§ Che Italia fa

Ma quale lavoro?




Franco Bertelli



Non è la prima volta che si tocca un nervo scoperto della nostra economia (e della nostra società). L'occupazione, l'illustre ignota. Per lo meno negli ultimi quattro anni. Un vuoto di idee, nella lotta alla disoccupazione, colmato saltuariamente dalla demagogica invenzione dei lavori cosiddetti "socialmente utili". Per molti economisti, non soltanto italiani, non è in questo modo che si crea occupazione stabile, ma creando posti di lavoro professionalmente avanzati. Hanno le idee chiare, questi economisti, e per questo suggeriscono di insistere sulla ricerca e sulla formazione, "le due maggiori risorse disponibili". Molti settori della politica nostrana oggi si dichiarano in sintonia con questa linea di condotta, e ormai soltanto una minoranza ha voglia di difendere questa sorta di sussidio di disoccupazione mascherato, buono a creare semplicemente grandi aspettative e altrettanto grandi delusioni.
Capolinea in vista? Intanto, questi "lavori" non hanno mai realmente funzionato, anche perché si è gestito un serbatoio che si è riempito in momenti precedenti. Adesso è tempo di prosciugare l'area di questo tipo di impiego e trasformarla almeno in parte in imprese produttive. C'è chi, in proposito, osserva che il governo non ha più i mezzi per fare una politica di sviluppo. Abbiamo trasferito la nostra sovranità in materia economica all'Europa e in questo momento l'Italia è costretta a fare il vaso di coccio tra i vasi di ferro. In altri termini: è molto più facile parlare di occupazione che crearne. Da tempo sosteniamo che il lavoro è la nostra più grande preoccupazione, la priorità delle priorità, insomma l'emergenza più eclatante. Ma il problema è che la politica economica dell'Italia, grazie anche alle complicazioni amministrative, non accresce, ma semmai diminuisce o svilisce lo sviluppo. Non a caso Antonio Marzano, autore della sprezzante denominazione di "lavori socialmente futili", continua a sostenere che essi sono negativi anche sul piano morale. Con questi strumenti, afferma l'economista salentino, si abitua la gente a ricevere una remunerazione senza che ad essa corrisponda un'attività produttiva.
Ma quali sono le cifre di questa specie di limbo del lavoro solidaristico? Circa 140 mila persone sono impiegate per meno di un milione al mese. Di qui, le accuse di assistenzialismo statale. E che cosa sono, in realtà, i "lavori socialmente utili"? Lo strumento è stato adottato dal ministro del Lavoro del governo Prodi, Tiziano Treu, per riqualificare e rimettere nel circolo produttivo tutti i lavoratori in mobilità oppure in cassa integrazione guadagni. Previsti dalla legge 608 del 1996, in seguito sono stati estesi anche ai disoccupati di lunga durata. Nelle intenzioni, i lavori socialmente utili riguardano una fase transitoria, una fase nel corso della quale si devono porre le premesse per ricreare occupazione.
I disoccupati di lunga durata prendono 800 mila lire al mese, ma senza alcun tipo di contributo. Coloro, invece, che vengono dalla mobilità o dalla cassa integrazione continuano a percepire l'assegno precedente, in media intorno al milione di lire. Per finanziare i lavori socialmente utili sono stati stanziati 1.200 miliardi di lire per il '99 (nel '98 sono stati messi a disposizione 1.186 miliardi di lire), ripartiti per regioni. La parte del leone la fa la Campania, alla quale vengono destinati 302 miliardi, seguita dalla Puglia (143 miliardi) e dalla Sicilia (107 miliardi).
I lavoratori che fruiscono del sussidio di disoccupazione sono (al 30 giugno dello scorso anno) 138.969. Per la più gran parte si tratta di operai (105.481). Gli impiegati sono 33.155, mentre i quadri sono appena 333 in tutta la penisola. Le regioni che ricorrono di più a questo tipo di lavori sono la Sicilia (41.958 lavoratori) e la Campania (32.720).
All'inizio i progetti dovevano durare sei mesi, prorogabili fino a un massimo di due anni. Ma con l'ultimo disegno di legge collegato alla finanziaria si è data una stretta e si è messo un limite. Chi abbia maturato almeno dodici mesi di lavori socialmente utili, nel periodo che va dal primo gennaio '98 alla fine del '99, potrà usufruire di alcune facilitazioni, come gli incentivi al pensionamento. Inoltre, sono previsti benefici per le imprese che decidono di assumere unità comprese nel giro dei lavoratori socialmente utili.
Dicevamo anche delle complicazioni amministrative e burocratiche, che rendono vischiose le possibilità di sviluppo nel nostro Paese. Ebbene, siamo nella moneta unica europea, la proprietà delle imprese è finalmente "contendibile", lo Stato imprenditore ha fatto alcuni passi indietro, anche se stenta ad abbandonare del tutto il settore dell'imprenditorialità (con fini un giorno sociali o solidaristici, oggi soltanto di controllo di alcune grandi imprese). Però abbiamo bisogno di crescere, e in fretta, aumentando il reddito e soprattutto l'occupazione. E non lo potremo fare, fino a che non disporremo di mercati liberalizzati e di istituzioni pubbliche normalmente efficienti. Strada, questa, già battuta con successo da Paesi come l'Irlanda, il Regno Unito, il Portogallo, la Spagna.
Partita decisiva, partita estremamente difficile, visto come continuano ad andare le cose in Italia. Perché è proprio nell'Italia non inquadrata dai grandi riflettori, quella apparentemente minore, che si consuma una guerra di resistenza fatta di leggi e di leggine, di regolamenti e di concessioni, di piccole protezioni e di grandi arroganze. Proprio qui sta il nostro Vietnam quotidiano. Quando prendiamo un treno o quando entriamo in un aeroporto. Ma anche in farmacia, nelle autoscuole, nei pubblici servizi e in definitiva in tutti quei luoghi dove esistono forme di restrizione della concorrenza di prezzo, esercitate attraverso diffusi interventi di fissazione e di approvazione di prezzi e tariffe. La Roma dei palazzi politici e dei "poteri centrali" ha sicuramente difetti immensi, ma in periferia le cose non vanno poi tanto meglio.
Il presidente della Camera ha puntato il dito contro quelle regioni che sfornano leggi "regressive sul piano dell'apertura dei mercati e della concorrenza rispetto a decisioni comunitarie già recepite, oppure incoerenti rispetto alla legislazione nazionale di principio". Pochi dati fanno riflettere, in barba alla conclamatissima "deregulation": il numero delle leggi statali è cresciuto, fra il 1990 e il 1998, del 12 per cento, passando da 9.768 a 11.009; ma nello stesso arco di tempo le leggi regionali sono aumentate del 55 per cento passando da 12.515 a 19.251.
Il partito dei poteri locali è fortissimo, trasversale a tutte le forze politiche, e persino ben radicato nello stesso Parlamento. E il rapporto dell'Antitrust, a partire dalla liberalizzazione del commercio, ancora oggi realizzata soltanto in parte, costituisce un atto d'accusa durissimo nei confronti delle amministrazioni regionali, provinciali e comunali, portatrici di una "cultura corporativa" e colpevoli, spesso, di imporre regole che "ostacolano ingiustificatamente l'entrata di nuovi concorrenti sul mercato".
E' questo Paese chiuso, sordo alle esigenze degli utenti e dei consumatori, che frena l'attività d'impresa, blocca lo sviluppo, inibisce nuova occupazione. E non è sufficiente, a questo punto, liberalizzare solo il mercato del lavoro. Ha ragione chi osserva che più flessibilità non significa automaticamente più occupazione, se un regime vincolistico impedisce l'ingresso sul mercato di nuove imprese. Infatti, puntando solo sulla flessibilità, avremmo imprese (quelle che già ci sono) più libere, ma forse più interessate a ristrutturare che non ad allargare le capacità produttive.
Nel momento in cui sta cambiando palesemente il volto del capitalismo italiano, i richiami contro un Paese bloccato non possono lasciare indifferenti gli imprenditori. L'accettazione fino in fondo del mercato e delle sue regole deve essere necessariamente pratica quotidiana. Le nostre imprese non hanno bisogno di protezioni, né di natura pubblica né privata. L'ingresso di nuovi operatori sui mercati nazionali dev'essere visto come una sfida da affrontare, come un esempio da seguire, e non come una minaccia da contrastare. Meno vincoli, più imprese, più concorrenza, più occupazione. Altro che lavori socialmente utili, o altre scorciatoie eternamente assistenzialistiche. E sia chiaro: tocca anche agli industriali fare la loro parte.


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