'architettura del sistema monetario internazionale per ridurre il ritmo con il quale si stanno producendo le crisi è più che giustificata.
Com'è noto, una risposta è venuta dal vertice dei ministri delle Finanze del G-7, tenutosi a Colonia. Costoro hanno approvato un lungo rapporto nella prospettiva di accrescere la stabilità. Un passo in avanti che va considerato positivamente?
Un esame particolareggiato di tutti i temi del documento è impossibile in un breve articolo, ma per rispondere alla domanda sembra sufficiente concentrarsi sul capitolo concernente il rafforzamento e la riforma delle istituzioni e degli accordi finanziari internazionali e su quello dedicato al miglioramento delle politiche macroeconomiche e ai sistemi finanziari dei mercati (cioè dei Paesi) emergenti, dunque i luoghi nei quali si sono materializzate le crisi più recenti.
Francamente, la lettura del primo dei due capitoli è piuttosto deprimente. Dopo aver richiamato la costituzione del Nab ("New arrangements to borrow") allargato a 25 Paesi che ha sostituito il vecchio Gab ("General agreements to borrow") cui partecipavano i principali Paesi industrializzati e con un accordo parallelo, nell'ultima configurazione, anche l'Arabia Saudita, nonché quella del Foro per la stabilità finanziaria per rafforzare la cooperazione internazionale e il coordinamento nell'area della supervisione e della sorveglianza dei mercati finanziari, il testo si dilunga su aspetti che vanno da quello organizzativo a quello puramente nominalistico.
Sotto il primo profilo è da approvare senza riserve l'invito ad allargare la partecipazione al Foro a centri finanziari importanti in un formato che permetta un dialogo efficace. Personalmente avevo già criticato la limitazione del Foro al G-7, che già ha tante occasioni per incontrarsi e scambiarsi idee e informazioni. Molti dubbi solleva, invece, l'istituzionalizzazione della riunione dei supplenti dei membri del Comitato internazionale monetario e finanziario (il successore del Comitato interinale) poco prima della riunione ministeriale; da un lato, essa toglie significato alla tradizionale preparazione da parte dei supplenti del G-10, dall'altro rischia di depotenziare il Comitato esecutivo del Fmi e, forse, di interporre un nuovo diaframma prima della discussione tra ministri, con buona pace dell'accresciuto ruolo politico che soprattutto i francesi volevano assegnare al supremo organo di governo del Fmi con la trasformazione in Consiglio.
Se dopo un quarto di secolo è stato opportuno dare finalmente un nome a un Comitato che per la sua supposta temporaneità venne chiamato semplicemente interinale, il suo status non è affatto mutato; si esclude ovviamente il "ruolo privilegiato" che nel nuovo Comitato è assegnato al presidente della Banca mondiale, ulteriore segno, però, dell'appannamento dell'immagine del Fondo a vantaggio dell'istituzione dirimpettaia. Dell'enfasi posta dai francesi sulla trasformazione del Comitato interinale in un vero e proprio Consiglio nel quale prendere decisioni con votazioni formali al fine di ridurre l'influenza preponderante che l'attuale modus decidendi di fatto assicura agli Stati Uniti, nemmeno l'ombra, solo la consueta formula che il problema verrà mantenuto sotto osservazione.
Sul piano formale v'è ancora da registrare la possibilità di congiunte riunioni del nuovo Comitato finanziario e monetario internazionale con l'esistente Comitato per lo sviluppo quando vi è una chiara sovrapposizione delle rispettive responsabilità; su quello informale, la creazione di un meccanismo di dialogo tra Paesi importanti sotto il profilo sistemico nell'ambito delle istituzioni di Bretton Woods. Non può non sorprendere il fatto che una struttura informale venga prevista in un atto formale come un rapporto disponibile per l'urbe e per l'orbe; di solito, gli accordi e le procedure non formalizzate restano tali fino a quando non sono esplicitati in un qualche documento. E' facile immaginare quanti saranno i Paesi che si sentiranno sistematicamente importanti.
Per quanto riguarda il concreto operare del Fmi, si va dal rafforzamento del monitoraggio alla concentrazione sui segmenti per i quali ha un vantaggio comparato, dall'utilizzazione dell'esperienza accumulata per migliorare l'azione di sorveglianza alla valutazione sistematica, interna ed esterna, di procedure, politiche e programmi, per finire con un'accresciuta accountability dell'istituzione attraverso un miglioramento della trasparenza, delle procedure decisionali e del tempestivo flusso di informazioni. Se Jeffrey Sachs e altri sostenitori della necessità di abolire il Fmi non hanno visto accolte le proprie tesi radicali, non appare dubbio il ridimensionamento nell'immagine e forse anche nel ruolo dell'istituzione principe di Bretton Woods. Tutto ciò, in nome del rafforzamento dell'architettura del sistema finanziario internazionale.
L'altro punto al quale dedicare qualche cenno concerne i regimi di cambio nelle economie emergenti che sono parte del processo di rafforzamento delle politiche macroeconomiche e dei sistemi finanziari dei Paesi in via di sviluppo. Dopo aver richiamato l'importanza del regime di cambio per la singola economia nella propria traiettoria di sviluppo e le rilevanti implicazioni che ne derivano per l'economia mondiale, il rapporto afferma: "Noi abbiamo convenuto che il più appropriato regime di cambio per una data economia può essere diverso, dipendendo dalle particolari circostanze economiche, quali il grado di integrazione con i Paesi con i quali commercia. Poiché le circostanze economiche variano nel tempo, il più appropriato regime per un dato Paese nel tempo può variare".
La stabilità, quindi, non viene ricercata, almeno in parte, nel sistema istituzionale di cambio che si ritiene mediamente più rispondente nell'attuale contesto economico internazionale globalizzato e imperniato sulla libertà del movimento di capitali - cioè i cambi flessibili - ma in politiche economiche coerenti e in sistemi finanziari robusti. Questa dichiarazione non mi sembra che innovi sulla sostanza delle decisioni che furono prese nel gennaio del 1976 a Kingston, in Giamaica, in base alle quali venne riformulato l'articolo IV dello statuto del Fondo monetario internazionale che lasciò ogni Paese libero di scegliere il sistema di cambio che avesse preferito.
Due considerazioni si impongono. La prima è che questa facoltà lascia arbitri i mercati di scommettere sull'abbandono del regime di cambio fisso o aggiustabile in vigore, quale che sia il volume delle riserve, come il caso del Brasile insegna. Ciò crea shock che potrebbero essere diluiti e meglio assorbiti dal sistema se il cambio, essendo flessibile, comincia a segnalare l'incipiente sfiducia dei mercati e si comporta come un ammortizzatore automatico. La seconda è che la responsabilità della stabilità viene assegnata completamente ai comportamenti delle autorità attraverso la coerenza delle politiche macroeconomiche e la solidità del sistema finanziario.
Anche a voler far credito a tutto l'apparato "educativo" che il rapporto sottolinea e raccomanda, come la diffusione di informazioni, la diligente applicazione di princìpi consacrati in manuali e l'adozione delle "prassi migliori", si dimentica che la conoscenza del passato è spesso di scarso aiuto, che quello del presente è di necessità limitata, quella del futuro è solo un insieme di scommesse; che esiste un ciclo elettorale che incide pesantemente su quello economico; che la continuità dei governanti e delle politiche che esprimono è nemica della democrazia. Ecco perché maggiore affidamento dovrebbe essere fatto su regole istituzionali, soprattutto su quelle che sono espressione del mercato. Ricordando un motivo d'altri tempi, mi sono sorpreso a canticchiare: "E la chiamano riforma...".


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